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17-12-2013, 16.11.39 | #163 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Oxd.:
Io trovo che non solo una parte delle cose sia "data", ma che lo siano tutte le cose. Persino l'"io", dice Kant, ci appare sia come soggetto che come oggetto del pensiero, quindi persino l'"io" ci è, in un certo qual modo, "dato". Naturalmente la conoscenza cui potrà esperire un "io" non creatore sarà necessariamente una conoscenza relativa, mai assoluta (nessun posto per l'assolutismo dell'"io" creatore vi è nel relativismo dell'"io" finito). Per cui potremo semmai parlare di "validità" della conoscenza, mai di "verità". Concordo con te quando affermi che: "non poter conoscere non vuol dire non essere" (ho rimaneggiato un pò il tuo pensiero - spero di non averlo stravolto). Certo, noi "siamo" la verità, ne facciamo intrinsecamente parte pur non potendola conoscere. Anzi, direi che non la possiamo conoscere proprio perchè ne facciamo parte (così, come nel principio di indeterminazione di Heisemberg, l'osservato non può che dipendere dall'osservatore; non può esistere un "luogo privilegiato" nel quale l'osservatore si pone per osservare: l'osservatore può osservare solo da se stesso - benchè tale luogo privilegiato possa esistere appunto come "assenza"). Per quanto riguarda il concetto di "campo di senso" mi richiamo a quel che Severino risponde a...(quel filosofo tedesco del quale Ferraris cura l'introduzione: ora non mi ricordo il nome). Un "campo di senso" è null'altro che un contesto, e perciò è contraddittorio sostenere una visione infinita all'interno di esso (in realtà Severino parla della contraddizione fra verità e campo di senso, come emerge dalla teoria del filosofo tedesco in questione - io ho semplicemente rimaneggiato, diciamo, pro-nostro). Sulla distinzione assoluto-infinito dici cose non campate in aria (benchè io possa solo "intuirle"). Senonchè, trovo, in Fichte (e quindi un pò in tutto l'Idealismo) questa distinzione di fatto non sussiste, e dunque penserei superfluo riprodurla all'interno di questa discussione (il nostro contesto, o campo di senso specifico è quello, non trovi?). Sull'ultima questione. Hegel afferma, con quello, la coincidenza di realtà e razionalità. Ogni cosa che si realizza è necessariamente vera, perchè la verità è la coincidenza del reale e del razionale. Non vi è, in Hegel come in tutto l'Idealismo, nulla di relativo. Tutta questa corrente filosofica si risolve in un inno all'infinità e all'assolutezza; ma ciò avviene perchè, alla base, vi è la concezione dell'"io" come creatore. Non ti tragga in inganno quanto afferma certo positivismo di fine ottocento, perchè le sue basi filosofiche sono essenzialmente quelle idealiste. Ma una conoscenza finita (o delineata/definita, io lego molto questi concetti) comporta, per te, l'impossibilità che sia creatrice? Se si, perché? Dal canto mio suppongo che una coscienza/conoscenza limitata possa creare limitatamente. E nemmeno credo che possa dirsi esistente qualcosa che non si dia nel limite (ma qui non sono troppo sicuro, nel senso che potrei annettere a questo il discorso dell'infinito -che non è, come hai detto, per gli idealisti, altro dall'assoluto- e quindi starei chiamando finito ciò che al contempo non lo è -come avevo mostrato nell'esempio dei diversi infiniti-. O, meglio, il concetto di limite -che di solito si lega a quello di finitezza- potrebbe non trascinarsi dietro quello di finitezza, o quello di finitezza non parlarci davvero del contrario dell'infinito..). Comuqnue il punto di vista di Hegel è, ad un punto, anche il mio. Per chiarire, vorrei richiamarmi al punto iniziale della nostra discussione, sarebbe bello, infatti, trasportare il nostro dibattito su quel piano (il problema della relatività dell'etica -più o meno-), sebbene dovremo ancora stabilire ciò che rimane tra noi irrisolto, per giustificare appieno considerazioni sull' "evento" ecc.. Se tutto ciò che è razionale è reale, cioè, per ciò che mi riguarda, se tutto ciò che è pensato è reale, si potrebbe dire: tutto è relativo. Ma se tutto fosse pensiero o, in altre parole, se anche gli oggetti fisici (con le dovute accortezze tecniche che in seguito, se opportuno, presenterò) avessero contenuti mentali, se la psiche fosse propria di ogni elemento dell'esistenza, allora, una "priorità di realtà", cioè una maggiore potenza sul reale, lo avrebbero quei contenuti mentali più conosciuti. Cerco di fare chiarezza: la cosa che pare strana dell'idealismo, di solito, è che certe interpretazioni del reale sembrano più oggettivamente calzanti di altre, ci sono molto vantaggi teorici dal ritenere che lì fuori si trovi un certo stato della natura in sé, osservato poi da noi. Ma se ogni oggetto lì fuori fosse un osservatore della