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27-11-2009, 13.05.16 | #142 | |
Ospite abituale
Data registrazione: 30-09-2004
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Riferimento: Dio non esiste
Citazione:
Poniamo O come momento della tua nascita in questo forum cioè 25-07-2009 e -t1, -t2, …. - t infinito, gli anni ( o qualsiasi unità di tempo) che precedono la tua iscrizione. Dopo la tua iscrizione al forum ti poni ipoteticamente in un tempo antecedente a tua scelta –t1, - t2 …-t infinito. Da qualsiasi punto -t puoi affermare, perché sai in che momento sei effettivamente nato ( iscritto) , “ nascerò il 25/07/2009 ". Non cambia alcunché la quantità di anni che precedono quel punto temporale ipotetico nel quale ti sei posto. se tu ti mettessi ad aspettare un infinità di ore non mi vedresti mai nascere. Da che punto temporale ipotetico dovrei mettermi per aspettare una infinità di ore prima della tua nascita? Non può esistere questo punto temporale ipotetico perché da qualunque punto temporale –t allo zero c’è necessariamente un numero finito di anni. Ciao |
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27-11-2009, 14.44.49 | #143 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Dio non esiste
Citazione:
sono d'accordo, ma questa matematica analizza solo un tipo di visione del tempo che è quella soggettiva o comunque relativizzata ad un evento posto come 0. Però il tempo scorre solo in un senso, non è che prima di un certo momento 0 il tempo scorreva all'indietro, il tempo che scorre in senso oggettivo dovrebbe avere sempre direzione o segno positivo poichè chiunque lo esperisce solo in un senso (io non ho mai vissuto il tempo all'indietro). Ed è propio per questo che le somme matematiche prese a quantità (cioè in valore assoluto non tornano). quello che asserivo io primo era semplicemente un discorso di somma dei valori assoluti. 2 + 2 = 4 infinito + 3 = infinito infinito + infinito = infinito appena compare il termine infinito la somma da sempre infinito. solo se ricorro ai segni posso far tornare le cose ovvero: -infinito + infinito = 0 che sarebbe l'inizio dell'evento. ed infatti relativizzo tutto ad un evento preso come 0 (per questo si chiamano numeri relativi) In poche parole forse il discorso è che è impossibile numerare un retta infinita che ha solo un senso. e forse ciò vuol dire che è impossible comprendere perchè vi è il tempo infinito, ma è possibile capire il tempo in relazione ad un evento. mi sa che tutto ciò è troppo complicato per me, forse tra qualche anno riusciro a fare un poì di chiarezza, FORSE. Comunque ringrazio tutti coloro che mi hanno voluto seguire e mi hanno voluto esporre le loro ragioni in questa tematica puramente logica che forse essendo poi cosi cruda non è poi così coinvolgente. |
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27-11-2009, 19.14.45 | #144 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Dio non esiste
Citazione:
La storia non si computa allo stesso modo, nel calendario gregoriano? In ogni modo apprezzo il tuo modo umile di porti e di discutere. Spero che tu continui a frequentare il forum. Tommaso d'Aquino preferisce affermare che Dio è l'ordinatore dell'universo... e Agostino d'Ippona dice cose interessantissime sulla creazione e sul tempo. Pensare l'universo come infinito nel tempo non contrasta col ruolo primario, determinante e fondamentale di Dio, almeno per me. Ciao Giuseppe |
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28-11-2009, 14.43.18 | #145 |
Ospite abituale
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Messaggi: 164
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Riferimento: Dio non esiste
se posso permettermi un piccolo intervento, non credo che anche determinare se il tempo sia infinito o meno aiuti a capire se dio esiste o no - l'insieme tempo, che sia infinito o no resta sempre un'unità di tempo se visto al di fuori di esso, e se esistesse un dio non credo che vivrebbe dentro il tempo di ciò che ha creato, sarebbe paradossale, quasi come se uno scrittore entrasse nel tempo di ciò che scrive, sono livelli qualitativi dell'esistenza.
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28-11-2009, 16.12.48 | #146 |
Ospite abituale
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Messaggi: 1,272
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Riferimento: Dio non esiste
Anche per me, Giorgiosan è così: anzi, proprio se l’idea di Dio si spoglia di quanto i religiosi col loro santo zelo hanno voluto aggiungere a quell’impulso verso l’assoluto che è il fondamento della fede, egli può diventare il fine del tempo, unendo assoluto e infinito in un’unica sintesi.
