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07-10-2013, 23.33.24 | #22 |
Ospite abituale
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Acquario69
Nell'analisi del reale (che è, ripeto, analisi politica, non filosofica. E viene effettuata con il celebre "fiuto" - quello che ha avuto Berlusconi e non le BR, tanto per rimanere agli esempi che facevo) non esiste la distinzione reale-virtuale. E tanto meno esiste la distinzione reale "vero" - menzogna, caricatura. Come lo stratega militare studia il campo di battaglia, così il politico studia il campo su cui dovrà agire. Egli userà tutti quei mezzi che riterrà più efficienti al suo scopo: il successo. E nessuna differenza farà fra i mezzi tradizionali e quelli che gli offrono le cosiddette "nuove tecnologie". L'unico suo discrimine sarà legato al grado di efficienza di tali mezzi rispetto al suo scopo. Questa è la realtà della politica, una realtà che è di oggi quanto lo era al tempo del genio di Machiavelli. Naturalmente, il politico (una nota importantissima: non abbiamo ancora detto CHI è, oggi, il "politico", cioè non abbiamo ancora detto chi, oggi, detiene l'"imperium"...), ponendosi come scopo ultimo il successo, cioè la presa o il mantenimento del potere, velerà il suo vero scopo mescolando abilmente verità e menzogna, dosando attentamente forza ed astuzia (due animali, dice Machiavelli, ispirano il "principe": la volpe ed il leone). E' questo l'"essere", la realtà della politica, la proposizione descrittiva, e perciò l'unica vera "scienza" della politica. Tutto il resto (una parte da me ancora non toccata, se non per brevissimi accenni,) fa parte del "dover-essere", dell'idealità della politica, della proposizione prescrittiva che rappresenta perciò l"umanizzazione" della politica. A mio modesto avviso, la filosofia politica, che è in grado di riflettere su entrambe le questioni, di abbracciar-le in un unico "pensiero", è necessariamente la forma di sapere politico più radicale. ciao |
08-10-2013, 05.10.42 | #23 | |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
ultime paio di cose che vorrei dire.. si,se andiamo a vedere da sempre sono esistiti "sovrani e sudditi"..la forma cambia ma la sostanza,in ultima analisi rimane sempre la stessa..ma questo credo che era sottinteso sin da subito. forse,ma e' solo un ipotesi, il divario fra l'una e l'altra si e' trasformato in crescendo fino a giungere ai giorni nostri in qualcosa di estremamente complicato e sempre più "anonimo" ..un mostro invisibile che inghiotte tutto quello che gli si para davanti e nessuno sa più chi ma anche cosa sia…magari e' diventato di per se un meccanismo inarrestabile..ma sono solo personali supposizioni. magari succede che non siamo adatti per gestirci in numero sproporzionato alla nostra stessa capacita..come i termitai riescono a fare..(chissa' se esiste davvero un parametro in questo senso che può spiegare anche una certa alienazione dovuta proprio a questa trasformazione?) ma solo in numero relativamente ristretto come quello dei branchi… parentesi sulle BR io penso che la storia delle BR,ma del terrorismo in generale sia,nel reale appunto,la storia di una strumentalizzazione,che il potere (a ragione sciascia usava dire che il potere e' sempre altrove..quindi aggiungo di mio,e' un errore cercare di individuarlo dove si rende "visibile") ha usato per i suoi scopi… ciao |
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08-10-2013, 13.28.06 | #24 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
A me pare chiaro che la politica non può essere altro che la giusta gestione del bene della comunità (ove gestione significa trovare soluzioni a come ripartire i beni senza generare conflitti distruttivi del tessuto sociale e quindi della comunità stessa: la comunità a mezzo della politica diventa così autopoietica, capace di sostenersi da sola). Nel momento in cui si comincia a pensare che gestire il bene della comunità significa privare la comunità del suo bene a favore di un privato (chiunque, individuo, associazione o partito che comunque persegue i propri interessi in contrapposizione agli interessi altrui) o di più enti privati collocati a diverso grado gerarchico, la politica, anche se la si chiama realpolitik, perde completamente di senso e per forza di cose si riduce a gestione non più del bene comune, ma del consenso ove il consenso è lo strumento fondamentale con il quale il privato riesce a privare la comunità di ogni bene a suo esclusivo vantaggio, è strumento di drenaggio e immiserimento della comunità. Nel momento in cui si dice e si crede (si vuole credere) che l'uomo è fondamentalmente lupo all'uomo (il mito moderno imperversante fino alla nausea dell'uomo lupo) ogni patto sociale che si invoca sperando di sfuggire gli affilati denti lupeschi del vicino è solo un trucco per meglio scannare il presunto lupo vicino prima che lui scanni noi e andare a vendere per primi la sua pelliccia al mercato anziché lui la nostra. Il bene comune non è la mera somma dei beni individuali per cui se ciascuno persegue il proprio vantaggio tutti ne trarranno vantaggio, ma è l'esatto opposto: ossia sono i beni individuali una conseguenza della sussistenza di un bene comune e libertà non significa libertà di depredare, ma capacità di mantenere sempre aperte la molteplicità dei modi di interagire senza ridurli a una competitività per pazzi furiosi ove solo il più demente può vincere.
