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30-11-2013, 15.27.18 | #135 | |
prof
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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30-11-2013, 22.34.11 | #136 |
Ospite abituale
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
@ Maral
Penso, appunto, che quella persona (quella che disse: "il giorno che muoio io finisce il mondo") non avesse tutti i torti. Non li aveva proprio perchè, come giustamente dici: "l'io e l'oggetto sono aspetti parziali del medesimo intero". Però, dicevo, sappiamo bene che così non è; che vi è un "altro" rispetto all'"io" (che il mondo non finisce con la morte di un suo interprete). In sostanza quello che io sostengo è semplicemente questo: questo "altro" non è conoscibile nel suo proprio modo d'essere, appunto perchè si può conoscere solo l'intero (cioè il prodotto dell'interpretazione che l'"io" dà di questo "altro"). Eppure questo "altro" esiste indipendentemente dall'"io" che, necessariamente, lo interpreta. Levinas interpreta in termini esistenziali questo rapporto fra l'"io" e l'"altro". L'angoscia, secondo lui, è causata dalla condizione in cui l'"io" si trova davanti all'"assolutamente-altro". Levinas individua questo "assolutamente-altro" proprio nella morte, cioè nel momento in cui l'"io" non è più interprete di nulla. La morte è, dunque, l'assoluta im-potenza; l'assoluta presa di coscienza della propria finitezza. L'angoscia, potremmo dire riferendoci al nostro aneddoto, è la consapevolezza che il mondo continuerà anche senza la nostra interpretazione di esso. E' la consapevolezza che il giorno che muoio io, muoio io e basta. Certamente non dobbiamo pensare, come Cartesio, che la "res cogitans" sia qualitativamente superiore alla "res extensa". D'altronde non dobbiamo neanche pensare il contrario, come fa il materialismo. L'Idealismo, c'è da dire, tenta una ardita e profonda operazione, cercando di farle coincidere nella "sintesi". La cosa è, ritengo, lodevole. Senonchè l'Idealismo, riproducendo nell'"io" l'infinità divina, dimentica appunto la finitezza umana, e dunque non può che pensare a quella sintesi in termini universalistici, cioè assoluti. Ciò che ne risulta è un qualcosa di "mostruoso": ogni cosa che effettivamente si realizza rappresenta ciò che necessariamente doveva realizzarsi. La "possibilità" viene annullata, e l'"io" diventa elemento "creatore" (di ciò che è reale) IN QUANTO elemento creatore è l'intero composto da realtà e razionalità. La sintesi di "res cogitans" e "res extensa" è invece solo e sempre NELL'uomo, cioè nell'"io" limitato dal suo stesso modo d'essere. Mai lo trascende per diventare qualcosa di "infinito". ciao |
01-12-2013, 12.01.06 | #137 | |
prof
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
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02-12-2013, 09.57.19 | #138 |
Ospite abituale
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Maral:
Oxdeadbeef, quello che intendo dire è che l'io e l'oggetto sono aspetti parziali del medesimo intero per cui in termini ontologici concreti non ha senso chiedersi quale parte pone l'altra parte (se l'io o le cose esterne all'io), in quanto entrambe (io e mondo) sono posti come momenti infinitamente diversi e contrapposti, ma non isolabili, dall'intero dell'essente. La realtà di un segno su un foglio di carta (di una figura su uno sfondo) non è il foglio di carta o viceversa, ma è la realtà propria di quel segno che non è il foglio di carta, ma che emerge in relazione a quel foglio di carta che non è il segno in esso tracciato e pur tuttavia non è da esso separabile affinché quel segno sia proprio quel segno e quel foglio segnato sia proprio quel foglio segnato. Dunque la cosa (res extensa) non è creata dall'io (res cogitans) o viceversa, ma l'io e la cosa sono parti diverse, sono tra loro irriducibilmente altri, del medesimo intero essente. Questo intero essente è originaria sintesi a priori dei diversi momenti antitetici attraverso i quali appare, ove questo apparire è un continuo inesauribile rimando a nuovi apparire, è cioè un continuo e inesauribile passare oltre della sua parziale forma astratta. La sintesi a priori originaria è l'intero essente stesso che si riconosce nelle sue parti (si riconosce ad esempio nei momenti antitetici di io che