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20-05-2013, 20.25.58 | #32 | ||
Moderatore
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Citazione:
Immaginavo che parlando di controparte fisica sarei caduto in contraddizione.. Mi accorgo che a volte (come in questo caso) faccio una gran confusione, quando mi immergo in questi pensieri spesso perdo l' orientamento. Nel tentativo di conciliare idee filosofiche e scienza troppo spesso commetto l' errore di pensare che l' oggetto di indagine della scienza sia il noumeno (la cosa in sè), quando in realtà ciò che è oggetto di indagine è ancora il fenomeno. Si può allora dire che la scienza (in particolare la fisica) sta tentando di cogliere l' essenza ultima del fenomeno? Voglio ringraziarti sgiombo, le tue risposte sono sempre precise ed esaustive. Citazione:
Solo ora capisco il senso di questa frase.. Meglio tardi che mai! Questo spiega "L' Intangibilità dell' IO"! |
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21-05-2013, 10.46.28 | #33 |
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Sgiombo
Di Edelman, che da medico conosco anche per le sue geniali scoperte sull’ immunità anticorpale, ho letto Sulla materia della mente. La sua teoria del darwinismo neurale mi sembra una interessante e promettente ipotesi di lavoro nel campo della neurofisiologia del sistema nervoso centrale; in particolare dei correlati neurologici della coscienza. Ma questo concetto di “correlato” mi sembra ben diverso da quello di “identificazione” o di “intrinsechezza” (se così si può dire) della coscienza alla materia. Un conto è dire che c’ è una necessaria correlazione o corrispondenza fra coscienza e cervello, un' altra cosa ben diversa è sostenere che la coscienza si identifica con la materia (il cervello) o che è qualcosa di intrinseco ad essa (come lo sono, per esempio, la massa o la quantità di moto). In accordo con quest’ ultima concezione, che non condivido, mi sembra si collochi la (secondo me pretesa) misurabilità della coscienza. Quello che si può misurare in termini di complessità non è la coscienza, bensì il corrispettivo neurologico della coscienza. Come fa notare il filosofo della mente australiano David Chalmers, anche sistemi fisici di grande complessità come il cervello umano potrebbero benissimo esistere e funzionare esattamente così come esistono e funzionano senza essere “accompagnati da” o correlati o corrispondenti a una esperienza cosciente (non esiste modo di verificare o falsificare questa ipotesi in quanto non si può avere esperienza cosciente che della propria esperienza cosciente e non di alcun altra). Si può misurare la complessità del cervello, cioè di un organo costituito di neuroni, assoni, sinapsi, ecc. , a loro volta costituiti di membrane, molecole, atomi, particelle-onde subatomiche, ecc.; ma tutto ciò non è le percezioni e i pensieri propri dell’ esperienza cosciente che pure senza il rispettivo cervello vivo e funzioante non può esistere e che a quanto accade nel rispettivo cervello necessariamente corrisponde o è correlata. Tu dici: “La mia posizione è più o meno questa: l'unico modo in cui una sostanza come la coscienza (che però identifico con il "sentire" in generale) può cogliere altra coscienza è attraverso il fenomeno "materiale". Nel senso che se Io sono un centro di percezione non posso percepire ciò che altri centri di percezione avvertono, altrimenti non sarei questo centro di percezione, così l'avvertire dell'altro mi si presenta come un oggetto esterno (materiale) e non come la sua esperienza diretta. In altre parole non posso vedere quello che tu vedi perché non sono te, ma posso guardarti vedere e così, nella mia testa, renderti materiale, cioè renderti l'oggetto della Mia esperienza (cervello, ossa ecc.)” Sono sostanzialmente d’ accordo (ma non direi "nella mia testa", bensì "nella mia coscienza". Ma allora ciò che tu vedi nella “tua” coscienza (il mio cervello senziente, fatto di cellule e membrane, fatte di atomi, ecc.) è correlato a ciò che io sento nella “mia” coscienza (fatto di pensieri, ragionamenti, anche di qualia materiali, come per esempio