realtà -mettiamo, dunque, anche ogni atomo- la maggior parte degli "enti" vedrebbe la realtà in quel modo che la scienza ritiene pure quello obbiettivo o più "approssimativamente vicino alla realtà in sé". Se tutti crediamo che la "Luna" è una divinità, ciò sarà certamente vero per tutti gli uomini, ma per tutti gli altri oggetti dell'universo, che tra l'altro hanno una psiche molto meno diversificabile tra loro, la luna rimarrà quell'ente che esercita su di loro una certa attrazione gravitazionale ecc. . Cioè alla fine ritengo si possa dar conto della "resistenza" al nostro pensiero da parte della "realtà esterna" senza dovre distinguere tra ciò che è psichico (fondamentalmente fenomenico, cioè il risultato d'un rapporto tra 2 cose) e ciò che è in sé. Seppure fosse tutto fenomenico molti fenomeni sarebbero così condivisi da creare un substrato quasi totalmente obbiettivo della realtà. Come abbiano avuto luogo i primi fenomeni senza una realtà in sé è lo stesso di chiedersi come abbia avuto luogo la prima realtà in sé senza un'altra cosa in sé (ma qui devo anche chiarire che un fenomeno non è, per me, -altrimenti cadrei incontraddizione- vermanete un rapporto tra 2 cose, esso è il modo di apparire della realtà che in un solo colpo/essere mostra diversificazione). In questo senso, senza ammettere l'esistenza di un "evento" (nel modo da te inteso, come un nuomeno) io posso affermare che la psiche di alcuni non rende conto del "vero" (per approssimazione, ma ben inteso). Per esempio potrei criticare un indigeno se quello credesse la Luna essere una divina donna lontana vestita di luce, e affermare la luna essere un ammasso di rocce a qualche chilometro dalla terra, in quanto, appunto, è come una relazione tra atomi che la Luna appare ai più (=> alla maggior parte delle cose esistenti compresi atomi ecc.; ma non perché la luna in sé è un ammasso di rocce). Se Simone stà simpatico a tutti quelli che conosco tranne che a me Simone sarà simpatico, ma non in sé; cioè volendo descriverlo ai più, potrei presentarlo come una persona simpatica con basso margine d'errore (di essere smentito) . Allo stesso modo per descrivere il reale con una certa efficacia potri rifarmi a tassonomie scientifiche, ma attenzione che non in tutti i luoghi e in tutti i tempi le forze dai noi conosciute e gli elementi sono stati sempre così (quel principio secondo cui le leggi fisiche varrebbero in ogni luogo e in ogni tempo è oggi, infatti, messo in discussione da molti fisici teorici soprattutto estronomi -infatti questo principio contrasta anche col realismo dei modelli adottato come base interpretativa dai più-; il ché va a potenziare la mia credenza, in quanto la realtà può anche essere vista dai più in un certo modo, ma non è detto che sia stato sempre così o che sia così in posti lontani se la realtà in sé non c'è). La forza di gravità può risultare per i corpi più prossimi a noi con una certa costante di tot valore, ma poiché essa non è di per sé nulla, né di per sé possiede quel valore, allora posso supporre che in altri tempi e/o luoghi si sia presentata o si presenti diversamente (o anche in luoghi vicini in rari casi, come è raro che un uomo la pensi diversamente da quelli del suo tempo, aggiungento che corpi meno complessi hanno ancor meno possibilità di diversificarsi). Mi dispiace essermi dilungato, spero però di aver reso l'idea della costruzione mentale che ho elaborato in questi ultimi anni, la quale stò cercando di adattare al dibattito circa l'etica, poiché,ad un punto, io posso ammetterne la relatività, dall'altro posso inquadrarne una stabilità per i motivi che ho esposto. Alla fine dei conti vorrei poter dire, come di fatto avevo sostenuto: si può dar conto di posizioni etiche, ed esse sono difendibili razionalmente proprio perché se ne può mostrare la validità grazie ad un confronto con la realtà in sé (=> approssimativamente in sé). Cioè non c'è bisogno, per esempio, di strappare il cuore di alcune vittime sacrificali per far sorgere il Sole, il quale non è un Dio (ma nello stesso senso in cui Simone è simpatico). E questo non è vero perché c'è un "evento noumenico" che tutti poi interpretano (una sfera di fuoco che alcuni vedono come una divinità), ma solo perché la maggior parte delle interpretazioni è di un certo tipo (mi riferisco soprattutto al modo in cui la "materia morta" recepisce altra materia, cioè al modo in cui gli elementi nel sole e nel sistema solare rispondono al Sole) e se qualcuno non si adatta all'altro spesso non si sopravvive. Un giorno probabilmente saremo così potenti da adeguare l'esterno a noi in modo più incisivo di quanto non sia oggi, allora, se ci farà comodo, il nostro sole potrà girare introno a noi. Il mio esempio della sfera e del suo contorno è legato a tutto ciò; nemmeno un oggetto fisico come una sfera sarebbe qualcosa senza l'esterno, esattamente come il nostro Io sarebbe nulla senza il rapporto con l'esterno (e così crediamo di recepire fenomeni che non sono la realtà in sé, ma tutti gli oggetti non sono che fenomeni cioè mai di per sé). |
