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20-10-2013, 17.46.12 | #114 |
Ospite abituale
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Aggressor
I vari sistemi etici provengono da un luogo comune, ma come poterlo individuare se il solo oggetto che possiamo conoscere è il fenomeno? In altre parole, senza arrivare a spingerci fino all'idealismo (che considera l'oggetto come "prodotto" dal soggetto), come altrimenti poter affermare una conoscenza del "luogo comune" da cui i vari sistemi etici si dipartono se questo "luogo comune" ci appare pur sempre come un fenomeno, cioè come un qualcosa di già-interpretato? A mio avviso, dovresti allora dire che ciò che ci appare, cioè il fenomeno, non è l'oggetto reale, ma appunto è l'interpretazione di questo oggetto reale (senza, come dire, lasciarti fuorviare dalle proposizioni idealiste, ma comunque ammettendo che questo "oggetto reale", che pur "c'è" anche in assenza di chi lo interpreta, non è conoscibile al di fuori del soggetto conoscente). Per quel che mi riguarda, io chiamo "cosa in sè", o "evento", questo oggetto reale nella sua condizione di non (ancora) interpretato da un soggetto interpretante. Ed è proprio ammettendo una conoscibilità siffatta (una conoscibilità, dicevo, "per assenza", visto che possiamo conoscere solo i fenomeni) che si rende possibile ipotizzare uno "spostamento" fra i fenomeni, ovvero uno spostamento fra i vari sistemi interpretativi (cosa impossibile se partissimo dalla considerazione del fenomeno come oggetto reale, perchè impossibile ci sarebbe la distinzione fra osservato ed osservatore). Ti rimando comunque anche al post "La verità è ciò che si dice", dove parlo della distinzione di U.Eco fra oggetto cosmologico ed oggetto gnoseologico. ciao |
21-10-2013, 04.48.50 | #115 |
Ospite abituale
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@mauro (dopo 2 mesi di ferie )
A mio parere Mauro non ti sei ancora interrogato sulla questione che pone Severino proprio in termini etici. Sostanzialmente il messaggio è vivere ogni momento come fosse un eterno apparire di eterni. In questo la morte (il nulla) sarebbe rimossa perchè illogica al nostro essere ora. In fin dei conti qualcosa di simile disse Epicuro. In termine etici significa rivedere tutta la weltaschaung in chiave immanentista e non più teologica-teleologica. Credo che sia un lavoro da fare, soprattutto oggi dove la teologia politica sta ponendo un prezzo durissimo a pagare proprio in termini di paure. D'altronde anche se il nostro io fosse solo un fantasma di una traccia del vivente, non dobbiamo per questo porre un io al cubo (l'hybris) come termine di relazione . nè tantomeno pensare, perchè quello è il nazismo (di prossima venuta), che il vivente sia il biologico (o il fisico) come invece in questo forum molti fanno tra l'altro. non è così che possiamo affrontare il tema della paura della morte. piano piano mi sto convincendo pure io. @sgiombo non devi pensare a severino come ad un santone, sta dicendo semplicemente quello che anche il tuo prediletto hume diceva, una serie slegata di momenti viene percepita dai sensi e dall'intelletto creduta come una serie di causa ed effetto. quello che pone attenzione severino è che la legna non è la cenere. e che quindi la legna non cessa di essere legna solo perchè non appare più. il suo è un taglio psicologico geniale, poichè mette in guardia l'uomo dal pensare a se stesso come un monolite, per accrescimento o sottrazione. ma l'uomo bambino, non è l'uomo anziano. il rischio di pensarlo è una chiara forma di autismo in cui il soggetto implode su se stesso. in larga scala è quello che sta accadendo. @tutti una cosa l'ho capita: per severino non esiste l'Essere ma solo gli esistenti. vedo che molti continuano invece a fare la distinzione che era di san tommaso o di aristotele in cui c'è un primo motore. non è così per severino, e in questo è la sua novità. |
21-10-2013, 12.56.02 | #116 |
Ospite abituale
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
0xdeadbeef:
