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01-09-2013, 23.09.22 | #12 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Gyta
Beh, potrei dirti che la paura della morte (che è un modo forse "popolare" ma assai esplicito di definire il "nulla") accompagna da sempre l'uomo, quindi di esperienze ve ne sono a bizzeffe... E dunque quali mistificazioni? Già Nietzsche diceva che la filosofia nasce dalla necessità di offrire una risposta "laica" alla paura del Nulla. Severino non fa altro che spiegare come questa paura del Nulla non possa che condurre al nichilismo ed alla volontà di potenza, nel momento in cui l'inflessibile viene flesso (ti rimando alla risposta a Maral). In ciò consiste l'analisi di Severino (che io trovo molto profonda), il quale è molto più discutibile quando propone una "cura" al nichilismo, che lui individua non nella ri-proposizione di una Fede "ad absurdum" (contro ogni evidenza, come in Boezio), ma nella proposta di avere Fede nell'eternità di ogni istante, perchè una riproposizione dell'Inflessibile all'interno di una "weltanchauung" in cui trionfa il divenire a lui pare impossibile (da qui il suo abbandono della religione canonicamente intesa). Però, io dico, sarebbe davvero imperdonabile se la nostra conoscenza del pensiero di Severino si fermasse a questo secondo argomento (alla "cura" che lui propone), o fosse da esso annebbiata. Severino ci dice che il "destino" della civiltà occidentale è il nichilismo; un nichilismo che riconosce nella volontà di potenza l'unico giudice delle umane sorti. E individua la radice di ciò nell'abbraccio del principio del "diventare-altro"; un principio che implica necessariamente il senso di separazione (e quindi di solitudine). Mi sembra, insomma, che si sia a profondità ben diverse che non quelle del conflitto edipico... Tuttavia, io credo, non è peregrina la tua riflessione sull'angoscia esistenziale. Anzi è proprio ciò che intendevo dire nel post di apertura, visto che in diverse opere lo stesso Severino indica nella Tecnica un rimedio verso l'angoscia esistenziale (chiedevo appunto se la Tecnica fosse un mezzo atto a quel fine lì). L'angoscia esistenziale è vecchia quanto il mondo (ve ne sono espliciti esempi nel Libro dei Morti egiziano come in numerosi testi mesopotamici o cinesi). Da quel che ho letto di psicologia (che potrebbe non essere tantissimo...), non mi sembra si sia aggiunto molto a quel che si sapeva da millenni. ciao |
02-09-2013, 00.09.00 | #13 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Jeangene
Un'osservazione semplice ed allo stesso tempo acuta... A me piacerebbe rivolgere la tua domanda allo stesso Severino. Per come io conosco il suo pensiero potrei solo azzardare un'ipotesi circa la sua risposta. L'obiettivo di Severino sembra essere il nichilismo, che nasce dalla "flessione dell'inflessibile" (ti rimando ai post precedenti). L'inflessibile severiniano è un eterno, un immutabile, un Essere che, come per Aristotele, non può essere che atto puro, e dunque privo di qualsiasi "potenza". Nel momento in cui si origina la filosofia (che si stacca dal mito), l'evidenza rappresentata dal divenire delle cose si scontra con la necessità di mantenere qualcosa di immutabile nel vorticoso caos che tutto avvolge (per usare il linguaggio di Nietzsche). Qui, in questo "punto", nasce il concetto di una realtà che è solo apparenza (le idee platoniche, come la ragione e non l'occhio che vede il vero di Parmenide). Tuttavia, il "processo" è irreversibile, e anche se l'uomo "crea" gli immutabili (il riferimento di Severino è all'emanazionismo neoplatonico come al creazionismo cristiano) questi sono destinati a scomparire dal suo orizzonte. Ma a questo punto bisognerebbe introdurre un'altra fondamentale domanda: che cos'è il Nulla? Il Nulla, come