18-12-2013, 10.51.54 | #164 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Maral:
Ciò che intendo è che ogni essente è sì, come dici, l'essere che in esso si rappresenta, ma ne è appunto quella autentica inesauribile rappresentazione modale che dell'essere dà, altrimenti produciamo una contraddizione per cui l'essere, che è concetto astratto, assorbe e annulla la realtà di tutti gli essenti che in esso pur tuttavia veramente e concretamente sono, in altre parole torniamo all'essere esclusivamente formale di Parmenide in cui gli essenti non hanno più diritto di essere. E allora sì che l'essere equivale al nulla, anzi, preso così, separato dagli essenti che ne mostrano la inesauribile molteplicità, esso è esattamente il nulla. L'essere implica gli essenti poiché li comprende tutti nella loro molteplicità interrelata che sempre lo rappresenta nella sua identica unità, quanto gli essenti implicano l'essere a unico fondamento della propria molteplicità e per questo sia l'essere che gli essenti non sono nulla e non lo sono perché si rimandano simultaneamente e reciprocamente l'uno agli altri. Se isoliamo i due momenti di questo rimando tra essere ed essenti ciascuno in se stesso allora appare la contraddizione del nulla che può essere tolta solo ponendo gli essenti a significare (essere segno per) l'essere così da evitare l'assurdo che sia il nulla a esserne segno. Spezzettare la base comune dopo averla affermata non è quindi semplicemente negarla, ma riaffermarla nella sua integra compiutezza. E' la base comune che necessita del suo spezzettamento per essere la base comune che è e non nulla. Io ritengo che quel modo "nullo" di concepire l'essere non sia davvero da noi avvertito, né quel modo di concepirlo è proprio dell'essere. L'essere è solo le rappresentazioni modali che è anche l'unico modo di pensare alla realtà che abbiamo. Il nulla o la sfera di Parmenide sono delle rappresentazioni modali, non danno veramente conto della indefinitezza o illimitatezza a cui vorrebbero riferirsi (tanto è vero che come concetti li distinguiamo da altri concetti in vista, appunto, della loro conformazione particolare/limitata/delineata/definita). Anche il concetto di assenza non è da meno, poiché se intendiamo qualcosa di indefinito come altro rispetto a ciò che avvertiamo lo stiamo già limitando. Se la modalità non è propria di un ente non si può dire che esso è diverso né uguale a qualcun'altro. Mentre il fatto della differenza modale è certamente da chiarire perché non si può appiattire il reale, cioè non dar conto della diversità, per promuovere l'essere unitario e indefinito. L'unico modo che ho per contrastare questo punto (e cadrei in contraddizione difendendolo anche in vista di quanto espresso poco sopra) è mostrare quel rimando più o meno implicito verso ogni altra realtà che ogni realtà modale effettua. Non so se rischio di cadere nella poesia o nell'intuizione pura ma credo sia come guardare il bianco o il nero del Tao: dentro ognuno dei due colori c'è l'altro, per cui dire di stare guardando solo il bianco o solo il nero risulta falso; nondimeno il nero e il bianco compaiono, ma così fatti sono un'unità. è l'unità che appare riconoscibile (altrimenti non apparirebbe) in sé ma non per questo divisa. Alla fine mi vengono parole molto simili alle tue, Maral; ma a questo punto devo chiederti qualcosa che può aiutarci a definire le nostre "divergenze": se dovessi parlare dell'essere di un ente che si è modificato diresti che non è? Spiegami come attribuisci l'esistenza; forse diresti che quell'oggetto è, ma che non è ciò in cui si è trasformato (se interpreto bene il tuo modo di pensare e quello di Severino), come non è le altre cose per quanto sarà sempre. |
18-12-2013, 23.17.37 | #165 | |
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Citazione:
Severino tuttavia si allontana dalla dialettica hegeliana quando esplicita assumendone fino in fondo le conseguenze che questa modalità specifica dialetticamente contraddicibile per poter venire contraddetta può solo essere una forma astratta (ossia assunta separatamente dalla totalità che esprime) e che affermare il divenire come reale significa prendere questo concetto astratto (la modalità di essere) in modo astratto, ossia separato, come se fosse il tutto. Quando si dice A diventa A1, si dice che qualcosa di A (ad esempio t) riguardante la sua modalità è stata di fatto annientata, ma senza che questo annientamento abbia inciso sulla sostanza reale di A (ossia A=A-t), per dire questo si deve porre separabile t che si è tolto della modalità di essere A dall'essere A per dire che A1 pur essendo diverso da (A-t) è rimasto A. Ma questo anche a non volerlo considerare assurdo è quanto meno arbitrario, è una posizione di fede della dialettica hegeliana che vuole spiegare il divenire in senso dialettico. Se A è proprio quella modalità peculiare di essere A essa non può essere separata da A senza annientare A stesso, senza identificare totalmente A con la sua stessa contraddizione data da A1. Giustamente tu dici le modalità sono nell'essere (e io aggiungo che pertanto l'essere è nelle modalità in cui diversamente si rappresenta), ma proprio per questo esse non possono venire annientate identificandole con modalità diverse che diventerebbero. Per questo penso che A e A1 (ciò che si vuole credere che A sia diventato) non possono essere lo stesso essente, ma 2 enti diversi la cui parziale somiglianza presa separatamente fa ritenere che A sia diventato realmente A1. L'oggetto dunque non è concretamente l'altro oggetto in cui si dice essersi trasformato, ma non perché l'oggetto non è e solo l'essere è, ma proprio perché l'oggetto concreto (l'essente) è sempre quello che è nell' interezza che gli compete. In altre parole l'unità di ogni essente con l'essere è inscindibile e proprio per tale motivo tutte le modalità di essere devono via via apparire (e non essere. perché già da sempre sono). Per inciso il discorso della somiglianza tra enti diversi che illude di un divenire a cui sopra ho accennato l'ho ritrovata nel libro di Julian Barbour http://it.wikipedia.org/wiki/Julian_Barbour "La fine del tempo" in cui è rappresentata matematicamente come best matching di strutture quantistiche. Ovviamente siamo su piani discorsivi assai diversi, eppure è sempre sorprendente come a volte si trovano insospettabili analogie tra prodotti di metodologie di pensiero assai diversi. |
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21-12-2013, 12.37.38 | #166 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Maral:
Per quanto riguarda il discorso sul nulla condotto da Severino, rifacendomi a "la dialettica della struttura originaria" di F. Berto (un libro a mio avviso notevole per comprendere la logica del pensiero di Severino) trovo che formalmente esso si riconduca alla estensione dialettica della logica formale astratta ove il nulla è posto nel suo positivo significare la contraddizione (ossia l'impossibile), distinguendo opportunamente tra pensare nulla che è contraddizione (dunque impossibile) e pensare il nulla che è possibile e necessario affinché si possa pensare non solo l'essere, ma anche ogni essente in quanto modalità completa dell'essere. Severino tuttavia si allontana dalla dialettica hegeliana quando esplicita assumendone fino in fondo le conseguenze che questa modalità specifica dialetticamente contraddicibile per poter venire contraddetta può solo essere una forma astratta (ossia assunta separatamente dalla totalità che esprime) e che affermare il divenire come reale significa prendere questo concetto astratto (la modalità di essere) in modo astratto, ossia separato, come se fosse il tutto. Quando si dice A diventa A1, si dice che qualcosa di A (ad esempio t) riguardante la sua modalità è stata di fatto annientata, ma senza che questo annientamento abbia inciso sulla sostanza reale di A (ossia A=A-t), per dire questo si deve porre separabile t che si è tolto della modalità di essere A dall'essere A per dire che A1 pur essendo diverso da (A-t) è rimasto A. Ma questo anche a non volerlo considerare assurdo è quanto meno arbitrario, è una posizione di fede della dialettica hegeliana che vuole spiegare il divenire in senso dialettico. Se A è proprio quella modalità peculiare di essere A essa non può essere separata da A senza annientare A stesso, senza identificare totalmente A con la sua stessa contraddizione data da A1. Giustamente tu dici le modalità sono nell'essere (e io aggiungo che pertanto l'essere è nelle modalità in cui diversamente si rappresenta), ma proprio per questo esse non possono venire annientate identificandole con modalità diverse che diventerebbero. Per questo penso che A e A1 (ciò che si vuole credere che A sia diventato) non possono essere lo stesso essente, ma 2 enti diversi la cui parziale somiglianza presa separatamente fa ritenere che A sia diventato realmente A1. L'oggetto dunque non è concretamente l'altro oggetto in cui si dice essersi trasformato, ma non perché l'oggetto non è e solo l'essere è, ma proprio perché l'oggetto concreto (l'essente) è sempre quello che è nell' interezza che gli compete. In altre parole l'unità di ogni essente con l'essere è inscindibile e proprio per tale motivo tutte le modalità di essere devono via via apparire (e non essere. perché già da sempre sono). Per