Vorrei però osservare che la nostra argomentazione ha lungo la strada perso il motivo che l’ispirava, trasformandola in ragionamenti su Dio, non preceduti da un’eventuale confutazione di quanto espresso senza tanti complimenti da Orabasta, cioè che Dio non esiste ed è ora di finirla con una fede che è una perdita di tempo ma che, io aggiungo, si basa su una concezione di Dio che non è quella – diciamo così - fondamentale. Ora, mi pare giusto riprendere le fila di un’argomentazione interrotta e certo ben lontana da una soluzione filosofica convincente, perché l’impegno di controbattere Orabasta solleva non solo la sporadica protesta dei religiosi, ma la filosofica millenaria questione delle prove dell’esistenza di Dio. E chi si sente di aggiungere alle cinque di san Tommaso quella sesta prova che egli ha voluto presentare, magari senza troppa enfasi, forse per non mettersi in urto con i custodi dell’ortodossia che già gli avevano creato imbarazzi all’università di Parigi? Parlo di ciò che ha espresso forse un po’ larvatamente quando, rivendicando a sé il ruolo di filosofo, cioè di ricercatore della verità, avvertiva che è necessario valutare bene le proprie forze, e che è inutile spendere tanto tempo e fatica per arrivare a un traguardo che la chiesa ti mostra fin dall’inizio: e lascio a voi di decidere se il ragionamento – che stranamente sembra riflettere quello di Orabasta quando parla di perdita di tempo - sia corretto per un filosofo: cioè se non sussiste qualche pericolo di confondere metodi e compiti differenti: quello della ricerca incondizionata di una verità che sorpassa ogni misura di tempo e quello di una ricerca condizionata dalla fede, cioè dalla certezza che la verità è qui, a portata di mano, cioè è quella che ti offre la chiesa o – per prenderla più alla larga - un libro come la Bibbia. Cioè se la tua vita è sempre troppo breve di fronte a una questione che è già costata millenni di sforzi, anatemi, martiri e lotte all’ultimo sangue. |
29-11-2009, 07.29.06 | #147 | ||
Ospite abituale
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Citazione:
D'accordo sul tempo, non è certamente determinante la questione. La concezione di un Dio impassibile e fuori dalla storia non è, invece, la mia. Credo in un Dio profondamente coinvolto nella storia così come lo è ogni essere umano. Sono convinto che molti confondono la metafisica con la realtà e non riescano a comprendere che la metafisica sta al reale come il cartello stradale dei lavori in corso sta agli operai che li effettuano. Citazione:
La fede cristiana non è impulso verso l'assoluto è fede in un uomo di nome Gesù ( Cristo) che si è dichiarato Signore o Dio. E' quindi un Dio nella storia come ogni essere umano. Orabasta ha detto in sintesi che Dio non esiste perchè non potrebbe coesistere col male....ed essendo la permanenza del male evidente se ne conclude che Dio non può esistere. Non può esistere quel Dio che lui concepisce, è vero. Quello, invece, che altri concepiscono può coesistere col male tanto più che la prima vittima del male per costoro è proprio Dio. Vedi emmeci tutto dipende da cosa si intende per Dio. Ultima modifica di Giorgiosan : 29-11-2009 alle ore 21.32.10. |
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05-12-2009, 00.44.03 | #148 | ||
Ospite abituale
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Riferimento: Dio non esiste
Mi permetto inserirmi in questa discussione, anzitutto scusandomi del fatto che non ho letto tutto quanto è stato scritto in precedenza (onestamente -lo debbo confessare sinceramente- ho cominciato, ma strada facendo mi sono perso...).
