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13-09-2013, 15.56.40 | #64 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
Detto questo, mi sembra chiaro che Severino risolva quella contraddizione tra l'immediatezza logica del principio di non contraddizione e l'immediatezza fenomenologica del presentarsi degli essenti tutta a favore della prima. Dunque replica davvero Parmenide limitandosi ad ammorbidirlo ammettendo la molteplicità essente? Al di là delle sue intenzioni (non costruire nessun riparo) alla fine non farà proprio come Aristotele: porre la logica ferrea del pnc come riparo dal fenomenologico divenire, ma dicendo che l'ente è sostanza nella sua interezza non lo renderà troppo inflessibile commettendo un'assurdità fenomenologica? Sono certo tutte domande più che lecite a cui non so se sia davvero possibile ripondere esaustivamente. E' chiaro che il destino di Severino non è l'Essere parmenideo, che svuotato degli essenti appare al filosofo di Brescia come quello stesso nulla che Parmenide avrebbe voluto negare (e qui credo che la lezione di Heidegger abbia ispirato Severino in merito al primato degli essenti sull'essere). Ogni singolo essente è infatti per Severino un eterno ed eterna e irriducibile è la diversità di ogni ente che pur tuttavia non separa, ma costantemente reciprocamente richiama (e proprio per questo gli enti via via appaiono, gli uni richiamati sempre dagli altri e viceversa). D'altra parte, se come Aristotele Severino ammettesse che nella sostanza vi è qualcosa di mutevole, qualcosa che può essere e non essere, tutto finirebbe con il diventare come sempre mutevolmente a disposizione della volontà di potenza (che vuole l'ente come un nulla da far essere) e ogni selezione privilegiata di una sostanza che dura non farebbe che riproporre il cammino inesorabile verso il niente di quella stessa sostanza, come una mela (mela sostanza) che matura e poi marcisce e infine, perdendo via via tutti i suoi attributi di mela, diventa necessariamente una non mela. Dove sta in effetti il confine che separa la sostanza dall'attributo? la linea di taglio che permette di staccare l'una dall'altro? Cosa separa la lampada che è accesa dall'essere acceso di quella lampada accesa? Nota che non è il pensiero astratto (l'idea astratta di lampada accesa o spenta che sia) che Severino mette in discussione, quanto il concetto astratto dell'astratto, ossia che si possa tenere separati l'idea di lampada dal suo essere acceso o essere spento per poter concepire che la medesima lampada possa effettivamente venire accesa o spenta a volontà di chiunque sappia farlo. Ma resta il fatto che tutto questo argomentare è appunto un argomentare logico che riduce ciò che appare al senso del puro apparire logico e risolve ogni evento fenomenico che di per sé è apparire della contraddizione (la famosa contraddizione C), in termini logici. Ma in fondo la soluzione della contraddizione C è proprio per Severino nell'apparire dell'evento che non può risolverla in altro modo che riproponendola all'infinito. Ma se è così come potranno mai tutti gli essenti apparire insieme nella loro originaria ed eterna gloria se non proprio come un continuo fluire, sorgere e oltrepassare totalmente compreso? Certo, il discorso di Severino nasce dalla totale inflessibilità del principio fermissimo di identità logica, ma sottolineo ancora che non mi pare che il suo discorso porti all'immoto essere parmenideo (pur da esso prendendo l'avvio), ma piuttosto al fiume inarrestabile di Eraclito ove tutto fluisce per necessità, perché il continuo fluire dell'apparire è la sola soluzione possibile alla contraddizione C, continuamente ribadita dallo stesso apparire che la risolve. La contraddizione C non sarà allora un occhio che non vede il vero che solo la ragione può vedere, ma è (eternamente è) proprio il solo modo in cui la ragione può concretamente vedere a mezzo del suo occhio: il continuo diverso apparire di tutti gli enti. La contraddizione C è il motore stesso della Gloria inesauribile di ogni ente il cui apparire non è