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03-09-2013, 23.36.57 | #33 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
Non so (non ho mai incontrato un testo che lo spiegasse) cosa Severino intenda con "cosa". Suppongo che sia equivalente di essente, ma allora siamo daccapo perché bisogna vedere che cosa è l'essente. Se io per caso sono un essente e il libro che ho davanti anche allora Severino parla di qualcosa che (a rigore e filosoficamente parlando) non esiste, e alla luce di ciò anche l'eternità degli enti mi appare una insensatezza. |
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03-09-2013, 23.47.54 | #34 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Sgiombo
Severino non indica un "arrivo", ma indica nel nostro tempo (un "nostro tempo" nel senso filosofico) il tempo in cui la volontà di potenza ha ormai travolto qualsiasi "limite" (morale ma anche fisico, aggiunge Severino). E ci indica, soprattutto, che questo non è un qualcosa di momentaneo (quelli che Aristotele chiamava "accidenti"), ma è un qualcosa che avviene necessariamente, cioè ineludibilmente. Egli individua nella filosofia greca (di Platone, e poi di Aristotele) il "momentum" iniziale di questo processo di cui noi, oggi, vediamo la maturità (o crediamo di vederla). Questa quella che "per me" è la grandezza di Severino, il quale esprime i suoi concetti con grande rigore logico. Il fatto poi che proponga una "cura" ai mali del mondo è di gran lunga più discutibile (ti rimando alle mie risposte a Maral). E' vero che il nichilismo è presente in ogni tempo e in ogni società. Questo è, sempre "per me", facilmente dimostrabile, visto che esso si origina dalla volontà di potenza (che è presente NELL'uomo in quanto uomo, dunque la cui presenza è necessaria). E' vero però che in alcune società (evidentemente in numero sempre più esiguo, visto che la cultura occidentale ha ormai invaso il mondo) l'inflessibile non è stato ancora flesso, per usare la terminologia di Severino, e la trasgressione viene duramente perseguita (nei modi più vari, non solo dal punto di vista giuridico). In genere, si osserva in queste società una forte religiosità, unita ad un forte sentimento di appartenenza ad una "comunità": in genere uno scarso senso dell'individualità. In queste società, direbbe Severino, l'Inflessibile non si è ancora frantumato; non è ancora stato "squartato" (pensa al Gilgamesh mesopotamico o a Gesù che muore sulla croce - la qual cosa inorridisce gli arabi), e il sentimento che, per quanto riguarda l'occidente, è stato originato dal neoplatonismo (l'emanazione da Dio) è il sentimento dominante. Non che, con questo, io pensi che i rapporti di produzione (per dirla con Marx); che la materialità; non giochi un ruolo determinante, per così dire. Sarebbe altresì molto interessante se vi fosse una sufficiente letteratura sull'argomento del rapporto fra la struttura materiale e la sovrastruttura ideologica; ma, al momento, mi sembra che il dibattito, soprattutto in Italia, sia ad un livello miserevole (ti posso segnalare Mario Liverani, in chiave storiografica). Mi sembra di essere ancora ai tempi di Beppone e di Don Camillo, cioè ai tempi di una letteratura che non ha ancora capito il rapporto di reciprocità che lega la struttura materiale e quella ideologica, e che continua ad offrirci letture che individuano, filosoficamente, il "conflitto" nella contrapposizione fra le due strutture (mentre è da ben altra parte; ma "è", in barba a quelli che dicono che non c'è più). Ma è proprio perchè gli essenti "diventano" (ad esempio sfruttati, o sfruttatori) che si crea questo "conflitto"; un conflitto che è politico, sociale, economico; ma che è anche con se stessi, con la propria condizione di finitezza che non si rassegna a "ciò che è". Filosoficamente, potremmo dire che il "conflitto" si origina, necessariamente, dalla separazione originaria dell'essente dal suo essere sè stesso: l'essente diventa altro-da-sè, ecco quindi, ancora, il "divenire" (pur se declinato in maniera diversa da Severino) come origine dell'alienazione (ecco, a mio modesto avviso, un esempio di interazione fra la struttura materiale e la sovrastruttura ideologica) ciao |
