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20-12-2012, 14.32.15 | #53 |
Ospite abituale
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Non mi ero accorto della domanda di Sgiombo
La mia proposta è quella di far coincidere ogni punto di vista con un osservatore, un pò come Leibniz, senza però pretendere che questi osservatori non si influiscano a vicenda, anzi, la loro determinazione sarebbe impossibile, secondo me, se non si delimitassero vicendevolmente (influenzandosi appunto, altrimenti credo che non avrebbero una forma definita o almeno in parte definita). Ho parlato del problema dell'emergere della coscienza anche in questo forum, l'opinione più sensata mi pare sia di ammettere che non emerga a un certo punto dalla materia, ma che essa coincida con gli eventi (si tratta di una personale ipotesi mia credenza); e che le modalità delle sue manifestazioni particolari coincidano con gli eventi vissuti internamente dall'oggetto che ne è il protagonista. Io sento il mio patire e agire, perché le altre configurazioni materiali non dovrebbero, soprattutto se si tratta di "sistemi" complessi (=> mi riferisco alle teorie della coscienza elaborate da alcuni neuroscienziati, secondo cui sarebbe una manifestazione intriseca di qualunque sistema complesso, dove complesso vuol dire semplicemente=> un composto di più entità interagenti), come ogni entità fisica conosciuta? Insomma, ogni atomo, particella, cellula ecc. sarebbe un osservatore, non solo gli animali e gli uomini. Mi pare che questo salvi la luna dal collasso e soprattutto che salvi una ipotetica ontologia da un surplus di tipi di entità (soggetti, oggetti=> solo soggetti/oggetti). Credo sia in qualche modo accettabile anche perché la scienza non sa dire molto riguardo all'emergere della coscienza, come pure non sa dire molto del limite tra materia viva e materia morta. PS: in realtà le particelle elementari potrebbero non essere sistemi complessi, però stranamente manifestano particolari proprietà... inoltre un sistama non complesso per sé non conduce a nulla, solo più elementi (ammesso pure non complessi) portano a manifestazioni particolari, a eventi, o a delle realtà direi. Qui si tratta ancora di un idea personale che proverò a far intuire con questo esempio: Se si immagina un universo composto da una singola sfera si possono pensare due cose: 1. c'è la sfera e un infinito vuoto oltre ad essa=> ma il vuoto inteso in questo senso è stato scaratato addirittura dalla fisica, il vuoto è qualcosa, allora questo pensiero è erroneo, stò immaginando la sfera e il vuoto e non solo la sfera. 2. c'è solo il contenuto della sfera=> ma da dove traggo che ogni punto del perimetro della sfera è equidistante dal centro? Mi pare che un sistema non complesso sia per sé un nulla, e che solo l'interazione di più elementi generi una qualche realtà più o meno definita: interazione di più elementi=realtà= osservazione (anche nel senso di essere modificato dagli altri eventi, poter semplicemente partire o agire, e perchè no, dunque, "sentire"). |
20-12-2012, 15.57.42 | #54 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Citazione:
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20-12-2012, 15.58.59 | #55 | |
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Citazione:
Nessuno può avere conoscenza del bene e del male, tuttavia c'è una distanza incolmabile che separa chi ci prova e chi no, chi indaga e chi no. |
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20-12-2012, 16.01.09 | #56 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Citazione:
O se, in alternativa, il pensiero è un epifenomeno, cosa sono questi messaggi che ci scambiamo qui? Epifenomeni? Qualche manciata di pixel buttati su uno schermo a cristalli liquidi? Impronte lasciate dal ticchettare delle nostre dita? Per come la penso io la scienza può occuparsi solo dei fenomeni, ossia di ciò che si manifesta. Il pensiero non è ne un epifenomeno ne un fenomeno, il pensiero è un qualcosa di oscuro che si manifesta unicamente attraverso ciò che produce. |
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20-12-2012, 21.01.02 | #57 |