I vari sistemi etici provengono da un luogo comune, ma come poterlo individuare se il solo oggetto che possiamo conoscere è il fenomeno? In altre parole, senza arrivare a spingerci fino all'idealismo (che considera l'oggetto come "prodotto" dal soggetto), come altrimenti poter affermare una conoscenza del "luogo comune" da cui i vari sistemi etici si dipartono se questo "luogo comune" ci appare pur sempre come un fenomeno, cioè come un qualcosa di già-interpretato? A mio avviso, dovresti allora dire che ciò che ci appare, cioè il fenomeno, non è l'oggetto reale, ma appunto è l'interpretazione di questo oggetto reale (senza, come dire, lasciarti fuorviare dalle proposizioni idealiste, ma comunque ammettendo che questo "oggetto reale", che pur "c'è" anche in assenza di chi lo interpreta, non è conoscibile al di fuori del soggetto conoscente). Per quel che mi riguarda, io chiamo "cosa in sè", o "evento", questo oggetto reale nella sua condizione di non (ancora) interpretato da un soggetto interpretante. Allora, devo chiarire ancora il mio punto di vista perché non l'ho fatto adeguatamente. Non metto in dubbio che esista qualcosa di indipendente (in qualche senso) dal mio pensiero, dal mio pensarlo. In quanto, altrimenti -per esempio-, tutto ciò che mi interessa potrei crearlo (come in un sogno lucido); cioè non si spiegherebbe l'accidentalità d'una moltitudine di esperienze che anche se fossi Io a creare, lo starei facendo inconsapevolmente e senza potere decisionale sul cosa esperire. Detto questo, per ciò che riguarda la natura di entità indipendenti (poi dico sempre "relativamente indipendenti" perché comunque noi esercitiamo -finché ci siamo- una coazione su di esse, anche minima) esse sarebbero il risultato di un rapporto (queste parole tratte da wiki potranno aiutare a capire: La concezione comune ci farebbe pensare che prima vengono gli oggetti e successivamente le funzioni compiute dagli stessi, ma Fichte è categorico nel rovesciare questa credenza. Ciò che viene comunemente chiamato "cosa", oggetto, non è altro che il risultato di un'attività), analogamente rispetto ai fenomeni che sarebbero il risultato di un rapporto tra l'Io e gli oggetti in sé (noumeno). In questo senso la realtà delle cose, in generale, riposerebbe nel contenuto che le cose contraggono in quanto definite dall'altro; però, per non usare un linguaggio contraddittorio si dovrebbe dire che ad esistere è una situazione, non vari oggetti, una realtà che può essere etichettata o smembrata in oggetti solo per utilità (ad esistere sarebbe l'attività). Non nego che esista un piano indipendente dalla nostra interpretazione di esso (interpretazione che è comunque realtà in quanto emergenza di un rapporto, in quanto attività), nego solo che questo piano sia, ad un tempo, composto da entità statiche nei loro contenuti, entità ontologicamente di per sé esistenti. Dico, insomma, che il nostro interpretare è uno sguardo a ciò che è al contempo osservato, è una relazione con ciò che è già relazione. A livello pratico, per esempio, il nostro pensare alla Luna, non è un pensare a qualcosa "la Luna" in quanto ente di per sé pieno di proprietà, ma è un pensare ad un oggetto che intrattiene, se vuoi primariamente, una relazione col nostro pianeta e che tramite questa attività perviene al suo contenuto, secondariamente -questo pensare alla Luna- sarebbe l'attuarsi di una attività quale la relazione tra noi (uomini) e l'attività primaria (Terra/Luna). In questo senso, qualsiasi cosa possa essere l'evento non potrà stagliarsi in quanto di per sé significante (o di per sé avente contenuto, di per sé reale); tuttavia la ripercussione di questa affermazione (inquadrata nel senso da me descritto) è ben poco devastante, non è come dire che sono effettivamente Io a creare la realtà (in un senso estremo-idealista). Questo evento (mettiamo che sia qualcosa di meramente "fisico") sarà significante all'infuori della relazione con me (ad esempio), per quanto, comunque, anche il mio corpo fisico o ciò che esso è stato prima di arrivare ad una simile configurazione energetica, deve aver contribuito a delimitare l'evento, anche poco, quando esso ha avuto luogo. L'oggetto in