Credo, cmq., che le parole scritte da Giorgiosan a chiusura del suo ultimo post (e che quoto di seguito) possano essere utili per introdurre l'argomentazione che vorrei sottoporre alla comune attenzione: Citazione:
Orabasta, che ha aperto questa discussione, ha scritto nel suo primo post: Citazione:
Iniziare così l'argomento mi fa sorgere una domanda: la definizione che è stata data di dio da dove la si è presa? Ipotizzo alcune risposte possibili (l'elenco è passibile di miglioramenti o integrazioni): - dalla fede (propria o altrui); - dall'esperienza "diretta" (propria e non altrui, in quanto assumere come vero il contenuto di un'esperienza altrui presuppone un atto di fede in chi l'accoglie); - dallo studio e dall'approfondimento (proprio o altrui); - altro [???] (da specificare per il contributo di qualcuno dei lettori del presente intervento). La domanda non è oziosa, poichè da essa dipende il punto di partenza dell'analisi o dell'argomentazione che ciascuno porta avanti. Dunque, se la definizione di Dio che è stata data dipende dalla fede, l'interrogativo si sposta; non più se esiste o no il dio definito "così e così", piuttosto da cosa dipenda l'atto di fede che ha fatto assumere come vera la definizione; ossia, perchè questa definizione di dio la si è assunta come vera? Se, invece, essa dipende da una esperienza (cfr., Bernardo di Chiaravalle, Giovanni della croce, Blaise Pascal...), allora -dal punto di vista strettamente filosofico- la definizione può anche essere rigettata (almeno all'origine dell'indagine), in quanto questo personale “contatto” non è di tutti; infatti, per avere una qualsivoglia conoscenza, e quindi anche una conoscenza di dio, si deve partire da ciò che è accessibile a tutti gli uomini. Non resta che lo studio e l'approfondimento personale; ma in questo caso, prima ancora o contestualmente alla definizione, si devono fornire le ragioni che hanno indotto a formularla; viceversa ci sarebbe una tacita richiesta di fiducia al lettore da parte di chi ha messo per iscritto la definizione stessa (ossia, si chiederebbe a chi legge un atto di fede... ma in filosofia non ci sono questioni passate "in giudicato", poichè l'atteggiamento del filosofo è quello critico, quello -per usare le parole di Sofia Vanni-Rovighi- di estrema/massima spregiudicatezza). Ma vorrei insistere sul perchè (quando "si filosofa") non si può partire da una previa definizione di dio (forse per la formazione tomista che mi porto come zavorra sul groppone) e specificarne le motivazioni. Anzitutto per una motivazione di natura polemica. Se, infatti, cominciassimo col definire dio, dovremmo far nostro il rimprovero che Senòfane di Colofone formula in uno dei frammenti che la tradizione gli ha attribuito, nel quale c’è testualmente scritto: «se i buoi, i cavalli o i leoni avessero mani o disegnassero con le zampe e facessero lavori come gli uomini, i cavalli disegnerebbero le figure degli dèi uguali ai cavalli e i buoi uguali ai buoi, e ne farebbero i corpi, per la forma, tali e quali come ciascuno di essi stessi li ha» (DK 21 B 15). In altre parole, se partissimo da una previa definizione di dio, dimostreremmo che “egli è come diciamo noi”, cioè alla fine arriveremmo ad un “dio fatto in casa da noi”; saremmo noi, in altre parole, a dire come deve essere dio per essere/esistere, e non, invece, che lo conosciamo così come egli è, al di là di ciò che pensiamo, vogliamo, crediamo o speriamo di lui. Inoltre -ed è questa la motivazione teoretica che attingo da Tommaso d'Aquino-, per partire da una previa definizione di dio (la quale ci dà la nozione di dio, cioè ci dice come è dio nel suo essere proprio) dovremmo avere un’intuizione diretta dell’essenza divina (ossia dovremmo percepire, conoscere, o più semplicemente sapere in anticipo ciò che dio è). Infatti, Anselmo in Proslogion 2 formula questo argomento: «Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma ciò che esiste nella realtà e nell’intelletto è più grande di ciò che esiste soltanto nell’intelletto; dunque, Dio, che esiste nell’intelletto di colui che comprende il significato di questo termine, esiste anche nella realtà»; ed in Proslogion 3 quest’altro: «Ciò che non si può pensare non esistente è maggiore di ciò che si può pensare non esistente; dunque, Dio non può essere pensato non esistente, essendo ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore». A tale argomentazione (mi esprimo al singolare in quanto le due formulazioni possono essere ridotte ad una, almeno nel contenuto di fondo), che pone come evidente l’esistenza di dio (poiché, come abbiamo accennato in precedenza, ne formula previamente la definizione, come se di essa ne avessimo intuizione diretta), si può replicare dicendo che le proposizioni sono evidenti in due modi: a. in se stesse (secundum se); b. in se stesse e rispetto a noi (secundum se et quoad nos). Sono