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
@ Sgiombo
Mi riferivo, a proposito della frase che hai detto di non capire, al processo giuridico. La colpevolezza giuridica, è chiaro, poggia sul concetto di volontà, ma se questo concetto viene progressivamente eroso a causa dell'emergere di una forma-mentis che, sempre più, considera come determinanti i fattori extra- soggettivi, allora è lo stesso processo giuridico ad entrare in crisi, per così dire. Dicevo, a tal proposito, che prova ne è l'"incartarsi" del processo su elementi positivistici (nel senso fine-ottocentesco del termine; come dis-umanizzazione e scientificizzazione radicale) che alla fine hanno sempre come risultato quello di allungare a dismisura i tempi processuali, e di gettare ombre pesantissime su qualsiasi verdetto. In realtà, ritengo, tutto il discorso sul processo giuridico (nonchè più modestamente sul nostro discorso in genere) nasce da una aporia che sta drammaticamente emergendo. Perchè se, come affermi, il valore morale non dipende più dall'incondizionatezza interna, ma dalla mancanza di coercizione e impedimento estrinseco (è la celebre differenza che sussiste fra libertà "di" e libertà "da"), allora non sussiste più alcun valore morale, né alcuna colpevolezza giuridica, perchè dalla montante scientificizzazione emerge che, appunto, non esiste null'altro che il condizionamente estrinseco (non certo la sua mancanza...) Insomma: non vedo come poter distinguere più l'azione "costretta" dall'azione volontaria. Con la conseguenza che più nessuna "condanna" è pronunciabile. un caro saluto (non mi hanno pubblicato la risposta sull'ateismo. Forse perchè mi dilungo un pò su questioni "ciclistiche" e sportive in genere...) |
21-12-2012, 13.36.19 | #58 | |
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Citazione:
Innanzitutto sono perfettamente d' accordo che interrogarsi costantemente sulla moralità sia quanto di più nobile un uomo possa fare. Credo che non si possa stabilire oggettivamente (cioé dimostrare) ciò che é bene e ciò che é male (si può dimostrare cosa c'é o non c'é, quali mezzi si devono usare per raggiungere determinatii fini, non quali fini perseguire: questi li si sente, irrazionalmente). Però credo che di fatto esistano tendenze comportamentali (e tendenze a valutare il comportamento umano, proprio ed entro certi limiti altrui) con vario grado di universalità, se così si può dire: Alcune sono universalissime perché determinate dall' evoluzione biologica per mutazioni genetiche casuali e selezione naturale relativa (per esempio: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te); altre sono più relativamente universali in quanto "storicamente modulate", generalizzate nell' ambito di determinate epoche storiche, contesti geografici, gruppi sociali (per esempio in certe culture l' uccisione di figli o schiavi, almeno a certe condizioni, non sono considerate immorali, in talune perfino l' infanticidio; certe categorie sentono l' obbligo di segreto professionale, cosa ben più seria della cosiddetta "tutela della privacy"); altre ancora sono condizionate dalle esperienze individuali (per esempio c' é chi é poligamo -anche di fatto nelle società in cui la poligamia é teoricamente vietata- e chi monogamo, chi ritiene perfino di non dovere avere altri rapporti di coppia nel caso rimanga vedovo). Quel che volevo chiarire nel mio precedente intervento era però un' altra questione. Cioé il fatto che secondo me una qualche forma di determinismo (sia pure debole: eventualmente statistico anziché meccanicistico) é una conditio sine qua non, oltre che della possibilità di conoscenza scientifica, anche della possibilità di valutazione morale delle scelte e comportamenti umani, che é invece incompatibile con il libero arbitrio (inteso non come mancanza di impedimenti o costrizioni estrinseche ma come incondizionatezza intrinseca, id est: indeterminismo): solo se uno fa qualcosa di buono perché é buono o di cattivo perché cattivo (essendo determinato nelle sue scelte dal suo modo di essere, conseguente la genetica -essenzialmente in quanto é comune a tutti, generalizzato nell' umanità- ma soprattutto le esperienze vissute, particolarmente in quanto é singolarmente, personalmente caratteristico) può essere considerato rispettivamente buono o mlavagio. Se si fa quel che si fa per libero arbitrio (id est: indeterministicamente; id est: per puro caso, esattamente come se ogni volta che si dovesse compiere una scelta si gettasse una moneta), allora le nostre azioni non proverebbero nulla circa la nostra bontà o malvagità (ma casomai circa la nostra fortuna o sfortuna). |