sé, il noumeno, diventa "l'oggetto non interpretato da me", non "l'oggetto non interpretato", e così i principi trascendentali della conoscenza (non voglio qui dire quanti e quali siano -non saprei dire se esitano in quantità-, né specificare troppo il senso di una simile affermazione che però potrà essere, a mio parere, comunque ben intesa) diventano principi dell'essere reale. Ciò che mi interessa è che, in qualche modo, il divario ontologico tra i piani sfumi tanto che si possa affermare qualcosa di vero, smettendo di autoingannarci dicendo che qualcosa di vero non può essere detto (mentre si afferma qualcosa con pretesa di realtà). Per quanto riguarda un apporccio scettico esso non nega che si possa arrivare a una verità, si limita solo a tacere per ora -dicono..- (anche se poi, di solito, gli scettici diventano dogmatici dell'impossibilità di una conoscenza alla Pirrone, contraddicendoci intrinsecamente). |
21-10-2013, 13.05.53 | #117 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Green
Ma Severino non dice di vivere ogni momento "come se" se esso fosse eterno; ma dice proprio che ogni momento è eterno. Questo è il motivo per cui, e nonostante tutto, continuo a rimanere kantiano; perchè è Kant a dire di agire "come se" vi fosse un'eternità (chiamala, se vuoi, "Dio"). E dico questo pur se ammiratore di Severino (d'altronde, come diceva Nietzsche, si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari), ma la portata di "metafisicità" di quel suo enunciato mi è, come dire, insopportabile. Ed assolutamente non giustificata da una logica che pre-tende di fondarsi su una contraddizione (l'essere che nasce e che ritorna nel nulla) i cui contorni, io trovo, sono assai discutibili (ne discutevo tempo addietro). ciao (felice di risentirti, e contento per te dei due mesi di ferie...) |
21-10-2013, 13.35.43 | #118 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Riprendo scusandomi per il ritardo alcuni punti in precedenza tralasciati, ma che mi sembrano importanti per capire Severino.
Jeangene e Oxdeadbeef si chiedono perché il divenire implica il nulla. La risposta è evidente se si considera il presupposto da cui Severino parte, ossia che tutte le cose sono indissolubilmente legate a ogni loro predicato. In effetti l'essente è ciò che esso è come definito da ogni suo attributo, senza che possa venirgliene sottratto alcuno. Questo è il motivo per cui il diventar altro di ogni essente (il diventare cenere di questa legna) non può essere che un diventare di questa legna nulla seguito da un diventare dal nulla cenere. Ogni diventar altro deve necessariamente passare per il nulla nell'ottica della inseparabilità di ogni sostanza dagli attributi. Quando jeangene a pag.9 scrive: Citazione:
Jeangene poi chiede anche se tutte le caratteristiche appartengono all'ente stesso e non siamo noi ad attribuirgliele a mezzo delle nostre rappresentazioni. Qui si tocca un altro punto fondamentale della filosofia di Severino. Quella sostanza che è l'essente stesso tutto intero (senza che gli possa essere tolto alcun attributo) è una sostanza relazionale e non di oggetto, ove le relazioni sono le continue corrispondenze tra quell'essente con tutti gli altri essenti, nessuno escluso. Gli essenti appaiono l'uno all'altro proprio in virtù di questo essenziale porsi in relazione che non li isola mai come oggetti. Dunque le caratteristiche dell'ente sono certo dell'ente stesso, ma sono determinate dalla costante relazione con ogni altro ente, osservatori compresi. Ossia nella classe completa degli attributi di questa penna, non devo considerare solo il fatto di essere nera, di stare sul mio tavolo a quest'ora della giornata ecc., ma anche l'atributo che è da me osservata. Se fosse osservata da te e non da me non potrebbe essere considerarla la stessa penna. Mariodic poi mi chiede come si possa dubitare dell'io, con particolare riferimento al ragionamento cartesiano (poi rielaborato criticamente da Husserl che pone l'io trascendentale a base della fenomenologia). Come è noto Cartesio dice di arrivare a risolvere il dubbio sistematico affermando come