un assolutamente impossibile essere del falso (essere di un non essere che è in quanto non è), ma un continuo e inarrestabile essere del vero secondo logos. Non è per nulla un discorso semplice e accennato così per sommi capi è assai difficilmente comprensibile, ma il punto fondamentale è che Severino non vuole costruire alcun riparo per ciò che è logicamente impossibile (appunto perché il riparo all'impossibile - filosofico, religioso o scientifico che sia- è insensato, è esso stesso che vuole l'impossibile per costituirsi come riparo e far credere così la sua illusoria potenza), mi pare invece che egli tenti di trovare la ragione di questo impossibile per la ragione e la trovi in un eterno apparire di ogni essente che è sempre un diverso inarrestabile apparire nel medesimo essente insieme a tutti gli altri essenti da esso richiamati. Ed è forse per questo che Severino chiama Destino ciò che per Parmenide era solo quell'Essere che nella sua eterna astratta unità e staticità non poteva che paradossalmente implicare il suo non essere. |
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13-09-2013, 19.07.24 | #65 | ||||
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..minuscole riflessioni.. sob!.. ;)
Citazione:
Tento una risposta, tento perché non credo di poter affatto entrare nel merito della questione non potendo partorire la risposta da una conoscenza del pensiero filosofico e di quello di Severino. Perché evidentemente abbiamo un’idea del divenire come di un processo infinito per cui in un certo senso in rapporto col tempo e non di una realtà sostanziale, chiusa in sé, "immutabile". Eppure questa immagine dell’infinito come non racchiudibile in uno spazio ipotetico finito non è affatto l’unica possibile immagine. Se ad esempio prendiamo a simbolo il nastro di Mobius l’idea di infinito sembra disporsi tra le nostre mani come qualcosa di.. finito, da un certo punto di vista. In entrambi i casi la realtà spazio-temporale entra sempre nel merito della questione, ovvero ci si ritrova a considerare una sostanza tutt’altro che “immutabile” seppure in un certo senso nel suo insieme lo sia. Forse il problema è proprio quello di riuscire a definire “qualcosa” che possa al contempo “disporsi” nel tempo e nello spazio e disporsi "al di fuori". Ovunque tentiamo di configurare tale sostanza sembra ci vengano a mancare quelle immagini capaci di rappresentarcela oltre la dimensione da noi conosciuta, spazio-temporale. Solo attraverso un’astrazione possiamo immaginare lo spazio-tempo chiudersi in se stesso sino ad un ipotetico punto a-dimensionale e da qui avvicinarci a concepire una realtà “immobile” spesso con inesattezza intesa come “eterna” seppure sappiamo bene che il concetto di eternità è tutt’uno col concetto di tempo inteso all’infinito.. (e si ritornerebbe in tal caso daccapo nel paradosso di una dimensione per l’appunto temporale). Ho l’impressione che la prospettiva religiosa tagli i dilemmi molto prima! In realtà per quel poco che conosco della concezione di dio nella religione induista si divide il problema in due tempi: quello della sostanza che genera e quello del dualismo generato (mondo=soggetto-oggetto) da cui le speculazioni secondo cui quest’ultimo non sarebbe che un’apparenza di quella medesima sostanza e non un vero e proprio parto. In tal modo si salva capra e cavoli, ovvero spazio-tempo con essenza a-spaziale/a-temporale. Di fronte ai dilemmi la religione spesso e volentieri a mio avviso e da quel poco che ne so, taglia corto, direzionando ogni dilemma verso la presa di coscienza di essere ed in tale coscienza trovare la risposta, risposta che sarà esperienziale mistica dove in un certo senso la domanda così formulata viene a decadere. Utile approccio per ciò che riguarda entrare in uno stato di coscienza un po’ più ampio di quello fondamentalmente conflittuale del dualismo che la mente razionale pone nell’indagini. Penso che risposte interessanti ed appropriate o maggiormente appropriate possano porgerle i fisici teorici con una maggiore elasticità nella capacità di manovrare astrazioni rivolte a sistemi dimensionali teorizzati. E questo il punto dove la filosofia e la fisica non possono più scindersi se mai fosse stato minimamente possibile prima. Certo riguardo al discorso di prima sull’eternità dell’essere ancora una volta mi viene da pensare che ci si scontra con la realtà del linguaggio che involontariamente impone le direzioni del pensiero.. senza peraltro (il vocabolario) prendersi la briga di spiegare per davvero quale concetto tradurrebbe mai il termine “eterno”.. Citazione:
E ci ha ragione.. “peccato” che la ragione pone le sue stesse fondamenta sull’elaborazione dello schema di percezione visiva, o non ci sarebbe così difficile immaginare la coesistenza dell’assenza della dimensione spazio-temporale e della sua presenza. L’immagine come di due dimensioni speculari e differenti forse vizia la mente ed impedisce forse di vedere un concetto-realtà che distorciamo attraverso le immagini del pensiero.. che pur procedendo nei tempi è capace di sintesi.. Citazione:
A mio avviso è un po’ entrambe le cose. C’è un’intuizione che è come ti svelasse il totale ed al contempo può essere intesa come partenza per un’indagine di tipo scientifico-razionale. Citazione:
Penso anch’io che il punto sia quello sul concetto di Dio, dichiarato il quale allora ha senso procedere su di una risposta intorno al suo venire alla luce o “essere semplicemente”. |
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14-09-2013, 17.05.29 | #66 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Io non posso rispondere, del resto lo ha già fatto esaurientemente maral, su questa differenza, ma posso esprimermi per quanto riguarda il primo quesito. Innanzitutto una precisazione, che per quanto possa sembrare inutile in questo consesso è sempre meglio ribadirla: "eterno" non è ciò che dura indefinitamente (quello è perpetuo) ma ciò che è al di là del tempo, ovvero che non subisce variazioni dal trascorrere di quest'ultimo. Detto ciò provo a spiegarmi con un esempio: ogni essere umano, prendiamo il solito Luigi, viene concepito, nasce, vive più o meno a lungo e poi muore. Tutta la sua vita biologica e psichica si manifesta nel mondo del divenire. Prima è bambino, e gioca, e impara; poi diventa studente, poi lavoratore (magari cambiando una innumerevole quantità di occupazioni) e poi anche marito, padre, nonno eccetera. Nei confronti della società sarà di volta in volta cittadino, elettore, utente, automobilista e quotidianamente cambierà una quantità innumerevole di ruoli; ogni sette anni, più o meno, tutte le cellule del suo corpo saranno sostituite da cellule nuove, per cui ogni sette anni Luigi sarà, anche fisicamente, un uomo totalmente nuovo. Ciononostante lui, per sé e anche per gli altri, è sempre lo stesso Luigi. Lasciamo perdere per il momento come lo vedono gli altri, perchè lo possono magari inquadrare in un determinato ruolo e identificarlo sempre con quello, ma parliamo di come lui si considera. Da quando, da bambino, ha cominciato a vedere se stesso come Luigi, non ha più smesso di farlo, nonostante il divenire, in tutte le forme e le sfaccettature, intervenendo in ogni istante della sua vita lo ha più volte cambiato completamente. Esiste quindi un Luigi "eterno" (al di là del tempo) che sovrintende il Luigi che diviene e con il quale quest'ultimo si identifica. Questo Luigi eterno non è l'ego, che è la sua versione consapevole, magari idealizzata, di Luigi, la sua versione "noumenale", ma è il suo "sé", quindi qualcosa di oggettivo e inconsapevole, che lo stesso Luigi può conoscere in maniera solo parziale oppure più approfondita, a seconda di quanto sarà interessato a conoscere se stesso. Questo "sè" è la somma di tutte le possibilità di Luigi, espresse o inespresse, quello che è ma anche quel che avrebbe voluto o dovuto essere, quello che ha fatto ma anche che non ha fatto perchè la cultura, le contingenze e comunque i vari accadimenti della vita glielo hanno impedito. Questo "eterno Luigi" fornisce equilibrio al Luigi che diviene e gli permette di essere sempre lui. Il "Luigi eterno", prima che manifestarsi nelle particolari situazioni consapevoli o inconsapevoli della vita, si manifesta innanzitutto nel presiedere la vita stessa di Luigi, compiendo tutte quelle funzioni che Luigi consapevole non è in grado di compiere, come far funzionare tutti gli organi del suo corpo e metabolizzare gli alimenti. Si dice generalmente che è la "natura" a farci vivere, ma innanzitutto siamo noi stessi che viviamo, è il nostro sé che ci stimola a difenderci quando ci sentiamo minacciati, a cercare il cibo fornendoci gli stimoli della fame eccetera. Ognuno può proseguire su questa falsariga con molti altri esempi, ma la sostanza è che vi è un qualcosa (che siamo sempre noi, ma in una dimensione eterna) che fa in modo che noi nel divenire ci sentiamo sempre ciò che siamo, qualcosa di sovraindividuale che è il nostro principio, ci mantiene "uniti" come soggetto e ci consente di reagire alle sollecitazioni in modo unico, originale e diverso da qualsiasi altro soggetto, che insomma fa in modo che noi siamo noi e nessun altro. Vi è l'anelito di vita che proviene dalla natura, oppure se vuoi da Dio, ma oltre a questo vi è l'essenza di ciò che siamo, ciò che ci fa essere unici e irripetibili, e questa essenza non può che essere eterna e immutabile, e si manifesta nel mondo del divenire conformemente alle condizioni di quest'ultimo e alle contingenze in cui ci è dato vivere. Nel linguaggio teologico l'anelito di vita è lo spirito, mentre l'essenza è l'anima. |
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15-09-2013, 00.28.19 | #67 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Donquixote
La risposta alle tue affermazioni non può prescindere, a mio parere, da un chiarimento non solo sul concetto di "Dio", ma anche sui concetti di "intuizione" e di "verità". Cosa significa "intuire la verità"? Che cos'è l'"intuizione"? Se intendessimo (come è nel mio caso) l'intuizione come una forma di conoscenza privilegiata (c'è chi ha intuito e chi non ce l'ha), allora nel nostro caso specifico l'intuire Dio significa, ancora, aver Fede. Dice Pascal: "è il cuore che sente Dio, non la ragione". Dunque l'intuire Dio significa che è Dio stesso stesso che si rivela all'uomo? Questa è l'opinione di Pascal (e la mia): "la Fede è un dono di Dio". Ma dire: "intuire Dio", è la stessa cosa che dire: "intuire la verità"? E che cos'è la "verità"? Cristo afferma di essere: "via, verità e vita", dunque afferma che Dio è la verità. Nietzsche dice che Dio non è la verità; che la verità è il "caos", l'eterno fluire delle cose. Chi dei due ha ragione? O hanno ragione altri ancora (vedi ad es. Carnap), che affermano l'insignificanza dello stesso termine: "verità", quando rapportato ad un qualcosa di assoluto? Non sono molto d'accordo quando sembri affermare che la verità "costruita" appartiene alla modernità. Per i Greci, la verità è qualcosa che si manifesta (quindi che ex-siste), e si manifesta in modo da non poter più essere privata dell'evidenza. La verità è quindi un processo di "disvelamento", non un qualcosa di definitivo (come lo sarebbe la verità "intuita" come tu sembri tratteggiarla). Vero è d'altronde che la verità, per il pensiero presocratico, è inscindibile dal "tutto". Ma è anche vero, io trovo, che già da Socrate (con il suo "sapere di non sapere" legato alla sfera introspettiva) questo "tutto" viene, come dire, "rotto" (o "flesso", direbbe Severino). Una "rottura" che (sempre secondo Severino) si completa con il celebre "parricidio" platonico: con il "divenire", che rompe l'unità fra la totalità e la particolarità. E significativamente Platone, nel "Cratilo", afferma: "vero è il discorso che dice le cose come sono". Il tutto, ovvero, è già scisso fra il pensiero della cosa (il discorso) e la cosa per come essa è "in sè". Fin da questo momento, quindi, non è più possibile cogliere la verità "tutta in una volta", perchè se essa fosse attingibile tutta in una volta perderebbe di senso il concetto, fondamentale per la grecità, di "disvelamento". ciao |