04-09-2013, 00.30.55 | #35 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Donquixote
E' appunto perchè ogni concetto deve trovare un riscontro nella realtà che propongo di chiamare Morte il Nulla. Sul Nulla mi sembra chiaro che non è definibile se non negativamente (come ciò che non è). Certo, a rigor di logica non si può nemmeno pensare (figuriamoci definire), visto che un pensiero è pur sempre un essente. Senonchè, dice Severino, il Nulla è entificato necessariamente nella prospettiva del divenire, e visto che questo è un palese errore logico (come Severino dimostra), ecco la mia proposta di "trasferirci" ad un piano esistenziale: quello della morte (che la Terra Isolata chiama, erroneamente, "Nulla"). E allora, piuttosto che dire che un essente proviene e ritorna nel Nulla, proviamo a dire che una persona nasce e poi muore, e vediamone le conseguenze. Il concetto principale che cercavo di mettere in evidenza nella frase cui tu hai risposto è questo: può l'Essere situarsi nel tempo? Se io dico che Luigi è Luigi, lo dico anche dopo che è morto? Qui Severino mi dà una risposta incommensurabilmente consolatoria: Luigi, come chiunque altro, è un essente eterno, quindi è stato, è e sarà per sempre (nella mia prospettiva, in quanto per Severino è e basta). Lodevole, ma mi è necessaria la stessa Fede che postula l'immortalità dell'anima per esserne convinto. ciao |
04-09-2013, 01.11.30 | #36 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
(Bentrovato 0xdeadbeef)
Il pensiero di Severino, come esprime sinteticamente e ritengo giustamente Maral , deve comunque essere metaforicamente pensato come una regola sintattica basata sul principio d'identità e del principio di non contraddizione su cui si muove la semantica degli essenti eterni. Severino è molto attento a non uscire da questo "tessuto" logico ,tanto da utilizzare termini non contraddittori fra il divenire e gli eterni. Il famoso "cerchio delle essenti eterni dell'apparire " è una bellissima invenzione logica per non cadere in contraddizione fra divenire ed eterni. Gli essenti appaiono dalla cerchia degli eterni dal "nascondimento" per poi ritornare alla cerchia "sottraendosi" . Quale astuzia! Significa che la nascita , morte, vita, ieri , oggi, domani, sogni, speranze ,ecc sono tutti quì ora,adesso in questo attimo eterno senza tempo . Severino con il movimento di chiamare gli essenti ad apparire e poi il sottrarsi non fa altro che camuffare il divenire cercando di giocare sulla semantica mantenendo la ferrea sintassi della regola identitaria e di nno contraddizione. Una domanda è : ma cosa cambia nella sostanza essere negli eterni ed essere nel divenire? Quali sono i significati dei primitivi e i predicati che vengono declinati? Il primo e fondamentale è che la verità non è la ricerca nel divenire , nell"altrui" , nell"altro" da noi , ma siamo già noi verità. Se noi siamo eterni e verità questo è il Paradiso . In quella cerchia degli essenti vi sono tutti gli attimi eterni di tutto e tutti (un sovraffollamento mostruoso). La successione temporale potrebbe essere interpretata essendo negli eterni come uno scorrere dei fotogrammi cinematografici delle vecchie pellicole analogiche o come si disegnavano i cartoni animati facendo scorrere velocemente i foglietti sovrapposti . Adatto che si potrebbe obiettare a questa teoria una casualità, allora interviene la necessità in modo tale che le sequenze degli apparire di quegli eterni sia logica costruzione di un apparente divenire , ma che in realtà sono appunto la necessaria apparizione della chiamata dalla cerchia degli essenti Significa, ad esempio, che t1, t2, t3 come sequenze temporali di un divenire di un fenomeno,di