evidenti “anche rispetto a noi” le proposizioni di cui conosciamo i termini che le compongono, ossia quelle di cui ci è chiaro il significato del soggetto e del predicato. Per esempio, la proposizione “ogni tutto è maggiore della sua parte” può essere evidente in sé ma non per noi (infatti, se non sapessimo cosa significa “tutto” e cosa significa “parte”, non capiremmo cosa essa vuol dire); invece, non appena apprenderemo il senso dei termini “tutto” e “parte” (cioè del soggetto e del predicato che la compongono) diverrà evidente anche rispetto a noi. Ora, la proposizione “dio esiste” (oppure: “dio è esistente”) è evidente in se stessa (basta analizzare i termini per rendersene conto; infatti, il soggetto -cioè dio- è “l’essere per essenza”, quindi deve necessariamente esistere, in quanto l’essere è il suo modo di essere; in altre parole, la sua essenza -cioè la sua stessa identità- è l’essere; ma tutto ciò lo si potrà affermare soltanto alla fine dell'indagine) ma non anche rispetto a noi, poiché non cogliamo immediatamente il rapporto necessario che di essa unisce tra loro il soggetto (cioè "dio") ed il predicato (cioè "esistente"), in quanto non abbiamo alcuna conoscenza positiva dell’essenza divina (cioè, all'inizio non sappiamo se Dio è effettivamente “l’essere per essenza”). In altre parole, noi nel presente stato di vita, non avendo un’intuizione diretta dell’essenza divina (infatti, su quale base -se escludiamo la fede- possiamo dire, all’inizio dell’indagine, che dio è “l’essere di cui non si può pensare il maggiore” oppure “l’essere per essenza”?), non possiamo affermare immediatamente l’esistenza di dio; soltanto dopo averne dimostrato l’esistenza e, quindi -in qualche modo- acquisito il concetto (cioè che a dio compete la necessaria esistenza), comprenderemo che è impensabile la sua non esistenza (appunto perché egli è l’essere necessario). Ma tutto ciò, all’inizio dell’indagine, non implica l’evidenza immediata che dio esiste, perché, di fatto, prima di averne dimostrata l’esistenza non abbiamo un vero concetto di dio; e quindi, in mancanza di un’autentica nozione (previa, cioè, alla dimostrazione), possiamo benissimo pensare che Dio non esista. continua... |
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05-12-2009, 00.46.29 | #149 |
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Riferimento: Dio non esiste
continua dal post precedente...
L’obiezione critica che può sollevare la suddetta riflessione è formulabile in questi termini: come si fa a cercare ciò di cui non si ha alcuna idea? Cioè, come si può trovare ciò che non si conosce? Oppure ancora, come ci si può avventurare nella ricerca di qualcosa di cui non si sa assolutamente nulla? Una siffatta ricerca non rischia di essere fallimentare ancor prima di cominciare, ossia sin dall’inizio? Infatti, se anche si riuscisse a trovare qualcosa, come si potrebbe affermare che è proprio ciò che si stava cercando? Chi non sa cosa cercare, non saprà mai se ha trovato ciò che cercava! A questi interrogativi (presi nella loro globalità, ossia nel nucleo tematico che li accomuna) si può replicare che il loro presupposto, ossia la motivazione di fondo da cui partono, è questo: quando si comincia una ricerca, una qualche iniziale idea della cosa da cercare la si deve avere, altrimenti la ricerca è vana. E su questo punto -credo- c'è unanime accordo! La dimostrazione dell’esistenza di Dio, però, non è frutto della ricerca di dio (come se, in qualche modo, percepissimo in anticipo l’oggetto della nostra ricerca, e ne volessimo approfondire gli aspetti), quanto piuttosto è la conclusione necessaria di una riflessione che parte dalla consapevolezza maturata di fronte ad un fatto: la realtà di cui abbiamo “esperienza e conoscenza” è contraddittoria (ossia impensabile), in quanto non ha in sé la ragione del proprio essere (questo dato, comunque, non è immediato, in quanto a sua volta esso è il risultato di uno studio e di un’analisi condotti su ciò di cui abbiamo esperienza; dunque, bisogna studiare l’essere-in-quanto-essere in profondità per sapere che dio c’è). Or bene, chi ha compreso la contingenza della realtà concluderà che deve esistere anche qualcos’altro oltre ciò di cui ha esperienza e conoscenza, poiché ciò che è contraddittorio è anche impossibile; per far sparire la contraddizione si deve postulare l’esistenza di ciò che dà sostanzialità, ossia intelligibilità alla realtà tutta (che è ciò che toglie la contraddizione stessa). Con questo modo di impostare il problema, l’esistenza di dio non è più ciò che si cerca, quanto piuttosto ciò che si trova! Infatti, uno può anche postulare la necessità dell’esistenza di una entità, senza per questo conoscerla previamente; per esempio, quando si ammette: «deve esistere un poeta che ha scritto la Divina Commedia, anche se non so chi sia... so soltanto che deve esserci». Si può far