avverte Severino, non è facilmente identificabile, perchè nel momento stesso che lo si pensa, o lo si pronuncia, esso diviene un ente, e quindi non è più il Nulla. Il Nulla (riflessione mia) forse è definibile solo negativamente, come "ciò che non è". Ma dire "ciò che non è" è forse equivalente a dire "ciò che non è più, o non è ancora"? Ovvero: può l'Essere situarsi nel tempo? Ecco, Severino qui dichiara la sua assoluta incompatibilità con il principio di non contraddizione, ed afferma che l'Essere non può situarsi nel tempo; che l'Essere è ciò che è in eterno, oppure semplicemente non è. E dunque: possiamo dire che una certa cosa (un "vivente") E' la medesima cosa anche dopo una trasformazione (anche dopo che il vivente è passato a miglior vita...)? Qui ho molti dubbi (che certamente nemmeno Severino mi dissipa) sul fatto che lo si possa dire o meno. Il concetto di Nulla lo lascerei fuori causa, perchè fuorviante (per i motivi di cui sopra): parlerei, in maniera più esistenziale e drammatica, di Morte. ciao |
02-09-2013, 09.14.26 | #14 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
Forse sto guardando la cosa dal punto di vista sbagliato, ma credo che la differenza fra LA e LS stia nella "configurazione" della sostanza che le compone. Da un punto di vista scientifico si può dire che la differenze fra LA e LS sono le seguenti: - I cavi di LA sono percorsi da corrente (elettroni), mentre quelli di LS no. - LA emette radiazione elettromagnetica, mentre LS no. Gli elettroni che percorrono i cavi di LA e i fotoni che compongono la radiazione elettromagnetica emessa da LA non sono derivati dal nulla, sono sempre stati presenti nella totalità dell' essere (magari sotto diversa forma) e quando la lampada verrà spenta questi non si annienteranno nel nulla, ma saranno ancora presenti nella totalità dell' essere (magari sotto diversa forma). E' la sostanza che sta a fondamento degli enti che cambiando configurazione/forma li fa cambiare/divenire, ma in questo gioco la sostanza fondante rimane sempre sè stessa, non deriva dal nulla e non si annienta nel nulla. |
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02-09-2013, 09.31.24 | #15 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
E’ evidente che l’interesse e l’amore per un pensatore anziché un altro dipende da cosa cerchiamo, da cosa ci interessa, da cosa ci affascina o meno della vita e del sondare. Per ciò che riguarda l’anima nichilista “occidentale” coniugata ad una delle interpretazioni sulla volontà di potenza [quella che per l’appunto non mira ad un ‘uomo nuovo’ capace di reggere in grandezza ed autodeterminazione il confronto col Dio “spodestato” (morto) ma devia verso il sonno dell’automatismo sublimato (il cervello tecnologico: la tecnica imperante o cyber-sistema) rinnegando di fatto invece il proprio potere e la propria potenza] apprezzo maggiormente lo spaccato (le tesi) che ne fa Fromm, che a differenza (da quel poco che ho avuto modo di considerare di) di Severino porta l’auspicata soluzione al disastro in atto, sì, nel valore immortale dell’esperienza (dove Severino si spinge il concetto di ente all’estremo, enti eterni sarebbero non solo l’attimo di tempo ed il vissuto ma ogni aspetto del reale) ma a condizione che tale valore, tale riconoscimento provenga da una differente coscienza, consapevolezza del potenziale interiore umano, dove la volontà di potenza non è sublimata, quindi compensata e rimossa entro il sistema produttivo (leggi: sistema. Leggi: rinuncia all’individualità. / Leggi: rinuncia all’autodeterminazione) ma in un differente significato del produrre, in un differente significato dell’essere, la creatività autentica. Creatività non finalizzata, non manipolata, non fagocitata entro un sistema dove l’umano diventa mezzo a qualcosa!