guardo la luna senza per questo essere la luna e luna come cosa guardata senza che essa sia io), si intuisce cioè come punto di partenenza e punto di arrivo di un percorso circolare che all'infinito definisce ogni essente per quello che è nell'orizzonte alla luce del quale via via viene a sopraggiungere. è praticamente un modo diverso per dire esattamente ciò che cercavo di esprimere spiegando l'affermazione "le cose in sé non hanno contenuto". Sono molto felice di vedere qualcuno che condivida questo aspetto dell'interpretazione della realtà con me. Invece il pensiero di 0xdeadbeef è, dal mio punto di vista, troppo legato a quello della separazione al momento del riconoscimento di vari aspetti del reale. Maral: Allora potremmo dire che la luna esisterebbe nella sua forma astratta e non nella concretezza che le compete per intero, ossia continuerebbe ad esistere come luna-concetto a cui è stato sottratto l'aspetto di essere da te guardata e ciò che ti permette di dire che tale luna-concetto sarebbe simile alla luna-luna è il voler pensare che questa sottrazione sia del tutto trascurabile. E questo potrà essere vero in termini solo quantitativi (il fatto che sia o meno guardata da te è una sola attribuzione delle innumerevoli che competono alla luna-luna), ma in termini qualitativi come possiamo sostenerlo? Qualsiasi cosa è o non è la cosa che si dice essere (non può esserlo più o meno), ma se non lo è quell'altra cosa che è, per quanto ci assomigli, non può comunque essere la stessa cosa né più o meno esserlo. Non trovi? Diciamo che un oggetto può anche essere descritto approssimativamente, come in realtà succede sempre, percui il mio pigiama può essere nero e di pail, se poi si modifica un pò posso chiamarlo con lo stesso nome; allo stesso modo se la Luna per uno scontro con un meteorite perdesse parte della sua massa potremmo comunque chiamarla Luna, anche se, accettando un certo modo di usare la parola essere, potremmo dire che non è più l'oggetto di prima. Però il mio modo di usare quella parola è diverso e (mi pare) adeguato al discorso che tu stesso hai fatto circa l'essere originario; quando indico un oggetto indico al contempo il contesto in cui è inserito (cioè tutto "il resto" dell'universo), non lo indico di per sé, percui affermazioni circa il suo essere sono affermazioni circa l'essere del tutto. La Luna non smetterà mai di esistere finché l'universo si presenterà ma potrà certamente cambiare forma, il che, devo essere petulante, non vuol dire fargli perdere il proprio essere ma solo modificarne la modalità. Ditetro queste specifiche e giustificazioni del modo in cui va usata la parola essere riposano anche i contrasti con Oxd. . Tu credi di riferirti ad un Io particolare e separato dagli altri quando, ad esempio, ti nomini. Invece nominandoti stai indicando già tutto ciò che ti sembra essere "fuori di te"; indicando il tuo essere indichi tutto l'essere, perché nel concetto legato al Te è insito il concetto delle altre cose che ti fanno da contesto. <<Oxd. è quello che parla con Aggressor>> (per es.), il tuo essere non prescidere da questo legame. La diversità che si riscontra nell'universo è per me la diversità delle proprietà che si dicono appartenere allo stesso oggetto, così la Luna esisterà sempre anche se cambierà aspetto, come Io esisterò ancora seppur tagliandomi le unghie o diventando brutto (cioè pure quando cambieranno delle proprietà che si dice appartenermi). Quando penserai gli oggetti come proprietà dell'Essere ti penserai anche come immortale nell'essere ma passibile di cambiamento nel modo di essere. |
02-12-2013, 12.49.31 | #139 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Non è Oxdeadbeef che l'io diventi elemento creatore (anche se una parte dell'idealismo arriva a pensarlo sostanziando come assoluto quella che è in realtà solo una forma astratta e separata dell'intero e dando così fondamento al solipsismo), ma è parte irrinunciabile dell'intero insieme all'altro concettualizzato come mondo esterno all'io, come forma concettuale del non-io. Se l'io è parte irrinunciabile complementare, né l'io né il non io possono continuare a sussistere da soli, né il soggetto né l'oggetto mondo possono mai separatamente nascere o morire, ma sempre insieme (compreso questo io che sono io e questo tu che sei tu).