In tal senso il bene comune lo si rispetta se e solo se è la comunità stessa di tutti gli individui a prendersene coscientemente carico, stabilendo in comune, senza esclusioni e senza privilegi di gerarchie come gestirne la distribuzione. E quando dico comunità non intendo né un consesso parziale di eletti ritenuti rappresentativi a cui vengono delegate le responsabilità decisionali in considerazione delle loro competenze tecnico suggestionanti, né il grande partito comunista di storica e assai infausta memoria che di fatto è sempre stato un ente privato, intendo proprio specificatamente ogni singolo cittadino, con tutti i suoi individualissimi pregi, egoismi, difetti, convinzioni, esperienze, conoscenze e via dicendo. Sento già l'obiezione sull'impossibilità di realizzare una simile assemblea, forse era ancora possibile in un villaggio di poche capanne, non certo nel mondo globalizzato di oggi. Ebbene io credo che in tal caso sarà opportuno tornare a quel villaggio di poche capanne originario o poco più, di cui l'attuale mondo globalizzato non è altro che la degradazione elevata all'ennesima potenza, a meno che gli sviluppi tecnologici non consentano in qualche modo e sempre che sia possibile una effettiva comunicazione in cui ognuno dei miliardi di individui di questo inferno costantemente mistificato per venderlo come il paradiso di ogni opportunità, si sentano in prima persona realmente partecipi. E' qui che serve il tecnico e pure il filosofo che lo sorveglia. |
08-10-2013, 20.28.47 | #25 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Ti dirò che ho una certa simpatia per gli atteggiamenti anticonformisti di M.Fini. Posso anche capire che abbia, in un certo qual modo in "schifo" la società occidentale (che, effettivamente, un pò di schifo lo fa davvero...), però, quando si tratta di fare una analisi rigorosa è bene, sempre, non farsi troppo prendere dalle passioni. Abbiamo visto, nella storia, diverse società sul modello di questi Nuer. Qualcuna ne vediamo ancora oggi. Tutte sono state, o sono, in genere strutturalmente diverse dalle società moderne. Io partirei con la distinzione di F.Tonnies fra "società" e "comunità". La "comunità", dice Tonnies, è un gruppo sociale che si basa su rapporti molto stretti (spesso parentali, o di clan). In essa le diversità di vedute sono assai limitate, e l'"arma" rappresentata dall'ostracismo verso chi si macchia di comportamenti non consoni ai costumi del "gruppo" è molto efficace. Soprattutto, la comunità è in genere molto piccola. Nella "società" non vi sono rapporti parentali o di clan. L'ostracismo non funziona se non in minima parte, e dunque vi sorge la necessità di amministrare una giustizia non legata a modi tribali. La "società" è grande (tipicamente: una nazione), ed in essa coesistono molte diverse "culture" in rapporto spesso conflittuale. Io credo non sia stato per caso che ai primi agglomerati umani, durante il Neolitico, sia corrisposto l'emergere di una vera e propria sovranità politica (fin allora relegata a forme che ricordano quelle dei Nuer). Sul secondo punto, mi accorgo di non essere stato chiarissimo. Quindi cercherò di rimediare. Hai sostanzialmente ragione nell'affermare che la filosofia politica nasce con Platone. Però hai a mio parere torto nel dire che è la filosofia politica di Platone a rimediare agli sconquassi provocati dall'hybris degli interessi contrapposti (dovuti alla gestione del surplus prodotto dalla rivoluzione agricola e dell'allevamento). Ciò che io volevo dire (e che ho mal espresso) è che questa fase è ben precedente a Platone, e può forse essere individuata nel periodo dei "grandi legislatori". Ad Atene, nel 7°secolo ac, è Draconte a sottrarre la giustizia alla sfera privata. Ma è successivamente Solone ad operare quella distinzione fra pubblico e privato che originerà lo "stato". Ed è in questo periodo che nascono le prime formazioni a carattere corporativo, che appunto Solone "regola" secondo una procedura in tutto e per tutto "politica" nel senso moderno del