indubitabile l'io pensante di "penso quindi sono" (se anche pensassi di non essere sarei pur sempre io a pensarlo dunque a essere). Ora Il presupposto iniziale è che si pensa, ma non solo, è pure che sono io a pensare per cui Cartesio in realtà sottintende nascondendolo questo io che fin dall'inizio pensa e che quindi fin dall'inizio presuppone per tirarlo fuori come conclusione sorprendente. In altre parole il "penso quindi sono" detto per intero è necessariamente un "io sono quindi io penso quindi io sono", ossia in sostanza un "io sono quindi io sono" che è una tautologia valida per qualsiasi ente, anche quelli che ci sembrano non pensanti, dunque non vi è alcun motivo per attribuire una posizione privilegiata o fondante all'io sulla realtà, se non l'arbitrio di un io che così vuole. Come infine giustamente dice green&grey pocket per Severino non esiste l'essere, ma solo gli esistenti (ossia gli essenti), infatti l'Essere rientra pur sempre in quel concetto astratto dell'astratto fonte di ogni contraddizione. Severino sostituisce dunque l'Essere con il Destino che è ciò che veramente sta sotto all'apparire di ogni essente, dunque la sostanza effettiva di ogni essente che corrisponde, come abbiamo visto con l'intero essente stesso nel complesso di infinite relazioni che lo collegano costantemente a tutti gli altri essenti. Il Destino è dunque l'essente stesso non separato da tutti gli altri Essenti. |
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22-10-2013, 16.25.14 | #119 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Aggressor
Ho capito, ma se tu dici che il fenomeno è l'oggetto reale (come hai affermato in una risposta precedente) poi mi ricadi inevitabilmente in un punto di vista che, a mio parere, coincide con quello di Fichte (il quale, nota bene, parla di un "io creatore (dell'oggetto)". In realtà, la questione è solo apparentemente confusa: è di conoscenza che stiamo parlando, non di esistenza. Posto infatti che ambedue concordiamo che "qualcosa"; qualche "situazione" (per me è pertinente usare il termine di "oggetto"); esiste anche fuori dal soggetto (interpretante), il problema verte allora su quale conoscenza possiamo avere di questo "qualcosa". Ora, se questo "qualcosa" non può che apparirci come fenomeno (l'esempio che fai del "qualcosa" che noi chiamiamo "Luna"), esso non sarà l'oggetto reale, ma sarà quel "qualcosa" che il nostro livello di pertinenza e di interesse (per dirlo con le parole di U.Eco) ha deciso di chiamare in un certo modo (Luna, appunto). A questo punto, è chiaro che "la Luna" è un significato ben preciso. Per noi, ad esempio, sarà un satellite della Terra che etc. etc. Mentre, che so, per un aborigeno sarà qualcos'altro, cioè avrà un altro significato. Ma allora ti chiedo: con quale legittimazione chiamiamo la Luna "oggetto reale"? Non credi che, se lo facessimo, peccheremmo dello stesso peccato di Hegel quando afferma la coincidenza del reale e del razionale? E se la Luna non è l'oggetto reale, ma il fenomeno che a noi appare DELL'oggetto reale, come chiamare questo oggetto reale (visto che non lo possiamo chiamare "Luna")? Naturalmente la stessa cosa dovrà valere per qualsiasi altro interprete (che non siamo noi che chiamiamo "Luna" quell'oggetto - o quella situazione che dir si voglia). Per cui anche ad altri interpreti (ad altri soggetti) quel "qualcosa"; quella situazione; quell'oggetto; apparirà come un fenomeno, cioè come un significato. E con quale legittimazione potrebbero chiamare "oggetto reale" quel fenomeno che a loro appare? Tutto questo, naturalmente, vale per i sistemi etici. ciao |
23-10-2013, 01.34.05 | #120 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
0xdeadbeef:
Ho capito, ma se tu dici che il fenomeno è l'oggetto reale (come hai affermato in una risposta precedente) poi mi ricadi inevitabilmente in un punto di vista che, a mio parere, coincide con quello di Fichte (il quale, nota bene, parla di un "io creatore (dell'oggetto)". In realtà, la questione è solo apparentemente confusa: è di conoscenza che stiamo parlando, non di esistenza. Posto infatti che ambedue concordiamo che "qualcosa"; qualche "situazione" (per me è pertinente usare il termine di "oggetto"); esiste anche fuori dal soggetto (interpretante), il problema verte allora su quale conoscenza possiamo avere di questo "qualcosa". Ora, se questo "qualcosa" non può che apparirci come fenomeno (l'esempio che fai del "qualcosa" che noi chiamiamo "Luna"), esso non sarà l'oggetto reale, ma sarà quel "qualcosa" che il nostro livello di pertinenza e di interesse (per dirlo con le parole di U.Eco) ha deciso di chiamare in un certo modo (Luna, appunto). A questo punto, è chiaro che "la Luna" è un significato ben preciso. Per noi, ad esempio, sarà un satellite della Terra che etc. etc. Mentre, che so, per un aborigeno sarà qualcos'altro, cioè avrà un altro significato. Ma allora ti chiedo: con quale legittimazione chiamiamo la Luna "oggetto reale"? Non credi che, se lo facessimo, peccheremmo dello stesso peccato di Hegel quando afferma la coincidenza del reale e del razionale? E se la Luna non è l'oggetto reale, ma il fenomeno che a noi appare DELL'oggetto reale, come chiamare questo oggetto reale (visto che non lo possiamo chiamare "Luna")? Naturalmente la stessa cosa dovrà valere per qualsiasi altro interprete (che non siamo noi che chiamiamo "Luna" quell'oggetto - o quella situazione che dir si voglia). Per cui anche ad altri interpreti (ad altri soggetti) quel "qualcosa"; quella situazione; quell'oggetto; apparirà come un fenomeno, cioè come un significato. E con quale legittimazione potrebbero chiamare "oggetto reale" quel fenomeno che a loro appare? Tutto questo, naturalmente, vale per i sistemi etici. Se hai capito il mio discorso, avrai anche capito che non esiste quella "luna vera" che tutti cercano. Ognuno è immerso in un punto di vista soggettivo ma obbiettivamente, di modo che non sarà affatto impossibile (come abbiamo visto accadere in matematica) spostarsi in un punto di vista diverso. Ora devrò scongiurare ancora di non essere frainteso e lo farò ricordati che comunque non nego che esisterà un corpo fisico di forma più o meno sferica che ruota intorno alla terra (la Luna) anche qualora il genere umano dovesse sparire. Se ci fai caso anche un giovane aborigeno che fosse in seguito educato in Europa (ad esempio) potrebbe pensare la Luna inizialmente come una divinità ed in seguito nel modo in cui la pensiamo noi. Ciò che è certamente reale è il risultato dei rapporti delle relazioni, ad esempio il fatto che io veda la mia maglietta di colore rosso, percui sarà altrettanto reale che il rosso sia compreso da altri come onde a certe precise frequenze (invece che come colore). Ancora sarà vero che la maglietta è, per un atomo che la compone, qualcosa di ancora diverso, perché in lui l'effetto dell'essere della maglietta avrà ripercussioni diverse (sulla sua struttura interna). L'unico errore che si può commettere è credere che la maglietta rossa abbia, al di fuori delle relazioni che può intrattenere con altre realtà, delle propietà specifiche che gli appartengono, come si dice che la mia casa mi appartiene; o anche credere che questi "sistemi di relazioni" siano autonomi (il modo in cui l'atomo coglierà la maglietta -il suo agire/parite nei confronti di essa- tornerà nella mia interpretazione della magliettà, cioè deformerà/definirà il modo in cui Io colgo la maglietta = comunicabilità dei mondi soggettivi). In questo senso dico reale ciò che interpreto, semplicemente perché l'interpretazione è, come tutto ciò che esiste, il risultato di una relazione tra "alterità". L'ambiguità stà nel parlare di questa teoria continuando ad affermare cose come le alterità o gli oggetti che entrerebbero in relazione, perché essi non sono nulla al di fuori della relazione stessa. Se la lingua italiana utilizzasse di meno il verbo essere forse non crederemmo che esistono molti esseri; nessuno di essi può, infatti, mantenere le "sue" proprietà quando gli altri vengono a mancare o quando gli altri si trasformano (è in questo senso che nego l'esistenza della luna "vera", quella che non dipende dall'altro -e un esempio di altro può essere l'uomo-). |