un evento, se fossero casuali essendo tutto eterno potrebbero apparire invece come ad esempio t2, t3, t1. Cioè un vecchio giovane, un morto nato, ecc.. Ma la necessità dell'apparire fa sì che gli essenti seguano la sequenza così da sembrare un divenire. Un'altra domanda è il significato dell'esistenza se già tutto è ora nell'eterno. Quali sono le predicazioni di volontà, libertà, di un sistema di valori in un tempo eterno? Perchè l'uomo se è verità ed eterno ed è in paradiso ha scelto la strada del divenire? Una risposta potrebbe essere...non ce ne siamo accorti di essere eterni e già in paradiso. Perchè dagli essenti eterni si storicizza pur essendo negli eterni una progressione storica fino alla gioia e a noi siamo tutti dii? Se il sistema dell'eternità è eterno e non nasce ,non viene dal nulla allora Dio se è eterno , quale è la differenza fra i due sistemi ? Infine che importanza ha se io non mi sento eterno e patisco nella vita? ma quale senso ha questo Paradiso di eterni e verità ma che si comporta in divenire di fatto? Personalmente ritengo questa teoria molto forte ontologicamente , con molte perplessità epistemologicamente e fenomenologicamente e francamente senza senso gnoseologicamente . |
04-09-2013, 05.36.31 | #37 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
È ovvio che qui entra in questione la distinzione fra l'essere e il divenire, che io vedo in questo modo: l'essere, in sé, è immutabile, eterno e necessario, ed è ovviamente il principio (origine) di ogni ente. Gli enti sono le essenze (o se vuoi le "anime") degli essenti, ovvero la parte statica, immutabile, metafisica di quelli che io considero esseri-visti-nel-loro-costante-e-ininterrotto-divenire, e quindi gli essenti sono la versione "storica" degli enti. Prendendo sempre ad esempio Luigi, l"ente" Luigi è ciò che lui è, che è stato, che sarà, ma anche tutto ciò che non è stato e che non è potuto o voluto essere perché una serie di contingenze dovute alla cultura, all'ambiente e al periodo in cui è vissuto non glielo hanno permesso. in pratica l'ente Luigi è la somma di tutte le sue possibilità, espresse o inespresse, e quindi in una parola la sua "potenza", e anche il suo principio poichè tutto proviene da lí. L'essente Luigi è invece l'espressione storica, l'attualizzazione, delle limitate possibilità (potenza) che l'ente Luigi nel suo divenire in questo mondo, costretto da una serie di inevitabili limitazioni, ha avuto occasione di manifestare. Quindi, da questo punto di vista, si può dire che ad un certo punto della storia muore l'essente Luigi, ma non l'ente Luigi che non essendo sottoposto al processo del divenire rimane integro e immutabile in tutte le sue possibilità. Ma anche qui si pone allora il problema di postulare l'immortalità dell'anima: ci arrivo. Vediamo un attimo, prima, che cosa è la morte: tu vorresti assimilarla al nulla, ma a mio avviso è una forzatura poiché la morte come noi la consideriamo è rigorosamente una "trasformazione" e quindi se vi è ad un certo momento della vita una "cesura" fra ente Luigi ed essente Luigi determinata dalla morte fisica di Luigi, da un lato Luigi "ente" rimane immutato e come dire "in sospeso", mentre dall'altro quel che rimane di Luigi "essente" non subisce una annichilazione ma continua a trasformarsi ininterrottamente decomponendosi e diventando magari energia per altri "essenti". Se rimaniamo al nulla come lo abbiamo inteso prima qui non ve n'è traccia, al di là del fatto che ci viene in soccorso anche il principio (della termodinamica?) che afferma che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. Torniamo all'ente Luigi: che fine fa quando si "separa" dal suo essente? Semplicemente ritorna da dove è venuto, all'essere, che è poi il concetto che teologicamente si esprime dicendo che "l'anima è tornata in cielo", poiché l'essere è in definitiva la possibilità universale infinita, che si manifesta costantemente, e parzialmente, attraverso