il fogliame verde di un albero che sto vedendo), e che non si identifica con quelle cose ben diverse e intrinseche al mio cervello che sono i “miei” neuroni, sinapsi, circuiti nervosi variamente funzionanti nella “tua” coscienza: senza gli uni di tali insiemi di sensazioni non possono darsi gli altri, però ciascuno nell’ ambito della rispettiva esperienza fenomenica cosciente, essendo reciprocamente correlati o corrispondenti ma diversi, non identificantisi. "Se non guardo la luna la luna non esiste" Secondo me “la luna” in quanto insieme di sensazioni (qualia) materiali (biancore, luminosità, rotondità, ecc.) presente nella “mia” esperienza fenomenica cosciente non esiste allorché non la vedo (queste parole significano esattamente, precisamente: “non esiste allorché non esiste”). Se anche esiste nell’ambito di altre esperienze fenomeniche coscienti (di altri uomini o animali che la guardano, senza ipotizzare oscure e assai dubbie coscienze correlate a diversi corpi che si ritiene incoscienti o inanimati solitamente e che invece avrebbero coscienza (non lo nego né lo affermo, ma mi sembra qualcosa di molto vago e problematico, oltre che di molto incerto), si tratta di un’ altra cosa (sia pure perfettamente correlata o corrispondente alla luna nella “mia” coscienza”); di un’ altro insieme di eventi fenomenici e non di quelli della luna “vista da me”: è autocontraddittorio affermare che parti di insiemi fra loro integralmente diversi, separati, distinti, parti di “cose” diverse (come la luna nella mia coscienza e la luna nella coscienza di qualsiasi altro senziente) sono “la stessa cosa”. Se una stessa, unica cosa c’ è, corrispondente o correlata al cosiddetto (impropriamente) “stesso” oggetto (per esempio la luna) in coscienze diverse (a fondamento dell’ intersoggettività delle osservazioni del mondo materiale naturale, e dunque della conoscenza scientifica), allora questa unica “cosa” non può essere nessuno degli oggetti fenomenici propri di ciascuna esperienza cosciente (né l’ insieme dei qualia che costituiscono la luna nell’ ambito della mia coscienza quando la vedo, né l’ insieme dei qualia che costituiscono la luna nell’ ambito della tua coscienza quando la vedi), che sono “cose” fra loro diverse (pur se correlate), ma casomai qualcosa di congetturabile (noumeno) dai fenomeni (tutti, propri di tutte le coscienze) distinto e ad essi corrispondente o correlato. Infatti anche tu dici: "non posso vedere quello che tu vedi perché non sono te, ma posso guardarti vedere"; infatti non puoi vedere la luna che vedo io, bensì la luna che vedi tu, alla mia (e a "qualcosa di nuomenico"; unico per la "mia" e per la "tua" luna, ciascuna nell' ambito della rispettiva coscienza fenomenica) correlata o corrispondente Prima di tutto volevo dire che il discorso di David Chalmers è cruciale. Più che altro anche se il metodo scientifico nega la possibilità di dimostrare chi abbia la coscienza o meno non possiamo fuggire dal ragionare su questo per motivi etici, altrimenti non saprei se trattare i miei simili come zombie e il resto della natura come una macchina insensibile. Il discorso fineale che hai esposto l'ho fatto mio molte volte poiché non credo vi sia un oggetto materiale o qualcosa di obbiettivo dietro i fenomeni e più in generale non credo che vi sia qualcosa di presente per se stesso dietro alle impressioni che i corpi contraggono da altri enti. Ma il discorso sull'identità degli oggetti non si esaurisce dicendo che "la mia luna non-è la tua luna", che è anche il discorso fondamentale tramite cui negare che il contenuto di una esperienza sia "esperienza". Cioè io posso dirti che il contenuto di una coscienza è coscienza (anche se si presenta in modo diverso, come un correlato) nello stesso senso in cui affermo l'identità del tavolo osservato da 2 persone diverse con i loro punti di vista particolari (perché ad essi appare diverso qualcosa che potrebbe essere il medesimo corpo). Al che, appunto, tu dici che i tavoli osservati non sono lo stesso tavolo, come se sapessi delineare e definire questi oggetti una volta identificati col dato fenomenico. Il problema