In questo c’è una corrispondenza con la visione dell’eternità dell’esperienza, l’eternità del momento, di cui parla Severino. Entrambi individuano la possibile realizzazione dell’uomo nuovo in una differente coscienza interiore e in una differente autentica autodeterminazione. Forse –non conosco a sufficienza il pensiero di Severino- dove Severino si ferma nell’analisi filosofica che ha causato l’impasse umana divenuta negazione di sé -poiché nell’eterno ritorno non si individua un potere eterno riproposto perennemente ma una fine ciclica, perpetua, pertanto un’affermazione del nulla, sostanziale, essenziale, degli enti, Fromm pone l’attenzione e l’accento sulle motivazioni profonde analitiche che hanno portato l’uomo a quell’impasse, a quella negazione di sé, individuandole non nella visione filosofica intorno all’essere, (essere) inteso (per Severino, erroneamente) a causa degli enti ciclicamente finiti sostanzialmente coincidente col nulla (dal quale scaturiscono ed al quale tornano; in un gioco di apparenze che però coincide con l’apparire di ciò che non è e mai sarà) ma nella struttura sociale che ha causato l’espropriazione dell’umano all’uomo, nella struttura del pensiero che ha ridotto l’umano a mezzo utile (al sociale) e non posto come fine medesimo. Individua quindi (Fromm) una soluzione da attuarsi (come per Severino) in seno alla coscienza umana ma (e qui non so se e cosa dica Severino) attraverso la rivoluzione profonda della struttura sociale che ha spodestato l’individuo in favore di un organismo la cui identità è la massa amorfa il cui volto e anima è il sistema economico, la cui funzione è il sua stessa sopravvivenza, il suo dominio. Rivoluzione possibile solo attraverso una differente coscienza individuale che ponga centrale la creatività umana e riaffermi l’uomo come fine medesimo. Rammenta in un alcuni passaggi Marx ma prende le distanze proprio per una coscienza che non è coscienza di classe ma potenza creativa spontanea che sente essere la naturale disposizione biofila dell’uomo verso l’esperienza della vita, a patto che si rispettino le condizioni di potenziamento dell’interiorità umana, del suo potenziale, quell’interesse (inter-esse, direbbero i buddisti) quella creatività* non sublimata in un amorfo sistema tecnologico ma sublimazione stessa, risposta stessa, del senso del piacere, del potenziale umano, dell’essere per essere. Logico che quest’affermazione comporta un’autodeterminazione, una coscienza responsabile di quella libertà che l’individuo incontra nell’affermazione di sé non più fagocitato in un invisibile organismo piovra depersonalizzante ma altrettanto rassicurante poiché esente da richieste di coscienza individuale responsabile. Una Madre che risucchia i suoi cuccioli privandoli fondamentalmente di capacità decisionali e di responsabilità ripagando il loro consenso con la moneta del diritto alla sopravvivenza e la fittizia identità presa in prestito che consente l’appagamento al desiderio, necessità, di appartenenza. Se Severino individua nei fondamenti del pensiero filosofico occidentale il motivo del declino della potenza umana a causa della distanza posta dalla posizione razionale nell’indagine verso l’essere, Fromm individua quel medesimo allontanamento nella distanza posta tra l’uomo e la sua coscienza di essere, tra l’uomo e il frutto della sua creatività. In entrambe le visioni l’essere scompare lasciando campo al trascendente, fuori dall’esperienza diretta e dal campo visivo dell’uomo**. Producendo una frattura profonda nell’interiorità umana, nella separazione dell’uomo dalla sua volontà di potenza, potremmo dire, dell’uomo dalla sua identità profonda, l’esperienza diretta di essere (di essere per essere): quella preziosità del momento esperito, della propria unità profonda inscindibile con la Vita (l’Essere, direbbe Severino). Quel divenire che fagocita non è –per entrambi- che la spaccatura profonda in seno all’uomo, che distanziato da sé medesimo (solitudine esistenziale) non può che declinare nell’oblio di sé e del senso. Citazione:
“ Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria. […] E a maggior ragione è la Gloria, se si tiene presente che la risposta ora fattasi innanzi dice che l'eterna e finita manifestazione dell'eterno e del destino è un dispiegamento infinito che non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra, non ha la strada sbarrata da alcuno spettacolo conclusivo; e portando alla luce regioni sempre diverse della totalità dell'eterno non lascia cadere nell'oblio nemmeno la più piccola e irrilevante di tutte quelle che esso ha già portato alla luce ” Questa sintesi quasi mistica attraverso le parole di Severino coglie in sintesi quella medesima essenziale immortalità espressa nella citazione a seguire attraverso le parole delle Upanishad. [..]Unico Signore è l’atman, intimo a tutti gli esseri, che molteplice rende la sua unica forma [..] (Katha Upanishad) Queste, ancora, per bocca di un antico maestro Zen, Ta-hui: “ Donde siamo nati? Ove andiamo? Colui che conosca questo onde e questo dove è il solo che possa veramente essere chiamato buddista. Ma chi è quest’uno che va attraverso nascita e morte? E ancora, chi è quell’uno che conosce tutto dell’onde e del dove della vita? Chi è quest’uno che d’un subito diventa consapevole dell’onde e del dove della vita? Chi è quest’uno ancora che di fronte a questo koan non può fissarvi gli occhi e, non essendo in grado di comprenderlo, si sente i visceri sconvolti, come se una palla di fuoco, che avesse trangugiato, non riuscisse più a venir fuori. Se vuoi conoscerlo, afferralo dove non può essere trascinato nei recessi della ragione. Quando tu così lo apprenda, conoscerai che, dopo tutto, esso è al di sopra dell’interferenza della nascita e della morte. “ [..segue..] ---------------------- (*) creatività intesa come risposta originale, individuale, autentica e personale agli eventi che l’esperienza ci propone. Certo è che se la conoscenza è trasformazione, per dirla con Freud e non solo lui,allora l’eternità dell’ente parrebbe prendere i connotati fondamentali dell’impossibilità della creatività come realizzazione di sé, del proprio potenziale, per come intende Fromm se inserito nel contesto del discorso sugli enti di Severino. Perché se il divenire fondamentalmente non è essere allora la realizzazione interiore non risulta possibile. Ma allora c’è qualcosa che non quadra nel discorso di Severino o nell’intenderlo. E’ peraltro vero che conoscenza è si trasformazione, come afferma Freud e non solo, ma al contempo è affermazione di un potenziale che emerge; in tal caso non individueremmo in questo una sorta di sviluppo, contrario al discorso di Severino, ma una realizzazione in chiaro di ciò che già c’è, come è anche la visione del buddismo dzogchen, dell’advaita-vedanta e fondamentalmente anche quella di Fromm.. C’è solo da intendersi sui termini nel loro rapporto temporale. Il seme è albero o sono temporalmente distinti? E se lo sono, sono loro ad essere distinti o il tempo che li fa apparire tali? Sembra che Severino affermi una impossibilità di diventare altro-da-sé, il ché di norma è assolutamente assodato nella sua impossibilità ad essere. Per cui forse il discorso è già in questo risolto. D’altronde risolta anche il risucchio della Terra da parte del Sole essendo la Terra in potenza risucchio-del-sole. Ma questo discorso non vira verso l’assurdo e lo scontato? Ancor più risulta gratuito il discorso degli enti che in questo caso sono il medesimo essere visto attraverso la prospettiva spaziale-temporale. Mah.. (**) “ L’ ‘idologia’ può mostrare che un uomo alienato è necessariamente un idolatra: si è impoverito trasferendo i suoi poteri vitali nelle cose esteriori, ed è costretto ad adorarle per conservare un minimo di se stesso e, in ultima analisi, per mantenere il proprio senso di identità “ Fromm -da ‘Voi sarete come Dèi’ . |
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02-09-2013, 09.31.53 | #16 |
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Ho però una domanda per gli estimatori e conoscitori del pensiero di Severino.