inciso il discorso della somiglianza tra enti diversi che illude di un divenire a cui sopra ho accennato l'ho ritrovata nel libro di Julian Barbour http://it.wikipedia.org/wiki/Julian_Barbour "La fine del tempo" in cui è rappresentata matematicamente come best matching di strutture quantistiche. Ovviamente siamo su piani discorsivi assai diversi, eppure è sempre sorprendente come a volte si trovano insospettabili analogie tra prodotti di metodologie di pensiero assai diversi. Non mi stupisce che una lettura del genere sia appoggiata da fisici o altri pensatori; essa è una spiegazione sequenzialista della realtà, e poiché c'è molta difficoltà nello spiegare il senso della persistenza degli oggetti, non sono in pochi a credere che questa persistenza sia di fatto una illusione, che al minimo cambiamento, dunque, ogni oggetto non sia più se stesso. Riguardo al senso del tempo, esso è certamente riconducibile al semplice cambiamento e dunque di per sé inesistente. Ora, poiché su questo punto della persistenza e dell'essere degli enti ci stiamo confrontando da lungo tempo senza però pervenire ad un "accordo", scriverò ancora una piccola critica alla tua posizione aspettandomi però che il discorso si sposti presto su un piano che espliciterò tra poco. Dici che c'è differenza tra pensare "nulla" e pensare "il nulla", ma poiché, per me, una parola per essere utilizzata seriamente deve trovare un riferimento di ciò che denota in noi, la locuzione "il nulla" continua a mancare di senso in quanto assente quel pensare "nulla" che la caratterizzerebbe. Per tutto il resto sarei d'accordo, se non fosse che quella separazione tra A ed At è, per me, tutta arbitraria, essa può venire giustificata in base a parametri contingenti per la comodità dell'uomo, senza trovare un fondamento ontologico reale. Se si potesse dire che una forma A appartiene a qualcuno ci starei a quello che affermi, ma poiché le proprietà come i fenomeni emergono da un rapporto, esse non possono essere additate a qualcuno come non diremmo che il rosso è del fiore, in vista del fatto che i colori emergono dalla relazione tra noi e l'esterno senza appartenere né a noi né all'oggetto esterno. In ogni caso il punto fondamentale che mi interessa gode d'un accordo tra le nostre visioni. Tu dici che ognuno di noi non può non-essere e che è sempre stato come sempre sarà. Questo assunto può in qualche modo influire sull'etica? Secondo Severino, mi pare, e secondo me, si. Poiché, infatti, l'uomo contemporaneo crede di poter cadere nel nulla è spinto a costruire la propria esistenza a vantaggio di ciò che accadrà in un lasso di tempo limitato col quale si identifica. Io vedo in questo punto anche una contraddizione per la giustificazione del capitalismo (o liberismo spietato). Si è sostenuto, infatti, che il capitalista operando per sé sarebbe costretto ad operare per la società in cui è immerso e di cui fa parte; ma questo ragionamento non ha tenuto conto del fatto che il capitalista può innanzitutto spostarsi di luogo in luogo, quindi, per esempio, far crollare l'economia Italiana e poi trasferirsi all'estero senza dunque ricever grosso danno (però se la globalizzazione fosse totale un simile problema non si presenterebbe); ma soprattutto non s'è tenuto conto del fatto che il capitalista può addensare i suoi sforzi per ricever profitto nell'arco di tempo che segna la sua vita, tutto a discapito di un futuro ove sarà, presumibilmente, assente. Quello che non capisco di te e di Severino, però, è come facciate a sconfiggere il nichilismo tramite una simile teoria dell'essere. Se, infatti, io posso dire: "anche se cambierò forma continuerò ad esistere e sarò ciò che è dopo", voi potete solo dire: "la mia forma particolare è immortale". A livello etico perché questo assunto dovrebbe portare conseguenze diverse dal nichilismo? Se mi identifico con questa particolare forma e non con gli altri allora cosa mi dovrebbe muovere a fare il "bene" degli altri e non solo il mio? Cosa mi dovrebbe spingere a portare l'occhio oltre la mia vita se anzi, essa è potenziata in quanto sarà sempre ma nella sua limitazione? Non mi dovrebbe spingere tutto ciò ancora a coltivare il "mio" orto? Il legame che poi istituisci con gli esseri tutti, riguarda non le modalità, che sono ben distinte, ma qualcosa di indefinito che è praticamente un nulla, il ché ancora non mi permette di trovare una reale motivazione per spingermi oltre quel limite della morte. La gente con cui parlo mi dice: "ok, magari c'è un legame tra me e il tutto, ma quando morirò non sentirò più niente, per cui potrò anche essere ancora e quello che ti pare, ma di fatto non ci sarò più". Se l'unico legame col tutto è così astratto e privo di forma, come posso basarmi su di esso per correggere i miei modi di fare? Tutti questi discorsi sembrano implicare una teoria della giustificazione che sia puramente individualista, cioè, pure ammettendo che io continuerò a sentire ed essere cambiando radicalmente forma, se vorrò pensare agli altri e al futuro sarà, fondamentalmente, per pensare a me; tuttavia poiché la mia visione distrugge i concetti di Me e Te (a favore di qualcosa che muta e basta e che non ha antagonisti) non si può più dire che faccio le cose per Me, e forse questo argomento più aiutarmi/ci ad annientare un certo preconcetto verso un tipo di etica "individualista" che sembra fare il bene senza davvero volerlo. |