è che anche il dato fenomenico a disposizione non è nulla di stabile o sensato per sé, è sempre qualcosa che sembra solo ostentare una particolarità precisa che non può avere già solo per il fatto che ad ogni istante il tavolo osservato cambia leggermente forma, cosicché dovrei dire di stare parlando di un tavolo diverso ogni secondo. Il discorso potrebbe essere lunghissimo, cerco di tagliare e dire questo, che ragionando sull'identità (e anche sull'esistenza) degli enti mi è parso che si debba arrivare alla conclusione che non dipenda dall'aspetto a cui si accostano gli osservatori, o meglio che non si possa dire, per esempio, "Io sono questo (elencando una serie di caratteristiche)", anche perché potrei perdere molte di queste caratteristiche senza in realtà sparire e così gli altri oggetti (l'esistenza non sarebbe legata alle proprietà, nel senso di attributi). In altre parole negare che "la mia luna" sia "la tua luna" vorrebbe dire sapere cosa è "la mia luna" (additare delle precise proprietà ad essa), cioè, prima di tutto, negare che essa sia anche altro da ciò di cui ho esperienza diretta (il che è già una posizione da dover difendere), o che sia un'altra fetta di esperienza diretta (dividere l'essere del tavolo dal pavimento su cui poggia), e che qualcosa di molto simile possa essere la stessa cosa, il che è assurdo perché tu riconosci la tua luna nel tempo, cioè già in somiglianza con se stessa. In definitiva credo che l'identità sia un'approssimazione, cioè che non esistano enti separati o obbiettivamente distinti l'uno dall'altro, e che noi ragioniamo dividendo i corpi (o dividendo l'identità dei dati fenomenici) solo per una questione utilitaristica, mentre non abbiamo idea di dove inizi e dove finisca un oggetto e probabilmente non esiste questo confine. |
21-05-2013, 10.46.54 | #34 |
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Per tirare le somme un oggetto è riconosciuto già nella differenza che esso contrae con sé nel tempo e nello spazio (solo così ne avrai cognizione) percui è impossibile stabilire cosa sia precisamente anche se accostato al dato fenomenico, e così negare che sia ciò di cui qualcun'altro ha esperienza diviene pretestuoso. Potrai ammettere che la tua luna è quella cosa che ha avuto una certa evoluzione nella tua mente -"l'oggetto luminoso che ho appena osservato per un paio di secondi" ad esempio- ma così negherai arbitrariamente che sia anche qualcos'altro (il cielo da cui è circondata, che trà l'altro è pieno dei raggi luminosi provenienti da essa) solo perché, in realtà, parlandomi di quella esperienza ti conviene di fare così; hai solo dato un nome ad una porzione di esperienza/tua-realtà, un discorso esistenziale può essere diverso.
Nel caso in cui tu voglia astenerti dal parlare di ciò che un oggetto esperito è, dovrai allora parlare della tua esperienza senza riferimenti a discorsi del genere. "Io esperisco questo e quast'altro" potrai dirlo, ma non: "quello che esperisco io non-è quello che esperisci tu". Credo che il discorso sia contorto, ma l'ambito è quello che è, si parla di identità, percui, apparte la mia oscurità, temo che la complessità sia inevitabile. Grazie per i dibattiti interessanti, saluti! |
21-05-2013, 21.54.23 | #35 |
Ospite abituale
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Jeangene:
l' errore di pensare che l' oggetto di indagine della scienza sia il noumeno (la cosa in sè), quando in realtà ciò che è oggetto di indagine è ancora il fenomeno. Si può allora dire che la scienza (in particolare la fisica) sta tentando di cogliere l' essenza ultima del fenomeno? Sgiombo: Sono perfettamente d’ accordo: la scienza studia e conosce negli aspetti generali universali e costanti del suo divenire (le leggi fisiche) il mondo naturale, costituito dai fenomeni materiali, l’ esperienza dei quali -contrariamente a quella dei fenomeni mentali- si può ammettere sia intersoggettiva. Così molecole, atomi, particelle-onde subatomiche, campi di forze, ecc. non sono "cose in sé", reali indipendentemente dall' essere percepite (il noumeno), bensì sono, ciò di cui la scienza ci dice che sono