le possibilità manifestate da tutti gli essenti. E allora dove sta l'inghippo? Se tutti gli enti ritornano all'essere e ogni ente è assimilabile all'anima allora l'essere è pieno di anime che sono immortali e quindi si possono tranquillamente "reincarnare" in un altro essente. Qui secondo me cade Severino, che considera eterni tutti gli enti. Severino ritiene, come del resto la stragrande maggioranza dei pensatori di ogni luogo e tempo, che gli enti esistano di per sé, e quindi ognuno è principio di se stesso e in quanto tale eterno, ma questa é una illusione, dovuta ancora al modo umano di conoscere separando le cose per poi potersele rappresentare in maniera più definita una-cosa-alla-volta. Non esiste, effettivamente, alcun ente indipendente, poichè se giá l'essente è dipendente da tutto ciò che gli sta intorno per poter vivere e senza il quale non potrebbe farlo, l'ente (principio dell'essente) é dipendente dall'essere, che ne é il principio e al quale è costantemente collegato. Di solito uso l'esempio del sole per chiarire, che mi sembra adatto: il sole è l'essere, e tutti gli indefiniti raggi del sole sono gli enti, che consentono ad esempio agli essenti terrestri di poter vivere, e senza i quali non potrebbero. Ma i raggi del sole non sono effettivamente tali, lo sono solo in virtù di una arbitraria separazione della ragione umana che li ha voluti definire così. Io se guardo il sole lo vedo tutto, non solo un raggio, o diversi raggi, così come qualsiasi essere della terra vede il sole completamente, come se fosse "tutto solo per lui". Così noi possiamo parlare per comoditá di "anima individuale" o di ente, o di essenza, che è il nostro principio, ma di fatto questa definizione è una arbitrarietá poichè la nostra essenza effettiva è tutto l'essere e non solo un raggio, che senza il sole non potrebbe ovviamente esistere. Così quindi l'ente Luigi torna teoricamente all'essere quando l'essente Luigi muore, ma di fatto rimane dov'è perchè non è mai andato da nessuna parte (come i raggi del sole non si muovono ma rimangono sempre "attaccati" al sole) e quindi è insensato, se non inteso in senso metaforico, dire che l'anima "scende dal cielo" quando nasce un bambino, perchè per un verso noi siamo giá nel cielo, mentre per l'altro il "cielo" é in noi. L'essere è quindi uno, solo, infinito e immutabile, e il divenire è l'entificazione dell'essere, l'anima mundi, la sua potenza creativa che, agendo senza agire come il Tao, manifesta l'essente (che poi l'uomo arbitrariamente e per propria comoditá separa in "essenti"), così come il sole che, senza fare niente ma semplicemente essendo se stesso, "porta alla luce" tutte le cose. Ad essere eterno è quindi solo l'essere, che come nell'esempio del sole è attivo per intero in ogni ente (non si può in questo caso non citare S.Paolo quando afferma che "Dio è tutto in tutti"), e gli enti o le anime dei vari essenti, o esseri manifestati, che transitano nel mondo del divenire sono i "raggi" dell'essere (atman), che consentono ad ogni essente di manifestarsi e di essere quello che è. Un'ultima cosa. Non sono affatto d'accordo con la definizione aristotelica di Dio (o dell'essere) come "atto puro", peraltro condivisa da fior di pensatori, per due ragioni. La prima è che se lo si definisce in questo modo gli si oppone la potenza, che deve essere "altra da sé", e quindi si contraddice il concetto di essere come ciò da cui nulla è escluso, e la seconda è che se si esclude la potenza dal concetto di essere non si può rendere ragione del divenire, che appunto abbisogna di potenza per manifestarsi come divenire, per dare vita, attraverso l'ente creatore, all'essente. Tutte le possibilitá rimarrebbero quindi inespresse, e il concetto di Dio o di essere verrebbe svuotato di ogni funzione e perderebbe tutto il senso. L'essere è quindi solo e semplicemente l'essere, nel quale potenza e atto coincidono e sublimano. |