termine. Da notare, inoltre, che l'esempio greco segue di svariati secoli altri e pregnanti esempi (soprattutto in Mesopotamia). Quindi sì, fai senz'altro bene a ricordarmi che Platone è l'iniziatore della formalizzazione della politica a livello filosofico. Quello che, diciamo, inquadra la politica in una visione organica e che inizia quel percorso che porterà ad una de-divinizzazione della legge. Un percorso che però, io trovo, è ancora largamente incompleto in Platone (nelle "Leggi" è ancora chiaro il riferimento ad esse come emanazione divina), e che troverà la sua sistemazione definitiva solo con il Diritto Romano (Guido Rossi sostiene che l'atto fondante del Diritto Romano, e quindi del Diritto modernamente inteso, è da ricercarsi nel mito di Romolo, e precisamente nel "ratto delle Sabine"). Per venire al terzo argomento, quando dico: "il reale è la condizione oggettiva della società" mi riferisco alla analisi che fa la politica, non a quella che fa la filosofia. Al politico non interessano cose tipo il principio di indeterminazione o altre di questo genere. Al politico interessa esaminare le condizioni che rendono possibile la presa o il mantenimento del potere. Ed egli chiama queste condizioni "oggettive", perchè le distingue dalle soggettività che, come la sua, si disputano il potere. E vedo, dalla tua risposta, che sostanzialmente concordi con la mia tesi (che vado ripetendo dal primo post). Dunque quale ruolo per la filosofia politica? Io non sono così pessimista come sembri esserlo tu. Per me la filosofia politica può dire qualcosa di importante, e fosse solo per denunciarne, della politica, l'intrinseca sozzura. In un'altra risposta (non ricordo bene a chi, se a Paul11 o ad Acquario69) sostengo che uno dei motivi per continuare a fare filosofia politica è che essa sola abbraccia il "tutto" (quel che "è" e quel che "deve-dovrebbe essere"). Non la scienza politica (altrimenti detta "politologia"), perchè se la scienza ha come suo oggetto specifico le proposizioni descrittive (come da "rasoio di Hume", per così dire), allora ciò vuol dire che la scienza esaurisce il suo compito nel momento stesso in cui riconosce, della politica, quella volontà di potenza che si esplica nella volontà di acquisire o mantenere il potere. Non mi sembra affatto che la scienza politica contemporanea giunga a queste conclusioni. Mi sembra, anzi, che essa si trovi perfettamente a suo agio nel ruolo di cortigiana del potere. E questo è un altro buon motivo per continuare a fare filosofia politica: per smascherare il teatrino indegno che ci viene quotidianamente proposto, con tutta questa ridicola apologia di un "moderatismo" che null'altro è se non, appunto, il moderatismo dei cortigiani, che mai osano mettere in discussione i propri "mecenati". Ecco perchè, altrove (ma con un senso ontologico), dico che: "le volontà di potenza dominanti hanno individuato nella filosofia un possibile nemico, ed hanno fatto in modo che essa fosse sostituita dalla scienza, che è certamente più addomesticabile" (in quanto non si pone nella radicalità assoluta della domanda filosofica). ciao |
09-10-2013, 10.59.32 | #26 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Riempi i loro crani di dati non combustibili,
imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto sono pieni, ma sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione di movimento, quando in realtà son fermi come un macigno. Fahrenheit 451 La realtà politica -la politica “come è”- è il risultato dell’opinione di ogni singolo individuo per cui quando diciamo qual’è la nostra opinione in merito -se non siamo ipocriti e agiamo in coerenza- non stiamo affermando “ciò che dovrebbe essere la politica” ma stiamo esercitando politica: se non comprendiamo questo punto qualunque obiezione è pura retorica. "Quando una nazione sbaglia è nostro dovere e compito correggerla": questa è chiarezza e serietà di un uomo che esercita il diritto di essere uomo e di appartenere per merito alla razza umana. Cominciare a correggere i