costituiti i fenomeni, reali (solo) in quanto insiemi di sensazioni (esse est percipi). Oltre all’ intersoggettività, un altro elemento indispensabile per la conoscibilità scientifica del mondo materiale -e non di quello mentale- è la sua misurabilità attraverso rapporti esprimibili con numeri, fatto che consente di esporre le leggi del suo divenire mediante formule matematiche o equazioni (naturalmente la possibilità della conoscenza scientifica necessita di alcune assunzioni indimostrabili, come l’ esistenza di altre esperienze coscienti oltre la “propria”, con le quali è possibile comunicare mediante il linguaggio, e il divenire ordinato secondo regole universali e costanti del mondo -fenomenico- naturale materiale). Jeangene: Voglio ringraziarti sgiombo, le tue risposte sono sempre precise ed esaustive. Sgiombo: Troppo buono! Comunque ti ringrazio a mia volta perché non mi capita quasi mai di trovare qualcuno che ha la pazienza di seguire i miei ragionamenti e magari, come nel tuo caso, li condivide, almeno in buona parte. E’ una bella soddisfazione di cui ti sono debitore. |
21-05-2013, 22.12.12 | #36 |
Ospite abituale
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Aggressor:
Prima di tutto volevo dire che il discorso di David Chalmers è cruciale. Più che altro anche se il metodo scientifico nega la possibilità di dimostrare chi abbia la coscienza o meno non possiamo fuggire dal ragionare su questo per motivi etici, altrimenti non saprei se trattare i miei simili come zombie e il resto della natura come una macchina insensibile. Sgiombo: A questo proposito credo che, come sempre in etica, valga un principio di prudenza: piuttosto che rischiare di non rispettare la presunta personalità di enti naturali o anche eventuali futuribili macchine che si comportano come se fossero coscienti e autocoscienti credo sia doveroso rischiare di trattare come persone entità che non lo sono. Peraltro Chalmers, ovviamente, di fatto crede che tutti gli altri uomini siano coscienti (e autocoscienti); semplicemente afferma, nel tentativo “eroico” di far comprendere ai monisti materialisti il loro errore, che se anche per assurdo non lo fossero ma fossero degli zombi, allora nulla cambierebbe nel divenire naturale, in particolare nel funzionamento del loro cervello e conseguentemente nel loro comportamento (e dunque ogni esperienza cosciente è qualcosa di diverso dal cervello, al cui funzionamento necessariamente corrisponde, presente in altre, diverse esperienze coscienti, qualcosa di “ulteriore”). Aggressor: Il discorso finale che hai esposto l'ho fatto mio molte volte poiché non credo vi sia un oggetto materiale o qualcosa di obbiettivo dietro i fenomeni e più in generale non credo che vi sia qualcosa di presente per se stesso dietro alle impressioni che i corpi contraggono da altri enti. Ma il discorso sull'identità degli oggetti non si esaurisce dicendo che "la mia luna non-è la tua luna", che è anche il discorso fondamentale tramite cui negare che il contenuto di una esperienza sia "esperienza". Cioè io posso dirti che il contenuto di una coscienza è coscienza (anche se si presenta in modo diverso, come un correlato) nello stesso senso in cui affermo l'identità del tavolo osservato da 2 persone diverse con i loro punti di vista particolari (perché ad essi appare diverso qualcosa che potrebbe essere il medesimo corpo). Al che, appunto, tu dici che i tavoli osservati non sono lo stesso tavolo, come se sapessi delineare e definire questi oggetti una volta identificati col dato fenomenico. Il problema è che anche il dato fenomenico a disposizione non è nulla di stabile o sensato per sé, è sempre qualcosa che sembra solo ostentare una particolarità precisa che non può avere già solo per il fatto che ad ogni istante il tavolo osservato cambia leggermente forma, cosicché dovrei dire di stare parlando di un tavolo diverso ogni secondo. Il discorso potrebbe essere lunghissimo, cerco di tagliare e dire questo, che ragionando sull'identità (e anche sull'esistenza) degli enti mi è parso che si debba arrivare alla conclusione che non dipenda dall'aspetto a cui si accostano