ciò a partire da determinate osservazioni, riflessioni e studi (cioè a partire dalla propria esperienza e conoscenza), quali -nel caso di dio- la caducità o “contingenza” del mondo e degli enti (l’argomento, schematicamente, potrebbe essere questo: «tutto ciò che conosciamo non ha in sé la ragione del proprio essere; deve, dunque, averla in qualcos’altro. Questi, a sua volta, o ce l’ha in sé oppure deve averla anch’esso in altro da sé. Poiché un recesso all’infinito è impossibile -in quanto, se proprio nessuna cosa avesse in sé la ragione del proprio essere, nulla avrebbe motivo di essere-, ma per il fatto stesso che qualcosa c’è [e questo qualcosa non ha in sé la ragione del proprio essere, è cioè contingente], ci deve anche essere qualcos’altro che abbia in sé la ragione del proprio essere (cioè è "essere necessario" o "essere per essenza")»): dalle caratteristiche ontologiche della realtà che conosciamo (ossia dalla consapevolezza che ciò che conosciamo è contingente), comprendiamo che ci deve anche essere qualcos’altro che rende la realtà stessa intelligibile, togliendo la contingenza (in quanto ciò che è contingente non ha in sé la ragione del proprio essere, ed è quindi impensabile da solo). Per questa via, dunque, di dio si può conoscere che ci deve essere-esistere (oppure, che è lo stesso, che è l’essere necessario, cioè che è ciò che ha in sé la ragione del proprio essere: è, insomma, “l’essere per essenza”), e, fondandosi su ciò, tentare -finché è possibile- di capire che cos’è, cioè tentare di investigare la sua identità o quiddità; ossia, si riconosce ad una certa entità l’esistenza, senza per questo poter perfettamente affermare di essa la definizione sostanziale o gli attributi. Il concetto di dio, infatti, si forma in qualche modo mentre se ne dimostra l’esistenza. Ringrazio per l'attenzione. Gaetano T. |
11-12-2009, 12.04.16 | #150 |
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Riferimento: Dio non esiste
Prosegue a Roma in questi giorni il convegno internazionale “Dio oggi” indetto dalla Cei, e sembra questa un’occasione per riesaminare le nostre opinioni sul tema che è stato avviato da Orabasta con parole che richiamano quelle pronunciate dal maggior filosofo tedesco vivente, Robert Spaemann, appunto al convegno di Roma : “Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama Dio è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere, una diceria immortale. Ma abbiamo un motivo per accettare che alla diceria corrisponda qualcosa nella realtà? O è una mistificazione questa intramontabile questione su Dio?”. Un momento, però: Spaemann non ritiene risolta la questione e crede anzi possibile dimostrare Dio, partendo dalle condizioni della vita moderna, cioè partendo da un pensiero inteso come dominio e autoaffermazione, e non più come il mostrarsi astratto di ciò che è. Una prova dell’esistenza di Dio che sia “Nietzsche-resistente”, cioè tale da non dipendere dall’orgogliosa ragione di chi è destinato a finire nel nichilismo. Perché senza Dio, neanche il sapere dell’uomo (Spaemann dice la sua grammatica) è garantito, tanto che la dimostrazione di Dio diventa il compito più esaltante che all’uomo sia dato di compiere.
E’ da pensare che un tale discorso possa tornare gradito a Joseph Ratzinger, e in sostanza questa elaborazione di una prova che fonda Dio sull’uomo dovrebbe essere gradita anche a noi, accarezzando il nostro orgoglio di figli prediletti del creatore, ma a Lui? Siamo così sicuri che il creato è fatto per noi, e che Dio continui, come ha fatto per qualche millennio, a badare al nostro pianeta fra i miliardi che popolano l’universo? E quando il prof. Spaelmann rincara la dose dicendo che la negazione di Dio comporta la negazione della verità, mi pare che metta nel banco degli asini anche quei filosofi che, forse senza inneggiare al Signore, hanno continuato a cercare la verità, perfino una tragica verità, quasi che il vero destino dell'uomo sia soltamto questo. ”Da Cartesio in poi – dice Spaelmann - l’intelligibilità dell’essere non è più garanzia del fatto che ci sia Dio, la prova della sua esistenza quindi non può partire più dal presupposto della verità della conoscenza (un Dio come causa prima, come motore immobile…) bensì da quello che, con un percorso inverso o una sorta di torsione, giunge a Dio come al garante dello spazio entro il quale il soggetto può recuperare la sua identità superando le proprie emozioni e gli stati soggettivi. Certo, se esalti Dio può essere che contemporaneamente esalti l’uomo – ma se abbassi l’uomo non dovresti credere – per dovere di simmetria - di abbassare anche Dio? Forse l’uomo non è soltanto il cartesiano ego che si aggrappa a sé stesso, magari con l’aggiunta di emozioni e pensieri soggettivi, ma ha quel pensiero dell’infinito, che vola oltre l’intero universo in cerca dell'assoluto: si chiami o non si chiami Dio. |