15-09-2013, 13.09.24 | #68 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Cos'è infatti quel sentire Dio nel cuore anziché nella ragione di Pascal se non sentire la necessità di acquietamento del tremore del cuore che teme il suo inesorabile venire rigettato (parafrasando Kierkegaard) nel nulla da cui è emerso separato dal Tutto? Dunque ancor prima di intuire Dio non intuisce forse Pascal (e ogni pensiero mistico) proprio quel diventar nulla di ogni cosa che solo Dio può negare per imperscrutabile e privilegiata grazia? E allora Nietzsche vede chiaro quando vede che è proprio quel diventar nulla che sta a fondamento vero di ogni dio il quale pertanto non potrà rivelarsi altro che come falso idolo destinato inesorabilmente a tramontare proprio perché fu generato dalla stessa fede assoluta nel farsi nulla di ogni cosa. E di conseguenza la volontà di potenza non sarà allora l'unico vero significato possibile, dunque l'unica verità inconfutabilmente intuita che guida coerentemente il divenire volendo il sorgere e il tramontare di ogni ente, perché essa vuole come ogni ente solo se stessa, vuole il proprio destino, e volendo fino in fondo se stessa, vuole il suo stesso radicale farsi nulla con l'eterno ritorno dell'identico, sola completa apoteosi di se stessa, vuole la sua totale contraddizione realizzata (paradossalmente proprio Nietzsche trova nell'eterno ritorno quella stessa eternità che il divenire costantemente nega, ma proprio per questo alla fine non può non affermare). E Carnap che riduce in sostanza ogni verità alla contingenza di un accordo intersoggettivo secondo l'inseguimento di un metodo di condivisione che fissi parametri di contesto sempre più astratti e rigorosi per mantenerli validi per tutti, finché tale validità può durare, non ribadisce a ben vedere lo stesso identico principio della fede assoluta nel divenire, proprio come Pascal e proprio come Nietzsche nel momento stesso in cui nega ogni verità assoluta? Il sottosuolo delle loro così diverse filosofie non sarà allora esattamente lo stesso, a dispetto delle differenze che da esse emergono? Dobbiamo fermarci qui a scavare oppure sotto questo sottosuolo che Severino vede comune a tutta la filosofia occidentale e di cui abbiamo citato solo tre esempi c'è davvero un sottosuolo più profondo che è intuizione originaria (dunque certezza inflessibile) del principio di identità che non può essere mai contraddetto per evidenza logica, ma che, per non essere contraddetto, non può che costantemente comprendere riconducendo a se stesso la contraddizione da esso generata in sua antitesi a mezzo di un eterno diverso apparire (e non essere) di ogni essente che è ciò che eternamente è, ossia proprio quell'inarrestabile continuo apparente manifestarsi mutando che sempre richiama l'apparire di ogni altra cosa? Credo che questa sia la fondamentale domanda che pone la filosofia di Severino. Ultima modifica di maral : 15-09-2013 alle ore 17.10.32. |
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15-09-2013, 23.09.25 | #69 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Maral
Il problema, per come io posso comprenderlo, consiste nello stabilire il "perchè" un dato così evidente come il divenire-altro degli essenti (evidenza che è riscontrabile "con l'occhio E con la ragione") possa essere considerato alla stregua di un articolo di fede. Certamente, la pretesa nichilistica di un essente che, prima, sorge, e poi ritorna nel Nulla è logicamente contraddittoria. Tuttavia, io credo, il nocciolo del problema è proprio in questo termine: "Nulla". Perchè, come ben dice Severino, il "Nulla è il Nulla", e da esso nulla può sorgere e nulla può ritornarvi. Ovvero: essendo il Nulla un in-esistente, è privo di senso il pensare che un essente da esso sorga e in esso faccia ritorno dopo una, diciamo, "parentesi" nell'Essere. Per questo motivo, in un precedente post, ho proposto di usare una terminologia diversa, e di chiamare "nascita" e "morte" tale, diciamo, entrata-uscita. Secondo una tale prospettiva, l'essente di Severino non nasce e non muore, ma è eterno. Tu affermi che