gli osservatori, o meglio che non si possa dire, per esempio, "Io sono questo (elencando una serie di caratteristiche)", anche perché potrei perdere molte di queste caratteristiche senza in realtà sparire e così gli altri oggetti (l'esistenza non sarebbe legata alle proprietà, nel senso di attributi). In altre parole negare che "la mia luna" sia "la tua luna" vorrebbe dire sapere cosa è "la mia luna" (additare delle precise proprietà ad essa), cioè, prima di tutto, negare che essa sia anche altro da ciò di cui ho esperienza diretta (il che è già una posizione da dover difendere), o che sia un'altra fetta di esperienza diretta (dividere l'essere del tavolo dal pavimento su cui poggia), e che qualcosa di molto simile possa essere la stessa cosa, il che è assurdo perché tu riconosci la tua luna nel tempo, cioè già in somiglianza con se stessa. In definitiva credo che l'identità sia un'approssimazione, cioè che non esistano enti separati o obbiettivamente distinti l'uno dall'altro, e che noi ragioniamo dividendo i corpi (o dividendo l'identità dei dati fenomenici) solo per una questione utilitaristica, mentre non abbiamo idea di dove inizi e dove finisca un oggetto e probabilmente non esiste questo confine. Sgiombo: Mi sembra che tu tratti di tre diverse questioni. Una è quella dell’ identità degli enti materiali, i quali cambiano in realtà continuamente; e su questo personalmente non ho molto da dire. Credo che poiché tutto cambia, in realtà non esistano enti ma eventi; gli enti sono solo astrazioni di qualcosa di relativamente fisso e costante (per un tempo più o meno lungo ma comunque finito) nell’ ambito del divenire, ovvero del succedersi degli eventi. La seconda (che tu tratti per terza) è quella dell’ arbitrarietà nel “separare” gli oggetti dal tutto delle sensazioni materiali nell’ambito dei nostri pensieri e conoscenze circa il mondo naturale, sulla quale concordo (penso che l’ "utilitarismo” col quale distinguiamo i diversi enti ed anche i diversi eventi naturali sia non solo pratico ma anche teorico: li distinguiamo -anche- nella maniera che meglio ci consente conoscere, e in particolare di acquisire la conoscenza scientifica, della realtà -fenomenica!- materiale naturale). La terza, per me la più interessante, è quella dell’ identità fra gli oggetti (o meglio gli enti ed eventi) materiali osservati dai diversi soggetti coscienti (presenti nelle diverse coscienze). L’ intersoggettività che li caratterizza a mio parere non può essere confusa con una presunta identità. Infatti ciascuno percepisce un oggetto (per esempio un tavolo o la luna) come insieme di sensazioni fenomeniche nell’ ambito della propria coscienza. Poiché le esperienze coscienti sono reciprocamente distinte, sono “fatti” diversi l’ una dall’ altra, anche il tavolo (o la luna) che vediamo sia io che tu sono “cose” diverse l‘ una dall’ altra (parti di cose diverse sono necessariamente cose diverse). L’ intersoggettività è semplicemente il fatto che possiamo tutti parlare delle “stesse cose” e sapere le stesse cose delle stesse cose (materiali naturali). Ma in che senso, dal momento che ciascuna cosa fenomenica è parte di una certa esperienza cosciente e dunque il tavolo o la luna nell’ ambito della mia coscienza è un’ altro diverso evento che non il tavolo o la luna nell’ ambito della tua coscienza? L’ unica interpretazione sensata a mio parere è che vi è una corrispondenza puntuale ed univoca fra ciascun evento fenomenico nell’ ambito di ciascuna esperienza cosciente e una realtà in sé, “noumenica”. E per la proprietà transitiva, tale corrispondenza puntuale ed univoca fra ciascuna coscienza fenomenica e il noumeno accade anche fra l’ una e l’ altra delle esperienze fenomeniche, cosicché si può parlare dei fenomeni materiali naturali (o esterni) come se fossero la stessa cosa in tutte le coscienze, un’ unica cosa (da qui la possibilità di conoscenza scientifica, oggettiva). Ma, oltre al fatto che sono eventi diversi nell’ ambito di esperienze coscienti diverse, della luna o del tavolo (“lo stesso” tavolo) visto da te e da me, non ha nemmeno senso dire se siano uguali o