nostri di errori è nostro compito e dovere a partire da quelli individuali del credere di non avere voce in capitolo dando seguito al partito dei nullafondai assoggettati unicamente al limite mentale di immaginarci impotenti poiché singoli individui dimenticando che in tale solitudine veniamo al mondo e nel medesimo stato lo lasceremo. Il pensiero quando autenticamente pensato è già il novanta per cento dell’opera. Il restante coinvolge la volontà alla non inversione alla coerenza. La nostra filosofia ovvero la spina dorsale del nostro pensiero anima ogni più piccola nostra azione: questo è politica. Il resto è ipocrisia retorica. Ciò in cui realmente crediamo, inderogabilmente animiamo e diamo seguito, questo è politica. Quando saremo pronti ad autodeterminarci allora saremo vicini all’esser pronti per una società democratica. Non si dà peso alle piccole cose pensando erroneamente che non queste siano l’anima delle grandi azioni. Così ci si ritrova a condannare il movimento di un sistema soffiando nella medesima direzione. Ma quel sistema siamo noi, le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri numerosi consensi, le nostre limitate negazioni. Chiamare politica un’improvvisazione teatrale e non accorgerci che tutte quelle infinite posizioni assunte nel privato determinano nel totale ciò che incapaci di vedere in noi cogliamo di riflesso fuori, nello stato. |
09-10-2013, 14.13.26 | #27 | |||
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
Aggiungo che in realtà sia i rapporti parentali che l'ostracismo trovano ancora largo spazio nella società odierna, anche se in forma diversa da quella originaria. Il rapporto parentale non è più inteso sulla base di una parentela di sangue, ma di un' appartenenza comune di funzione solo entro la quale l'individuo può essere riconosciuto, mentre l'ostracismo è la marginalizzazione psicologica e sociale prevista per chi non si adegua con tutte le sue capacità ai dettami del pensiero unico. In questo senso vediamo che nella società attuale quello che un tempo erano le strutture parentali e l'ostracismo risultano in realtà oltremodo enfatizzate e non cancellate dalla depersonalizzazione. Citazione:
"Platone è l'iniziatore della formalizzazione della politica a livello filosofico." Citazione:
Ma se è così al filosofo che resta da fare, una volta che ha svelato la volontà di potenza nascosta sotto ogni politica anche la più apparentemente moderata e corretta? O si adegua, come in genere fa, riproponendosi al politico come mezzo per realizzare la volontà di potenza politica usando più efficaci mascheramenti, o si ritira nella sua stanzetta accademica sempre più ristretta autoconvincendosi filosoficamente della sostanziale piacevole inutilità della filosofia come trastullo per la mente, oppure nega quella stessa volontà di potenza e ciò che ne sta alla radice, fosse pure la convinzione più fondamentale del mondo. Altre strade non ne vedo. |
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10-10-2013, 20.53.52 | #28 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Condivido l'assunto per cui la scienza lavora per l'utilità, l'efficienza e l'efficacia. Solo che, io penso, ci si scorda colpevolmente che l'utilità, l'efficienza e l'efficacia non sono categorie relative alla finalità, ma al mezzo che si adoperà per raggiungere una certa finalità. Agli antichi greci era pressochè sconosciuto un concetto della giustizia che prescindesse dall'utilità. Nel dialogo fra Socrate e Trasimaco quest'ultimo dice: "la giustizia è l'utile del più forte", e a questa affermazione Socrate risponde: "no, essa è l'utile del più debole". Ecco messa chiaramente in luce la non-neutralità del concetto di "utilità", e se esso non è neutrale allora dovremmo chiederci per l'utilità di chi lavora la scienza; a vantaggio di chi è rivolta la sua efficienza e la sua efficacia (come mi sembra palesemente emergere dall'aneddoto di Stiglitz che ti ho raccontato). E' senz'altro vero che l'uomo ha la possibilità di cambiare le "regole del