Severino non vuole costruire alcun "riparo", perchè non ha senso ripararsi da qualcosa che è impossibile che sia. Ma non è già forse questo un riparo? Quali elementi ha Severino per decretare l'impossibilità della nascita e della morte? Evidentemente (e mi rifaccio all'esempio della lampada), Severino mette in discussione che si possano tener separate l'idea dell'essente dal suo essere vivo o morto. Ma l'affermare questo è, io trovo, straordinariamente simile all'affermare l'eternità dell'"anima" di quell'essente (se non nell'indistinzione di anima e corpo che, implicitamente, fa Severino). Chiaramente l'affermazione dell'essente si scinde, con Platone, nell'affermazione di un essente eterno che è l'idea (ciò che diventerà l'anima per il cristianesimo), e nell'affermazione di un essente diveniente, che è il mondo sensibile (il corpo). Notevole è semmai, in Platone (almeno fino all'empiria di Aristotele), la decisa affermazione del mondo sensibile come opinione (presumibilmente Platone è ancora devoto al "venerando e terribile maestro", che ha tuttavia "ucciso" - personalmente, ci trovo delle interessanti analogie con Nietzsche e la sua affermazione, quasi divina, dell'"ubermenscht"; ma non divaghiamo). Da questo punto in poi, è chiaro, il mondo sensibile sempre meno sarà ritenuto opinione, e dunque sempre meno sarà ritenuto opinione quel divenire che, dal punto di vista esistenziale, si concretizza nella morte (nota che il pensiero della morte da sempre accompagna l'uomo, e basti solo citare l'esempio degli antichi Egizi per rendersene conto). Dunque sì, Pascal certamente teme la morte (non parla forse di Cristo come del Dio "caldo e consolatorio", cui contrappone il Dio "freddo" dei filosofi?), perchè teme che la morte sia, per così dire, definitiva. E a nulla gli sarebbe servito l'Essere "freddo" di cui parla Levinas (di cui ti accennavo). Severino quindi vede sì, nitidamente, la "radice" di ogni paura umana. Ma ad essa dà, io trovo, ancora una risposta "calda e consolatoria": non c'è bisogno di alcuna anima immortale, perchè la morte non esiste. ciao |
16-09-2013, 11.33.00 | #70 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Per quanto mi riguarda non sono d'accordo con Pascal, che ha sdoganato il sentimentalismo nella religione, contrapposto al razionalismo illuminista dominante in quell'epoca, degradandola a fatto privato e trasformandola in "religiosità" o in "spiritualità". Mi trovo molto più d'accordo con l'affermazione di Antoine de Saint Exupery quando dice che "non si vede bene che col cuore; l'essenziale è invisibile agli occhi". Certo si parla sempre di cuore, ma nel caso di Pascal è il cuore che "sente", mentre in quello di Saint Exupery è il cuore che "vede". Se nel caso di Pascal il cuore viene considerato come la sede dei sentimenti, dell'emotività, e presuppone la fede come trasporto sentimentale verso l'oggetto di fede, nell'altro caso il cuore è da intendersi come intelletto, come sede dell'intelligenza, della volontà, del pensiero, e l'intelletto era anticamente collocato simbolicamente nel cuore poichè questo organo, reputato il più importante, si trovava nel centro dell'uomo. L'intelletto, che i greci antichi identificavano con il nous platonico e contrapponevano idealmente alla dianoia (la ragione discorsiva) corrisponde al “terzo occhio”, o “occhio interno” della tradizione induista, per quanto attualmente alquanto incompreso e bistrattato dalle varie sette più o meno New Age. Anche nel Vangelo si fa accenno a questo "terzo occhio" nel passo di Matteo (6, 22-23) ove Gesù dice: «La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è terso, tutto il tuo corpo sarà illuminato. Ma se per caso il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre». Si noti fra l’altro che Gesù usa il singolare “occhio” e non il plurale occhi. L'intelletto è quindi il "sesto senso" della tradizione scolastica, quello che permette appunto di "vedere" in maniera molto più ampia di ciò che gli occhi possono fare. La "visione" dell'intelletto è l'intuizione, che si sviluppa a livelli