meno. Infatti possiamo confrontare due tavoli, ciascuno nell’ ambito della propria coscienza, guardandoli uno accanto all’ altro e stabilire se siano uguali o meno; ma lo stesso tavolo visto da te nella tua coscienza non posso “metterlo vicino” alla visione che ne ho io nella mia coscienza: nella mia coscienza “non ci può proprio entrare”; e dunque non posso dire se -oltre ad essere un' altra cosa- sia uguale o diverso alla mia visione dello “stesso tavolo”: posso solo ammettere (ma non dimostrare né mostrare) che essi si corrispondono “punto per punto”. Aggressor: Per tirare le somme un oggetto è riconosciuto già nella differenza che esso contrae con sé nel tempo e nello spazio (solo così ne avrai cognizione) percui è impossibile stabilire cosa sia precisamente anche se accostato al dato fenomenico, e così negare che sia ciò di cui qualcun'altro ha esperienza diviene pretestuoso. Potrai ammettere che la tua luna è quella cosa che ha avuto una certa evoluzione nella tua mente -"l'oggetto luminoso che ho appena osservato per un paio di secondi" ad esempio- ma così negherai arbitrariamente che sia anche qualcos'altro (il cielo da cui è circondata, che trà l'altro è pieno dei raggi luminosi provenienti da essa) solo perché, in realtà, parlandomi di quella esperienza ti conviene di fare così; hai solo dato un nome ad una porzione di esperienza/tua-realtà, un discorso esistenziale può essere diverso. Nel caso in cui tu voglia astenerti dal parlare di ciò che un oggetto esperito è, dovrai allora parlare della tua esperienza senza riferimenti a discorsi del genere. "Io esperisco questo e quast'altro" potrai dirlo, ma non: "quello che esperisco io non-è quello che esperisci tu". Credo che il discorso sia contorto, ma l'ambito è quello che è, si parla di identità, percui, apparte la mia oscurità, temo che la complessità sia inevitabile. Sgiombo: Ma l’ arbitrarietà ineliminabile nella definizione (in senso etimologico: imposizione di limiti, “ritaglio”) di enti ed eventi fenomenici materiali non nega che gli insiemi degli eventi materiali stessi (e qualsiasi ripartizione arbitrariamente se ne possa fare) percepiti nelle diverse esperienze fenomeniche coscienti siano eventi diversi, di cui non si può stabilire se siano uguali o meno ma solo si può ammettere che siano puntualmente ed univocamente corrispondenti fra loro (posso ben dire che quello che esperisco io -inteso nella maniera la più generica possibile, comunque arbitrariamente lo si possa distinguere in enti ed eventi ed indipendentemente da ciò- non è quello che esperisci tu, bensì “un’ altra cosa o insieme di cose” che si può ammettere a quello che esperisci tu corrisponda “punto per punto”. Ricambio di cuore ringraziamenti e saluti! |
22-05-2013, 11.28.37 | #37 |
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Ciao Sgiombo
Sgiombo: L’ intersoggettività che li caratterizza a mio parere non può essere confusa con una presunta identità. Infatti ciascuno percepisce un oggetto (per esempio un tavolo o la luna) come insieme di sensazioni fenomeniche nell’ ambito della propria coscienza. Poiché le esperienze coscienti sono reciprocamente distinte, sono “fatti” diversi l’ una dall’ altra, anche il tavolo (o la luna) che vediamo sia io che tu sono “cose” diverse l‘ una dall’ altra (parti di cose diverse sono necessariamente cose diverse). L’ intersoggettività è semplicemente il fatto che possiamo tutti parlare delle “stesse cose” e sapere le stesse cose delle stesse cose (materiali naturali). Il mio discorso era centrato proprio sul negare la possibilità di un giudizio esistenziale del tipo "questo non-è quest'altro" che si basi sul paragone delle modalità in cui "questo" si presenta rispetto a "quest'altro". Il fatto che la mia luna sia diversa da quella che vedi tu, dicevo, non giustifica la negazione del suo essere lo stesso ente. Anzi, secondo me, una volta ammesso che i nomi applicati dagli uomini non sono altro che mezzi per dividere -con solo valore gnoseologico- la realtà (senza alcuna pretesa di divisione ontologica), non si presenterebbero problemi come questo: Sgiombo=>"in che senso, dal momento che