E per l’amor di Dio o della umana comprensione, non bocciatemi la mia sintesi quantistica dovuta ad una non conoscenza assai sofferta ed a una brama sottostante di conoscere ben protesa. Cogliete dunque il sostanziale paradosso che vi porgo e stendete un velo amorevole sulla mancanza di un linguaggio fisico adeguato o su eventuali trasposizioni inadeguate. Se gli enti sono eterni (ovvero l’essere immutabile) cosa intende nello specifico con enti? Esempio, Gyta è ente, ma ogni possibile visione di Gyta, ovvero quale fra le tante realtà coesistenti che formano la “Gyta”, quella del corpo, del pensiero, della mente, del corrispettivo sub-atomico, tutte? Ma allora, se “tutte” non rischia di rendere (Severino) l’ente distante dall’essere in questa affermazione secondo cui sono gli enti ad essere eterni? Perché mi chiederete. Perché se è ogni aspetto di “Gyta” in realtà l’ente Gyta non è affatto limitato da un corrispettivo che riguardi unicamente l’ente “Gyta”, perlomeno se prendiamo come riferimento quel mondo sub-atomico dove “Gyta” ed il suo frigorifero non solo sono perfettamente identici ma probabilmente occupano persino il medesimo spazio-tempo con tutte le approssimazioni del caso.. Insomma, se il qui-ed-ora di Gyta e tutti i là-e-quando- di Gyta sono eterni allora sono eterni anche i differenti livelli spazio-temporali di Gyta, ma se è così allora il livello quantistico cessa di essere in riferimento a Gyta anche qualora volessimo, essendo quel livello il medesimo “ovunque”; allora che bisogno c’è per far quadrare i conti con l’essere eterno che anche gli enti siano eterni, se in realtà l’ente eterno non è che l’essere stesso, e gli enti che lui afferma presumere eterni non sono a mio avviso che l’apparenza dell’essere stesso, seguendo le sue di argomentazioni (per quel poco che ho avuto modo di cogliere del suo pensiero). Insomma che cacchio parla di enti a fa’, se francamente è più incomprensibile l’idea di ente*** (eterno) che non quella di essere (immutabile). Altra domanda, provocatoria: come pensa che l’idea dell’eternità di ogni ente possa sconfiggere la disperazione del pianeta, secondo me uno si dispera peggio!! Non solo alcune cose fanno da una certa ottica precisa schifo ma pure questo schifo non conoscerà declino (parafrasando Severino)! Ah, già ma quest’eternità non consente l’orizzonte del pensiero speculativo. O meglio, eterno lo schifo, eterna la ricerca del rimedio allo schifo. Bel quadro! Non so ma più guardo la visione degli enti e più ripenso alle monadi e il buio dell’ulcera cala nel mio stomaco, che spero limitata nel tempo. Fondamentalmente l’idea (magra, visto la scarsità di mia conoscenza) che mi sono fatta intorno a quel poco che ho potuto superficialmente accostarmi a conoscere del pensiero di Severino è la medesima che fondamentalmente ho verso il pensiero filosofico in generale ovvero di un dito razionalmente proteso ad indicare, nel nostro caso, l’essenza (dell’esperienza vitale) sfiorata attraverso il linguaggio (pretenzioso e legittimo) della ragione. Dove è fondamentale cogliere l’insieme delle indicazioni più che ricercarne l’estrema coerenza, essendo le implicazioni annesse se non infinite perlomeno vaste. ------------------------------------- (***) Cito Mosè Maimonide dal libro (sopra) di Fromm: “ Quelli che credono che Dio sia Uno e che abbia molti attributi, dichiarano l’unità con le loro labbra, e sostengono la pluralità nei loro pensieri” Ed il discorso vale, dico io, sia che ci riferiamo all’Essere o a Dio. Il suo discorso -quello di Maimonide- vira poi verso la conoscenza possibile attraverso la via negativa (la via degli attributi negativi --che è fondamentalmente paradosso poiché afferma in chiaro le corrispettive qualità), che personalmente condivido solo in parte. |
02-09-2013, 09.58.58 | #17 | |