22-12-2013, 22.19.53 | #167 | |||||
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Comunque passo ora alla tua questione fondamentale. Citazione:
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Ben venga dunque ogni disaccordo, è proprio quello il motivo della nostro reciproco darci esistenza. Ciao e tanti auguri di buone feste. |
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24-12-2013, 13.21.52 | #168 |
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Maral:
Bè direi che è il contrario, La difficoltà sia nella fisica classica che in quella relativistica che in quella quantistica è dare ragione del mutamento (del trascorrere del tempo), non della persistenza, per cui il tempo viene spazializzato o eliminato dalle equazioni (come nella fisica quantistica). L'assunzione di infiniti oggetti non comporta (se non postulando il loro mutamento) che questi oggetti cambino, al contrario, essi persistono in eterno come nei fotogrammi di una pellicola cinematografica ed è proprio questo che intendeva Einstein (che Barbour riprende in larga misura) quando diceva che il tempo è solo l'effetto del fatto che le cose non possono apparire tutte insieme in una volta sola. Io so che almeno in metafisica analitica il problema della persistenza degli oggetti è assai dibattuto; in ogni caso la spiegazione del porsi del tempo è per me esattamente quella che attribuisci ad Eistein. Poiché, infatti, ogni ente ha bisogno di limitarsi con l'altro, e poiché il tutto non ha possibilità di limitarsi nello "spazio" con altro da sé, esso allora deve auto-differenziarsi nel "tempo"; il ché è lo stesso di dire che non potendo apparire tutto insieme (a causa dell'impossibilità dell'apparire senza l'altro) esso appare nel tempo. Maral: [IPer Severino il nulla è la contraddizione, ossia l'impossibile che essa esprime. A=non-A è il nulla. Esso esprime l'impossibile, ma tuttavia l'impossibile (la contraddizione) è pensabile.][/i] Inizio a comprendere questo ragionamento, il "nulla" potrebbe venire simboleggiato da una locuzione che denoti semplicemente una contraddizione; tutto sommato ci può stare. Maral: Il punto essenziale da capire è che "io" è una forma del pensiero astratto (è un concetto che lega una molteplicità di essenti eterni in virtù della loro somiglianza: l'Aggressor di ieri, di oggi e di domani sono un io in quanto hanno in comune una parte, ma ognuno di essi è pur tuttavia diverso, quindi concretamente non sono lo stesso essente, ma tre essenti diversi e immutabili, come immutabile è l'io da essi astratto che li accomuna). Assumere però che questo io sia forma in se stessa concretamente esistente, staccata dagli essenti da cui è stato astratto, è per Severino pensare in modo astratto dell'astratto, ossia è pensare il falso. Dunque il capitalista che giustificasse il proprio egoistico agire sulla base del proprio io tenuto separato come un esistente in sé agirebbe in modo contraddittorio, quindi falso. Non solo, ma a fondamento del pensiero di Severino ci sta, come per Hegel, quel principio fondamentale dell'olismo semantico per il quale a è espresso dalla totalità del non a , la totalità dei suoi altri, dunque fare il mio vantaggio a danno degli altri significa contraddirmi in senso ontologico, perché significa voler togliere di mezzo quegli altri che come negati stanno alla radice di ciò che io sono. In tal modo credendo di affermare me stesso a scapito degli altri nego in realtà me stesso a scapito di me stesso, come una pianta estirpata. Forse ciò che non mi è del tutto chiaro di questo discorso, che trovo, in realtà, molto affine a ciò che credo, è lo spostamento dal punto di vista del linguaggio comune e/o logico a quello ontologico. Cioè prima parli della separazione degli enti, poi affermi l'impossibilità ontologica di questa separazione. Anche io direi che il linguaggio comune e logico separano, senza tuttavia che una simile separazione sia ontologicamente "vera". Il passaggio all'astrazione dell'astrazione credo sia fondamentale per comprendere il discorso di Severino (ma non riesco ad afferrarlo appieno, ora), tuttavia non vedo la necessità di parlare come se le cose fossero separate credendo il