ciascuna cosa fenomenica è parte di una certa esperienza cosciente e dunque il tavolo o la luna nell’ ambito della mia coscienza è un’ altro diverso evento che non il tavolo o la luna nell’ ambito della tua coscienza?" E non si dovrà tirare in ballo alcuna realtà noumenica, differenza sostanziale o correlato alcuno. Perché non credo che siano le proprietà a definire ontologicamente un ente/evento si può già capire dal fatto che un oggetto, essendo al contempo un evento, nega che lo si rinchiuda in un ambito preciso di modalità di esistenza. Cioè posso anche dire che la luna è l'oggetto grande tot, che illumina la terra di notte ecc. (definire il suo "essere" con una sfilza di proprietà che possiederebbe), ma quando poi il suo stato si trasformerà di poco continuerò a dire che si tratta ancora della luna, quando si trasformerà di molto (molto rispetto a ciò che mi conviene) la chiamerò con un altro nome o, addirittura, affermerò la sua inesistenza; anche se tutte queste cose non le applico al presunto oggetto in sé "Luna", che sappiamo essere inconoscibile, ma al solo dato fenomenico tramite cui si realizza per me e che posso identificare anche come l'unica cosa certa o addirittura come lo spazio della realtà (il mio Io come unico luogo dell'universo). Ma non c'è solo questo, non è solo il continuo trasformarsi degli oggetti a farmi dubitare che un giudizio esistenziale possa basarsi sul riconoscimento di alcune caratteristiche, il dubbio più grande deriva dal concetto di possesso. Infatti dire che la mia luna possiede queste e quest'altre caratteristiche è incredibilmente ambiguo per almeno due motivi: 1) le caratteristiche da me riconosciute derivano dalla sintesi tra il mio stato e quello dell'oggetto osservato (voglio solo affermare che non parleremmo di un colore come qualcosa che "appartiene" al fiore se il colore deriva dal rapporto tra me e il fiore) -ma non è questo il motivo fondamentale, infatti, ad esempio, si può negare che esista il fiore al di là dei rapporti che instaura con gli altri enti (e io inizio ad essere di questa veduta, soprattutto a causa dell'oscurità del concetto di nuomeno e del suo rivelare una realtà obbiettiva in quanto punto di riferimento saldo per le soggettività)-; 2) le proprietà (caratteristiche degli enti) emergono e coesistono con il sistema-di-riferimento/ambiente in cui sono immersi gli oggetti a cui le additiamo, per esempio si è alti rispetto a .. , scuri rispetto a .. ecc. In che senso dunque l'altezza è posseduta dall'ente? Una volta tolto l'ente dal suo contesto quello può mutare anche in tutto, ma allora le modalità non erano parte del suo Io obbiettivo, per sé dato, perché questo Io sembra Intangibile e del tutto malleabile al contesto. Il possessore delle proprietà, direi, non è l'ente, ma l'Essere, cioè l'intero contesto in cui gli enti sono inseriti, l'ambiente in cui i fenomeni emergono. Tutto questo ci porta ad una differenza che pare quasi solo espressiva ma che probabilmente non lo è solo in questo senso. Alla fine la mia tesi è che si possa dire: "il contenuto della mia coscienza è la coscienza altrui". Dire che il contenuto della mia coscienza è un correlato della coscienza, soprattutto sapedo cos'altro hai in mente quando lo dici, non è in realtà molto differente, solo il mio interesse stà nell'esortari a riflettere su questo, sul motivo per cui non identifichi questo correlato con la coscienza stessa finendo poi per moltiplicare le sostanze dell'universo in un senso oltre-epistemico. |
22-05-2013, 20.56.13 | #38 | |
Moderatore
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Citazione:
Sono ben felice di seguire i ragionamenti di tutti, è grazie al confronto che si impara e si chiariscono le idee. Putroppo io non ho l' opportunità di confrontarmi con qualcuno su questi temi al di fuori da questo forum, ringrazio chi l' ha realizzato e tutti gli utenti che lo compongono, tutti disponibilissimi! |
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23-05-2013, 01.58.25 | #39 |
weird dreams
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antichi dualismi
Mi spiace rompere l'incantesimo ma