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21-12-2012, 14.37.57 | #59 |
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
@ CVC
Certo che il problema è lo stabilire cosa si intende per "esistere": è proprio questo il punto dirimente. Il problema però, per così dire, è che quando tu affermi: "la luna esiste anche quando non la guardiamo" affermi un'esistenza di fatto. Quindi un modo particolare di esistenza (un altro è, ad esempio, quello riguardante l'esistenza delle idee. Non a caso nella Scolastica medievale si parlava di esistenza reale ed esistenza nell' intelletto). Tuttavia un'esistenza "reale", nel senso cartesiano della "res extensa", non è plausibile. Perchè, come Kant insegna, ciò che possiamo conoscere non è la "cosa in sè" (la cosa esterna a sè, come il termine "ex- sistentia" suggerisce), ma solo il "fenomeno", ossia quella cosa filtrata dal soggetto - diciamo così per brevità. Quindi, traducendo il tutto in termini semiotici (come ad. es. in Peirce) il problema dell'interpretante rimane. Perchè non è possibile nemmeno pensare ad una cosa esterna a sè, ovvero ad una cosa in sè. Non so se ti è capitato di leggere qualcosa sul recente dibattito circa il Nuovo Realismo. Nell'ambito di questo dibattito, il filosofo tedesco Markus Gabriel ha affermato: "una volta ammesso che noi produciamo qualcosa, non produciamo però il fatto consistente nell'essere produttori di qualcosa" (mi sembra che questo possa, in qualche modo, richiamarsi al tuo: "la realtà dell'esistenza sarebbe l'atto del pensare, e non il prodotto del pensiero" - che poi, io trovo, è assai simile al "cogito ergo sum"). All'affermazione di Gabriel, Severino ha risposto chiedendogli chiarimenti sul significato di quel "noi"; un "noi" che, secondo Severino, richiama direttamente all'esistenza. A tale richiesta, Gabriel ha risposto che il "noi" è un qualcosa che acquisisce senso solo all'interno di un "campo di senso", e che l'esistenza stessa è definibile solo come: "apparizione in un mondo", ove con il termine "apparizione" si intenda l'appartenenza di un oggetto ad un campo di senso. Con questo voglio dire: se con "campo di senso" si intende un contesto (anche Severino è di questo avviso), allora non ci siamo mossi di un solo millimetro dal "segno" semiotico. Perchè per il materialista Gabriel "oggetto", o "fatto", è quel qualcosa che un certo contesto assume come tale. E il contesto, o campo di senso che dir si voglia, è null'altro che ciò che una specifica cultura esprime, cioè un segno linguistico. E dunque: come se ne esce? Se ne esce alla maniera delineata da Severino (con il quale sono assai raramente d'accordo...). Ovvero recuperando il concetto di "trascendentalità" (da non confondersi, beninteso, con la "trascendenza") che espresse Kant, e che è ripresa sotto un certo punto di vista anche da Heidegger. ciao |
21-12-2012, 17.33.22 | #60 | |
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Riferimento: Esiste qualcosa al di fuori dell'io?
Citazione:
GIULIO: Anche a me non hanno pubblicato le prime risposte che vi avevo mandato. Qui ci sono moderatori forse un po’ severi (di fatto frequento questo forum da una quindicina di giorni, anche le mia iscrizione risale a qualche anno fa); se penso a quello che avveniva nell’ altro da noi frequentato credo che sia un piccolo sacrificio accettabile di buon grado. Stammi bene! P.S. Anche stavolta mi sono incasinato con le citazioni per cui ho indicato a lettere maiuscole chi propone le considerazioni all' inizo delle stesse, per evitare confusioni Giulio |
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