diversi ma quando raggiunge il suo culmine e riesce a intuire la realtà nel suo complesso raggiunge la sua massima espressione funzionale. Provo a fare un semplice esempio, una analogia: prendiamo un puzzle di qualche miliardo di pezzi e spargiamoli confusamente per terra senza avere a disposizione il coperchio della scatola sulla quale è stampata l'immagine intera riprodotta sugli innumerevoli pezzi del puzzle; senza alcun punto di riferimento alcuni potranno, magari raggruppando i pezzi di un medesimo colore, "intuire" che quei pezzi dovranno formare una casa, o un prato, oppure il cielo; questa parziale intuizione potrà essere verificata con l'assemblaggio, e potrà rivelarsi giusta oppure sbagliata. Coloro, come gli scienziati, che si basano appunto su una loro supposta e teorizzata "similitudine" fra i vari pezzi potranno ricostruire solo parti dell'immagine, molto probabilmente sbagliati, e saranno costretti periodicamente a ricominciare daccapo poichè non hanno alcun punto di riferimento certo (l'immagine intera) con cui confrontare le loro parziali ricostruzioni. Colui che invece avrà la maggiore capacità di intuire riuscirà a "vedere" l'immagine intera, e sulla base di quella assemblerà tutti i pezzi nel modo corretto, astenendosi peraltro dal tentare di ricostruire l'immagine in modo parziale poichè già sapendo che tutti i pezzi sono necessari per formare l'immagine gli assemblaggi parziali non potranno che aumentare la confusione. La verità (l'immagine completa in questo caso) è quindi, come diceva Hegel, "l'intero", e l'intuizione della verità non potrà che essere l'intuizione dell'intero, compresa la quale sarà più facile collocare ogni pezzo del puzzle al suo giusto posto. Per quanto riguarda Gesù e Nietzsche avevano ragione entrambi, e per comprenderlo è sufficiente variare i punti di vista e capire che Gesù si riferisce alla verità assoluta, trascendente, immutabile, mentre Nietzsche che la rifiuta (o che non la vede) vede solo la sua manifestazione nel mondo del divenire e la assume come verità. Certo che quindi la verità è disvelamento, ma non si vede perchè mai tale disvelamento debba essere parziale e progressivo. È invece immediato e totale, paragonabile al "fiat lux" biblico, tanto è vero che l'intuizione della verità viene spesso definita come "illuminazione". È un po' come se tu ti trovassi in una grande stanza buia e con il tatto dovessi districarti fra tutto ciò che si trova al suo interno e cercare di comprenderlo: riuscirai a riconoscere molti piccoli particolari, ma sarà già difficile risalire a cosa, di più grande, appartengono questi dettagli. Più la stanza conterrà oggetti e meno sarà possibile riconoscerli tutti e ricostruire la stanza nella sua totalità. Se invece qualcuno entrasse e accendesse il lampadario avresti immediatamente la visione di tale stanza con tutti gli oggetti al loro giusto posto. Il disvelamento (o la rivelazione, o l'illuminazione) è una analogia di questo atto, è la luce dell'intelletto che si accende (tutta in una volta) e ti consente di "vedere" ciò che affidandoti solo ai sensi non saresti mai riuscito a fare. Altra cosa è la citazione dal Cratilo, perchè se la verità è attingibile intellettualmente tutta in una volta, la sua rappresentazione, essendo necessariamente mediata dalla ragione discorsiva, può essere solo parziale e sarà tanto più conforme a verità quanto più non si riferirà ad oggetti particolari ma "evocherà" qualcosa che trascende tutti gli innumerevoli dettagli. Per questa ragione il linguaggio mitico e simbolico utilizzato nell'antichità è decisamente più adatto ad evocare la verità che non quello moderno che induce alla concentrazione su oggetti concreti. E per lo stesso motivo Platone ha più volte parlato di "dottrine segrete" che non si possono esprimere attraverso la dianoia ma devono essere trasmesse in maniera silenziosa, e sono proprio quelle che servono più di altre per stimolare l'intelletto ad una intuizione totale e quindi ad una "visione" della verità. |
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