contrario. Ciò a cui mi piacerebbe arrivare, invece, è proprio un adeguamento del linguaggio logico e, magari, "ordinario", nei confronti dell'assunto ontologico; perché è dalla revisione concettuale che la matematica e la logica traggono maggiore profitto sul piano tecnico (ma sembra che tu, in qualche senso, giustifichi la divisione e quindi il linguaggio logico per ciò che ora è). Ciò che scrivi riguardo al capitalista è ciò a cui mi piacerebbe arrivare: se non ha senso separare l'Io da quello degli altri, non ha senso nemmeno coltivare il proprio orto a discapito degli altri; cioè una simile affermazione sarebbe contraddittoria. Ma perché a livello semantico dovremmo farlo? Maral: Il legame non è un nulla, ma il principio di non contraddizione inteso nel senso dell'olismo semantico: nell'essere io il non altro (io=non-non-io), io sono legato a tutti gli altri e tutti gli altri sono eternamente legati a me. la morte è l'apparire fenomenologico di questo legame logico (è l'apparire della necessità incontrovertibile del logos), è l'apparire dell'intero di ogni essente per come è nel suo eterno riconoscersi negli altri. Proprio per questo morire non significa non essere più se stessi (dunque diventare qualcos'altro che è contraddizione), ma essere pienamente se stessi ed essere pienamente se stessi in questo senso è ben diverso dall'immagine di noi stessi che ci dà l'isolamento dell'io astratto in cui ora viviamo secondo il modo comune che abbiamo di intendere le cose. Non si tratta dunque di correggere i tuoi modi di fare, ma di comprendere il loro significato alla luce del principio di non contraddizione che è il principio della tua stessa identità diversa, ma mai separabile dagli altri. La difficoltà sta, direbbe Hegel, nel superare la visione astratta del puro intelletto che pone l'io e l'altro solo come opposti separati e quindi in perenne lotta per sfuggire l'annientamento che reciprocamente si danno per sopravvivere l'uno a scapito dell'altro. Superarla significa riconoscere che l'io e l'altro sono sì opposti, ma proprio in quanto opposti essi si implicano necessariamente, ossia sono tra loro indissolubilmente legati. Io e il mondo degli altri siamo quindi sempre insieme e non è la comune somiglianza a legarci, quanto proprio la nostra differenza. Ben venga dunque ogni disaccordo, è proprio quello il motivo della nostro reciproco darci esistenza. Io credo di aver capito, fondamentalmente, come pensi l'unità della diversità. E tuttavia sento che questo modo di recepire l'uno sia ancora troppo legato alla separazione semantico/linguistica (ovviamente relativamente alla mia posizione). Cioè dalle tue parole sembra si possa davvero definire un Io, una particolarità, in antitesi rispetto al resto delle cose, sebbene, ad un punto, sembra che tutto ciò debba sfumare. Invece ti sfiderei a definire il "tuo corpo", a mostrarmi questa divisione tra gli enti che sia astratta o meno; cioè se sei disposto a giustificare la delimitazione delle cose, mettiamo pure su un piano puramente linguistico o logico o astratto, dovresti riuscire a pormi una simile costruzione senza poter essere contraddetto dalle stesse parole o dalla stessa astrazione in cui ti muovi. Ma ti credi capace di mostrare ciò che sei in antitesi rispetto ciò che non sei senza lasciare un vuoto di approssimazione che riveli l'errore? Quello che voglio dire è che non dai, secondo me, il giusto valore a quell'assunto dell'essere-col-l'altro, cioè, nella pratica, dividendo e distinguendo le modalità e le diversità finisci per dividere l'essere in vari enti. Con Hegel trovi l'unità nella diversità degli esseri, mentre io trovo l'unità nella diversità e basta (cioè non faccio quel passaggio di additare la diversità a diversi esseri, ma la lascio "di per sé"). Un essere solo non può che apparire "variegato" come qualsiasi fenomeno unitario (come una percezione qualsiasi), ma quel modo variegato di porsi dell'ente non lo divide in vari enti; la percezione unitaria non si divide per il modo variegato in cui solo può manifestarsi (e dividerla col ragionamento, con l'astrazione, porta con sé quell'errore che si omette nell'approssimazione). Ma tornando a questo: ti credi capace di mostrare ciò che sei in antitesi rispetto ciò che non sei senza lasciare un vuoto di approssimazione che riveli l'errore? Perché sforzarsi di dividere l'essere di questo o quell'oggetto (il ché è assurdo già a livello fisico a causa, per esempio, del continuum creato dall'energia del vuoto, che rende la divisione impossibile già a livello spaziale prima che il problema si ponga a livello temporale, la qual cosa genera, poi, in te e in Severino, l'avanzamento d'una proposta sequenzialista -quella dei "fotogrammi"-), quando si può descrivere il mondo come una serie "istanze" senza dover parlare della persistenza dell'essere di queste istanze (o tropi, o modalità). Dire che una cosa è diversa vuol dire che non-è la stessa cosa o che, appunto, è diversamente se stessa? Ma soprattutto si può parlare di "questa cosa" in totale separazione dalle altre cose? Tipo A=A? Se tutto ciò non è possibile, non dico di pensare l'essere come qualcosa di sempre uguale o indistinto, ma non pensare che la diversità sia indice di separazione dell'essere. La diversità è per me l'apparire fenomenologico dell'essere, non la divisione di esso. Ti auguro davvero buone feste Ciao! Ultima modifica di Aggressor : 25-12-2013 alle ore 09.45.12. |