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04-09-2013, 10.02.34 | #38 | ||
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
difficile concepire una relazione laddove la trasformazione venga di fatto negata! In cosa consisterebbe allora tale relazione? E’ il tempo che attraverso la comunicazione consente la trasformazione (o letta viceversa: la trasformazione è comunicazione è tempo). La relazione è fondamentalmente (siamo qui in campo metafisico) assenza di identità o letta viceversa, l’identità è la relazione stessa. Ma se la relazione è il tempo l’identità dell’essere (l’essere stesso) è la relazione. La relazione fra gli enti è l’essere, gli enti non sono che momenti* dell’essere. Ma se il –concetto- di tempo coincide con lo spazio, l’essere è potenza. L’essere in sé e per sé, al di “fuori” ed al di “dentro” dello spazio-tempo la cui identità è la relazione, è potenza. Non quindi eternità né caducità o finitezza. Il “velo”, a mio avviso, è credere che l’identità (dell’ente quindi dell’essere) sia altro dalla relazione. Ovvero (il “velo” è) l’intendere ciò che appare -i momenti separati- come reale -come identitari (=possedenti una distinta e definita identità). Il mio discorso è riferito ad un’analisi metafisica non psicologica del soggetto come individuo nella sua singolare e inderogabile dignità distinta e irreplicabile. Questa distinzione nell’analisi è fondamentale per non giungere a negare l’individuo in favore dell’essere od asserire l’individuo in vece dell’essere, negando in tale modo l’uno e l’altro, visto che l’uno è in virtù dell’altro. La sostanza –sub-stantia- cui accenna Jeangene è allora in questa analisi una non sostanza: la potenza, che si realizza nello spazio-tempo come rapporto. In tal caso parlare di eternità degli enti o dell’essere non ha senso, essendo l’essere la potenza che definisce e realizza il tempo stesso. Possiamo parlare di una potenza attraverso cui ogni cosa appare come identità definita ed al contempo è ogni altra possibile, una potenza attraverso cui ogni cosa appare ciò che fondamentalmente non è. Il senso che individua e distingue l’eternità, il tempo, lo spazio, i caratteri, non è che il senso di quella potenza che è questa. Allora il “disvelare” (anche nelle parole di Oxdeadbeef) e la Gloria, altro non consistono che in questa coscienza che si rivela alla nostra indagine. Citazione:
Condivido completamente questa riflessione -tranne l’ultima “sull’impossibilità di una fondazione razionale delle cose”. E’ vero anche secondo me che il “velo” non sta esattamente nel fuori ma nella lettura soggettiva che ne traiamo e che questa non può che essere –seppure in tal modo filtrante- anche l’unica possibile poiché imprescindibile. Ma la coscienza del velo ne abbatte ogni potere oscurante, così che nella coscienza del velo possiamo conoscere le cose per come realmente sono. La fondazione razionale delle cose, a mio avviso, consiste nella coscienza che il caos è in relazione al pensiero dell’ordine e viceversa. Il caos non può essere senza ordine e viceversa. Ma non sono reali in sé, significando la tipologia di rapporto e la sua assenza. Nella tipologia del rapporto il caos non risulta comprensibile. Nella tipologia dell’assenza di rapporto l’ordine non risulta comprensibile (anche se fondamentalmente tradisce la credenza sottostante di una qualsivoglia relazione). Ogni “singola volontà ha ragione” nel senso che ogni singola volontà si muove entro un determinato ordine, quella sua volontà (conscia o inconscia) medesima. Nella coscienza e nella conoscenza dei differenti ordini interiori o volontà differenti consiste, a mio avviso, la base razionale delle cose. Tanto più quando scavando nella conoscenza reciproca (e pure delle cose) giungiamo a comprendere che le dinamiche profonde che muovono le differenti volontà non rappresentano che la medesima volontà di benessere seppure colta per gradi ed in contesti differenti. * Non mi piace "momento" ma non mi viene di meglio |