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Forse il tempo è solo una nostra percezione, cosa sarebbe il tempo se non fossimo in grado di ricordare? Cosa sarebbe il tempo se non ci fosse memoria? Senza memoria sarebbe un continuo "Adesso!" (invivibile senza ricordi e proiezioni). Dire eterno o senza tempo non è forse la stessa cosa? Forse l' Essere è senza tempo, ed è il nostro ricordare le sue diverse "configurazioni" che ce lo fa apparire diveniente. ..ma forse sto delirando.. Ultima modifica di jeangene : 02-09-2013 alle ore 19.34.42. |
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02-09-2013, 19.15.23 | #18 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Veramente se qualcosa diventa altro da ciò che era diventa nulla per ciò che concretamente e specificatamente era (non: é) prima di diventare altro. Maral: Se spengo questa lampada che ora è accesa, la lampada-accesa (LA) si annulla e dal nulla emerge una lampada-spenta (LS) che è cosa diversa pur avendo in comune con LA una serie di attributi che la classificano in astratto come lampada che si vuole sia la stessa lampada indipendentemente dal fatto che sia accesa o spenta. Se affermo che una cosa diventa un'altra cosa non solo affermo che quella cosa non è se stessa, ma proprio in quanto non è se stessa, essa è se stessa (e qui sta il nocciolo dell'assoluta contraddizione del divenire). Infatti se dico che una LA può diventare LS affermo che LA e LS sono cose diverse, ma pur tuttavia sono la stessa lampada (altrimenti non potrei parlare di lampada in divenire).[/quote] Sgiombo: Se affermo che una cosa diventa un'altra cosa allora intendo dire (affermo) che essa era la stessa cosa che era prima della trasformazione, fintanto che non é diventata un' altra cosa dopo la trasformazione (e il punto di passaggio può essere assunto anche ad libitum, purché non contraddittoriamente: si tratta semplicemente di definizioni arbitrarie di diversi concetti); e che dopo al trasformazione non é quella cosa che non é (più), ma che era prima della trasformazione: dove ci sarebbe contraddizione? Se affermo che LA può diventare LS affermo che LA (che era reale prima) é cosa diversa da LS (che é reale poi), anche se hanno elementi di realtà comuni, che persistono (cambiano solo certi aspetti della lampada, nello spegnersi, non la sua totalità: non é che spegnendosi diventa una bicicletta). Maral: L'obiezione dei tempi diversi (rif. Sgiombo) come contesti diversi in cui la stessa lampada si manifesta in realtà non regge, perché la temporalizzazione degli eventi è una conseguenza del divenire, non la sua causa giustificante: se il divenire è una insormontabile contraddizione logica non si può prendere il tempo che ne dà misura per risolvere questa contraddizione. [/quote] Sgiombo: Infatti il divenire non é affatto una contraddizione logica, tantomeno insormontabile. La "temporalizzazione degli eventi" può significare soltanto "il divenire (nel tempo, ovviamente)", che in termini puramente logici non ha bisogno di alcuna giustificazione causale (é semplicemente un concetto del tutto sensato, non contraddittorio: Di fatto é giustificato da eclatantissime svidenze empiriche. Quello circa l' esistenza o meno del divenire (il realizzarsi del divenire o della fissità) non é un giudizio analitico a priori, come pretenderebbe Severino, ma sintetico a posteriori. |
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02-09-2013, 19.42.57 | #19 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Penso che i principi etici siano solidi relativamente (come tutto é relativo in natura), limitatamente alla durata (finita nel tempo) della specie umana nei loro aspetti più generali, universali e profondi (comportati verso gli altri come vorresti gli altri si comportassero verso di te; considera sempre gli altri uomini come fini e mai come mezzi, ecc.); e limitatamente al succedersi delle diverse epoche storiche e dell' alternarsi dei diversi contesti sociali nei loro aspetti meno universali e più transeunti (monogamia o poligamia, uguaglianza o disuguaglianza di vario grado e specie nei diritti e nei doveri degli uomini, ecc.). Oxdeadbeef: Mi dici che l'evoluzione biologica può aver determinato la nascita di concezioni