ritengo superabile questa distinzione tra 'fenomeno' e 'noumeno', tra 'fisico' e 'metafisico'. Oggetto dell'esperienza è sempre una differenza a cui ci adattiamo, un'alterità in funzione della quale ci 'regoliamo' e ogni nostra esperienza corrisponde ad un nostro adattamento (di qualsiasi genere, in qualsiasi ambito). Non ci sarebbe esperienza senza diversità (o differenza, cambiamento, variazione, varietà, variabilità, mutazione, mutevolezza, alterità, eterogeneità ...) e d'altra parte questa diversità di cosa può consistere se non viene in alcun modo immaginata/esperita? Per dirlo dovrei immaginarlo ... a meno che non dico: nulla! (Alcuni di voi direbbero noumeno. Ma io mi chiedo perché? A che serve introdurre un dualismo fenomeno-noumeno?) Così, in senso lato, la diversità è esperienza; ma l'esperienza di 'governare' una grande complessità (l'esperienza di adattamento in un'ampia nicchia ecologica, adattamento ad un'ampia diversità, un ampio contesto), cioè la nostra comune esperienza, è un'esperienza altamente organizzata: è la flessibilità di una 'struttura' che in un certo senso potremmo dire 'emerge' da altre. Di solito quando parliamo di esperienza ci riferiamo a quest'ultimo senso specifico* , cioè l'esperienza di un organismo di una certa complessità e ci suonerebbe ridicolo parlare dell'esperienza di una pietra. Eppure come tra un organismo animale ed una pietra non c'è altra differenza rilevante che il grado di organizzazione/complessità, analogamente tra l'esperienza di un organismo animale e quella di una pietra non c'è altra differenza rilevante che il grado di organizzazione/complessità. Che sarà pure una grande differenza ma non è una differenza di sostanza: non c'è necessità di introdurre un dualismo metafisico (del tipo 'materia animata'-'materia inanimata', fisico-mentale, materia-spirito/psyché/anima...). *Specifico nel senso proprio di caratteristico della nostra specie; ma non abbiamo difficoltà a riconoscere qualcosa di simile in altre specie animali. Sommariamente ci riferiamo a qualcosa che riguarda organismi di una certa complessità. Torniamo ora al dualismo fenomeno-noumeno un dualismo tra ciò che provo cioè la mia esperienza e l'oggetto della mia esperienza, quello che alcuni di voi direbbero essere il 'noumeno' di cui l'esperienza è il fenomeno, 'la cosa in sé'... Se la mia esperienza è il mio adattamento, la mia relazione (ovvero ciò che copre la differenza) con l'alterità; oggetto della mia esperienza è l'adattamento di qualcos'altro (o meglio un adattamento diverso da quello che io rappresento) e quindi l'esperienza (intesa in senso lato) di qualcos'altro (o qualcun'altro, in base alla complessità di questa forma di adattamento). L'esperienza che tu hai di me è l'esperienza che tu hai del mio adattamento: il tuo adattamento nei miei confronti, il tuo modo di coprire la differenza tra me e te, il tuo tentativo di comprendermi. Di volta in volta l'esperienza di uno è oggetto di esperienza di un'altro: non c'è un dualismo metafisico tra esperienza e oggetto dell'esperienza cioè tra esperienza e diversità: sono mutualmente la stessa cosa. La 'cosa in sé' è la diversità, e in senso lato l'esperienza. L'argomento è complesso e difficile per mancanza di adeguati strumenti concettuali perciò lo affronto in maniera estremamente generale e sicuramente anche un po' sbarazzina. Spero nondimeno di riuscire ad indicare qualche vaga intuizione. |
23-05-2013, 08.44.30 | #40 |
Moderatore
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Riferimento: L' intangibilità dell' IO
Aggressor:
Credi che solo un cervello sviluppato pervenga alla coscienza e che lì si attivi il dualismo epistemico o ti pare che la coscienza sia cosa intrinseca alla materia in generale? Scusate se riprendo l' argomento, ma come può la coscienza essere cosa intrinseca alla materia o derivare da una sistema complesso materiale se (come è stato detto sopra) ciò che intendiamo con materia altro non è che fenomeno e quindi tale solo se rapportata a una coscienza che ne ha esperienza? Non è forse più corretto dire che la coscienza è cosa intrinseca al noumeno? |