25-12-2013, 21.24.44 | #169 | ||||
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
Con questa premessa che ritengo indispensabile per chiarirci passo a considerare la parte finale della tua riflessione che mi sembra riassuma le tue perplessità. Citazione:
Il mio corpo pertanto in senso fenomenologico è definito dal non essere la sedia su cui sono seduto, non questo tavolo, non questo computer e via dicendo e questo è F immediato. Solo non essendo queste cose esso è proprio e solo il mio corpo e sarà completamente definito come tale solo quando avrò preso coscienza di tutte le cose che non è e che pur tuttavia si trovano in esso come negate nella loro specificità fenomenica. L' L-immediato dice solo che il mio corpo, come qualsiasi cosa che è l'identico a se stesso, è cioè il non altro da sé senza alcun bisogno di specificare cosa sia questo altro, poiché dal punto di vista logico questo altro è solo il niente (ossia la pura indifferente contraddizione dell'essere). Il processo dell'F-immediato che presuppone una molteplicità infinita di enti presenta sempre un margine di errore, la precisione che richiederebbe è fenomenologicamente irraggiungibile, per contro il PNC che è L immediato di per sé non è in grado di giustificare il continuo diverso apparire fenomenologico dandogli effettivo contenuto. Insieme ribadiscono e ripropongono la contraddizione che li lega ed è proprio il tentativo di toglierla che spinge avanti il processo in un sempre diverso infinito apparire, perché lo stesso suo toglimento determina il suo ripresentarsi. Citazione:
Citazione:
Se prendi solo il primo in realtà subordini il fenomenologico al logico sperando di togliere così l'errore, ma svuotando l'essere degli essenti riduci di fatto l'essere stesso a nulla che non si capisce per quale motivo dovrebbe apparire variegato. Rinnovo i miei saluti e i miei auguri |
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28-12-2013, 14.16.15 | #170 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Il tuo discorso, Maral, presume che certe proprietà possano essere ascritte a qualcuno in particolare; ma come accomodare una simile credenza a questo: che, per esempio, il rosso del fiore appartiene più alla sintesi del rapporto tra me e il fiore che al fiore? E così pure la velocità d'un sasso è il risultato d'un rapporto tra il sasso e un contesto più che qualcosa di implicito nel sasso, ecc..
La diversità potrebbe dirsi tale (per come la concepisci) se fosse possibile ascrivere questa o quella caratteristica a qualcuno in particolare; così quando parlo dell'essere-con-l'altro implicitamente cerco di sottolineare il fatto che ogni proprietà è emergenza da un contesto, cioè il risultato d'una "relazione tra enti" (ma in realtà, per me, "l'apparire variegato dell'ente"; altrimenti mi contraddirei affermando che esistono primariamente degli enti secondariamente confluenti entro delle relazioni), e non esplicitazione d'un ente in sé. Il motivo per cui dico che l'essere, per quanto unico, deve mostrarsi variegato (e uso questa parola quasi come una provocazione linguistica, poiché in essa si ravvisa di meno un non detto che implica separazione, come invece accade dicendo che l'essere si mostra diverso, per cui mi chiedo se non siano soprattutto certe parole sedimentate a farci cogliere determinate istanze) è che altrimenti esso non potrebbe affatto apparire, cioè pure presentificarsi, diventando un nulla che niente ha da mostrare. Come parlare della realtà omettendo la separazione e mantenendo la diversità? Semplicemente si potrebbe negare che <<questo è diverso da quello>> sia sostituibile con <<questo non è quello>>. Poiché sembra che tramite l'astrazione consideriamo gli oggetti al di fuori dei rispettivi contesti, può sembrare pure che l'approssimante linguaggio comune (inappropriato all'essere -si dice-) debba adeguasi alla sua condizione e considerare davvero ciò di cui parla come entità distinte. Invece quando astraiamo un oggetto dal suo contesto specifico noi lo sostituiamo (il contesto) con un'altro, per cui continuiamo a considerare l'oggetto nel legame con l'alterità, e di questo dobbiamo rendere conto. |