universalistiche ed altruistiche, di un "potente senso del dovere", ma dimmi: come si impongono, se si impongono, queste concezioni sulle altre? Non vedi forse un irrisolvibile "conflitto" fra le diverse concezioni del mondo? Tanto per restare sulla terminologia di Severino, le volontà di potenza cercano, ognuna, di sopravanzare l'altra. Il "conflitto", per non ex-sistere (cioè per non apparire, per non svelarsi), avrebbe bisogno che le cose succedano "necessariamente" (ad esempio che, necessariamente, il concetto altruistico si imponga sull' o sugli altri). Sgiombo: Mi sembra palese, abbastanza ovvio e del tutto non problematico che esista (anche) la trasgressione del dovere morale, la colpa (per la legge il reato, per la religione il peccato) e che il bene morale si possa imporre solo relativamente, parzialmente (come tutto é relativo in natura) nel mondo e nell' umanità in una lotta continua contro il male. Le diverse concezioni si scontrano nella declinazione non generalissimamente universale e costante (per quello che di costante può presentare ciò che é umano, a cominciare dalla nostra esistenza limitata nel tempo) dei doveri morali, che personalmente, da materialista storico, ritengo condizionata in ultima istanza dal rapporto dialettico fra sviluppo delle forze produttive e rapporti produttivi. Oxdeadbeef: E dato che questo non può avvenire, perchè la nostra cultura ha cancellato, con l'inflessibile, anche il "necessario" (sostituendolo, dice Severino, con il "probabile"), ecco allora che è esso: il conflitto, o se vogliamo il pluralismo dei valori morali ed etici (ma il discorso di Severino si spinge ben oltre), ad ex-sistere. Sgiombo: Ma allora perché il nichilismo e la trasgessione delle norme etiche (la colpa, il peccato, il reato) in una qualche misura sono sempre esistiti (e sempre esisteranno) in tutte le società e in tutte le culture, anche le più antiche(*) più o meno diffusamente, estesamente e gravemente a seconda del carattere più o meno progressivo e civile oppure più o meno regressivo e barbarico dei contesti storici stessi? * Oso fra l' altro supporre che anche Prmenide e Severino (solo loro e i loro seguaci credono nell' inflessibilità e negano il divenire) non siano perfetti e qualche piccola colpa o peccatuccio più o meno veniale l' abbiano pur commesso, come tutti gli altr iuomini che credono nella flessibilità e nel divenire (taluni più, talaltri meno gravemente, anche con differenze interindividuali enormi: Severino non é Obama!) Ricambio di cuore la stima, oltre a una grossa simpatia (anche in quanto ciclista), indipendentemente dalla profondità dei nostri reciproci dissensi. Ciao! |
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02-09-2013, 19.58.20 | #20 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Dire: "Ipoteticamente non esiste alcunché, alcun ente" (=considerare il, pensare al, concetto del "nulla") é ben diverso dal dire "Ipoteticamente esiste qualcosa, qualche ente": sono due concetti ben diversi, molto chiari e inequivocabili e reciprocamente escludentisi e non certo lo stesso concetto. Oxdeadbeef: Il Nulla (riflessione mia) forse è definibile solo negativamente, come "ciò che non è". Ma dire "ciò che non è" è forse equivalente a dire "ciò che non è più, o non è ancora"? Ovvero: può l'Essere situarsi nel tempo? Sgiombo: E perché no? Certo che può! Dire "ciò che non è (già più, né ancora)" può essere o meno equivalente (a seconda dei casi) a dire "ciò che non è più, o non è ancora". (Tanto assurde mi appaiono le sue affermazioni, che confesso che qualche volta mi viene perfino il dubbio che Severino parli un linguaggio metaforico e volutamente esoterico, o addirittura che si diverta a prendere in giro chi lo legge. Sinceramente non mi stupirei se dopo la sua morte un qualche notaio rendesse nota una sua confessione in cui rivelasse che era tutta una presa per il c...: un po' come il famosissimo scherzo di Sokal e Bricmont molto più in grande stile). |
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