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04-09-2013, 14.14.07 | #39 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Citazione:
Si, ho parlato di sostanza perchè mi sembrava il termine più adatto, ma con sostanza non intendo qualcosa necessariamente "materiale", "palpabile", perciò potrebbe essere anche questa potenza di cui parli. Ultima modifica di jeangene : 04-09-2013 alle ore 16.01.00. |
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04-09-2013, 22.40.51 | #40 | |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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Per meglio chiarire occorre rifarsi alla "Struttura originaria" che è il punto di partenza della filosofia di S. fondata sulla verità incontrovertibile del principio di identità. La struttura originaria è costituita dall'immediatezza dell'esperienza che include l'immediatezza dell'apparire dei dati fenomenologici (F-immediatezza) insieme alla immediatezza dei nessi logici che legano i dati fenomenologici dando loro un significato coerentemente espresso dal principio di non contraddizione (L-immediatezza). L'immediatezza prodotta da questi due fattori è l'intero identitario, ossia la cosa nella interezza del suo esserci e insieme significare. In questo ambito strutturale originario il divenire non può essere un mutare dell'essente, ma un mutare dell'apparire dell'essente la cui causa è data dalla contraddizione C. Ciò che Severino chiama nella Struttura Originaria contraddizione C non è la normale contraddizione superabile a mezzo dialettico per rimozione dell'opposizione tra i contenuti attraverso una sintesi che supera da subito l'isolamento reciproco dei termini tra loro antitetici (antitetici proprio in quanto mantenuti astrattamente separati: o l'uno o l'altro, ossia non considerati in quell'interezza che li implica reciprocamente), ma è invece quella contraddizione che nasce dal fatto che quanto attualmente appare a livello fenomenico non è quel Tutto implicato per via relazionale dal Logos solamente alla luce del quale la cosa può compiutamente (ossia concretamente) apparire per ciò che è. E' la contraddizione C che spinge al continuo sopraggiungere degli eterni essenti: per essa il Tutto tende all'infinito ad apparire. Nella struttura originaria il Tutto concreto dell'essere ha necessità di apparire come tale, ma questa apparizione fenomenicamente è impossibile per cui la struttura originaria resta isolata da quel Tutto che le compete, resta come Terra Isolata, resta un'astrazione. Proprio questa separazione dà però luogo al dispiegarsi infinito del Tutto attraverso il continuo sopraggiungere degli eterni essenti, necessario per superare la contraddizione C, superamento che però non finisce mai ed è proprio lo spettacolo di questo eterno sopraggiungere degli eterni (dolore compreso in quanto anch'esso essente) che costituisce la Gloria la quale essendo inesauribile toglimento della contraddizione è Gioia. In questo senso vedevo nel pensiero di Severino la fusione tra l'eternità parmenidea che si incarna nell'essere di ogni essente (e non in un Essere astratto svuotato del suo contenuto) con l'eterno mai concluso fluire eracliteo in cui la contraddizione del sempre diverso apparire (e non di un diverso essere) è sempre ribadita dalla stessa necessità del suo toglimento. La premessa che Severino assume è l'identità incontrovertibile di ogni essente con se stesso, ma il se stesso integro di quell'essente può essere solo in quel Tutto relazionale concreto (ossia che nulla lascia fuori di se stesso) che fenomenologicamente resta irraggiungibile, sia pure sempre alluso nella sua assoluta necessità. http://www.youtube.com/watch?v=ai54XnSiIt4 Purtroppo non conosco abbastanza il pensiero di Levinas per tracciare un confronto. Vedrò di approfondirlo Ultima modifica di maral : 05-09-2013 alle ore 09.58.49. |
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