Ogni altro, in quanto negazione dell'io, è assolutamente altro (ogni altro è quindi morte dell'io, in quanto esprime il suo non essere. L'apparire dell'altro è l'apparire del proprio non essere, del proprio morire), ma proprio in quanto negazione ogni altro è ciò che fa sì che l'io propriamente sia quello che è, che pertanto lo genera per quello che concretamente è e dunque ne sostiene l'esistenza stessa, perché io compiutamente sono l'altro dell'altro. C'è dunque una contraddizione nel rapporto io-altro che può essere superata solo nella sintesi espressa dall'intero originario (e qui il pensiero di Severino si stacca da quello di Hegel per il quale la sintesi è invece il necessario punto di arrivo a cui perviene via via il pensiero, l'approdo finale dell'intera storia dialettica che prima o poi non manca di saturare l'intero). In realtà però occorre ancora dire che, come ho sopra accennato, pure ciò che chiamiamo io è solo una posizione formale astratta e per questo essa appare nel suo continuo spostarsi. L'io è solo una storia il cui filo è tenuto dalla memoria degli essenti, perché l'io concreto fanciullo, come anche l'io concreto di questa mattina, ora è già stato oltrepassato, è già "morto", ma non nel senso che è entrato nel niente, che è diventato niente, ma nel senso che è compiuto e dunque non appare se non nel suo compimento. Ciò che tuttora appare è solo quanto (la parte) in comune vi è tra l'essente fanciullo e l'essente attuale, tra l'essente di questa mattina e l'essente di questa sera ed è questa parte in comune, astratta dalla totalità di ogni essente che via via sopraggiunge tra gli essenti, che emerge come "io", trattenuta sul filo incerto di una memoria che le conferisce il senso. In realtà concretamente l'essente muore a ogni istante, perché a ogni istante la parte astratta e formale (incompiuta) di ogni essente passa ad altro essete e in esso appare, ma in nessun istante nessun essente si trova di fronte al nulla e dunque questo morire non è mai un finire nel nulla, ma un ritrovarsi di ogni essente con ogni altro essente attraverso il reciproco percorsi. Se morire è ritrovarsi e non sentirsi gettati in un nulla che fissa inequivocabile la propria ben definita separazione formale, significa che morire esprime l'incontro dell'essente Mauro-bambino con l'essente Mauro-adulto con l'essente Mauro di questa mattina con l'essente Mauro di questa sera con l'essente Mauro di domani e con l'essente Mauro che è quel riferimento comune astratto sentito come io alla luce del quale Mauro appare a se stesso e al mondo come una narrazione di essenti, che come ogni narrazione deve pur iniziare e finire per poter apparire sensatamente compiuta. |
02-12-2013, 17.13.40 | #140 |
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)
Devo aggiungere anche un certo accordo con Mariodic (se ho capito bene le sue parole) nel momento in cui afferma come limite dell'Io (quello del gergo comune) il semplice limite conoscitivo: ciò che è meno palese o conosciuto dall'Io si considera altro da esso. Mariodic:La comune percezione che le cose che il senso ed il linguaggio ordinario pongono "fuori" dall'io ordinariamente inteso (non dall'IO),è causata dalla caduta della densità conoscitiva nel graduale distanziarsi dalla singolarità origine I'IO, appunto.
è proprio in base a questo che affermo: la Luna non-è altro da me; essa è una manifestazione del mio Io, per quanto ciò che chiamo Io o "altro" possano cambiare l'Io ci sarà sempre. Questo Io più o meno l'ho anche chiamato "essere", per questo dico che l'essere delle cose non può sparire, ma solo la sua modalità può mutare. Sembrerà, forse, strano, ma la cosa che mi ha convinto di più è aver riflettuto sulla domanda: "chi è che possiede le proprietà?". Cioè, anche Maral dice che A non può essere B se manifestano proprietà diverse, se sono diversi; ma cosa sono questi A e B al di fuori delle proprietà con cui li identifichiamo? Un nome proprio è in realtà il rimando ad una serie di proprietà, che senso ha, dunque, affermare che quelle proprietà sone possedute dal nome proprio? Se le cose che vediamo, cioè delle proprietà particolari (che i metafisici analitici chiamano "tropi") -perché io vedo le caratteristiche delle cose, di Fabio vedo l'altezza, il colore della pelle, ecc.- devono appartenere a qualcuno, allora, tutt'al'più, apparterranno al tutto (insieme "oggetti/contesti") da cui emergono, o semplicmente a nessuno. In ogni caso non sarà esatto affermare che Io non sono Te per delle differenze formali; sotto quelle forme non c'è un nuovo ente (?! mai definito tra l'altro) che le "possiede", tipo Io (o il mio nome proprio) o Voi (con i vostri nomi). L'unica cosa che si può dire è che pezzi di realtà sembrano diversi da altri pezzi di realtà, ma qui riportei l'attenzione verso quell'impossibilità che abbiamo di poter indicare -di per sé- dei "pezzi di realtà". La mia conclusione, come noto ormai..., è che quei "pezzi" siano lo stesso che si manifesta, necessariamente tramite una diversità che dischiude disvelamento e peculiarità, in modi diversi. La posizione di Maral, invece, non tenta di eludere una diversità nell'essere delle cose, percui ricade, a modo suo (o al modo di Severino), in un sequenzialismo che però salvaguarda gli oggetti dalla cadunta nel non-essere tramite l'affermazione d'una enternità che gli sarebbe propria a causa del legame indissolubile con l'altro (o anche grazie ad esso). Non siamo, comunque, molto distanti. Scusate se sembro oscuro, cerco di esprimere il mio pensiero, un saluto a tutti |