gioco" (un gioco, quello degli animali, che corrisponde alla concezione di Trasimaco). Socrate, infatti, le cambia. Senonchè, successivamente, ad opera soprattutto dell'empirismo anglosassone, si è affermata un'idea dell'utilità come un'idea neutrale; come un'idea che prescinde dalla domanda: "utilità per chi?" Dice Hume: "l'utilità ed il fine della giustizia - qui vediamo chiaramente che Hume intende l'utilità come termine finale, e perciò neutrale - è di procurare la felicità e la sicurezza conservando l'ordine nella società". Facile l'obiezione: ma di quale ordine parliamo? Di quale felicità e di quale sicurezza? A me sembra che una mancata risposta a queste domande sottintenda (necessariamente) l'ordine, la felicità e la sicurezza del "forte", (visto che è assai difficile per la pecora sovvertire l'ordine che la vede nel ruolo di preda per il lupo). Questa concezione di una utilità neutrale, di una efficienza e di una efficacia dai cui orizzonti scompare la fondamentale domanda: "per chi?" è, oggi, attualissima. Ed è particolarmente solida, visto che si è rivestita dei panni della scientificità. C'è anche un altro, basilare, concetto della filosofia empirista anglosassone che ha oggi trionfato: quello per cui l'utile individuale coincide con l'utile della collettività (Stiglitz, in un ciclo di lezioni ad Harvard, ha mostrato come questo concetto abbia un fondamento metafisico). Quindi trovo inesatto riferirsi a un'ipotesi di equilibrio-squilibrio per quanto riguarda il rapporto fra interesse privato e bene pubblico. In realtà, l'empirismo anglosassone non distingue proprio fra interesse privato e bene pubblico. Quante volte avrai sentito dire: "i ricchi reinvestono le loro ricchezze, e creano così lavoro per tutti"? Quante volte avrai sentito decantare le meraviglie della privatizzazione dei beni pubblici? Ecco, questo concetto è così profondamente penetrato nell'inconscio di tutti che nemmeno ci rendiamo più conto della sua origine, e quando ci troviamo davanti ai capitali esportati nei paradisi fiscali o al fallimento delle politiche sulla privatizzazione (che hanno quasi sempre creato monopoli privati, con scadimento del servizio offerto ed aumento delle tariffe) l'unica reazione che abbiamo è di pensare che qualcosa di "accidentale" non abbia funzionato a dovere. Quindi no, non è questione politica, né tantomeno è questione di polizia giudiziaria. O meglio: lo è in quanto nel nostro paese le regole sono intese come un qualcosa che solo i fessi rispettano, ma sarebbe oltremodo sbagliato pensare sia solo un problema di regole non rispettate. Non è certo per caso che il paese dei furbi (cioè dei fessi che si credono furbi) sia oggi diventato quello più all'avanguardia nell'applicazione delle ricette economiche reaganiane e thatcheriane (chi vuol riflettere rifletta...): l'italico furbone si trova perfettamente a suo agio senza i "lacci e lacciuoli" (l'espressione, se ben ricordo, è di Reagan) rappresentati dalla regola giuridica. Mi spiace per chi di voi è ancora giovane, ma questo paese non ha più alcuna speranza. ciao |
11-10-2013, 22.22.29 | #29 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Non credi che, a questo punto, sia più che opportuna una riflessione sui concetti di interesse individuale e interesse collettivo? Come accenno nella risposta a Paul11, oggi mi sembra che abbia trionfato la concezione, tipicamente anglosassone, di un interesse individuale che coincide con quello collettivo. Per cui mi sembrerebbe il caso di cercare di analizzare innanzitutto se questo corrisponde alla verità, e poi, eventualmente, come ciò determini, o condizioni, i fatti politici. E poi ancora come si metta in rapporto con strutture politiche e sociali (financo religiose, come nel caso del cattolicesimo) nelle quali è ancora forte il concetto del "bene comune" (forte e nettamente distinto dall'interesse individuale). Se questo punto di vista fosse corretto, perderebbe di senso una definizione della politica (che comunque non condivido, o che condivido non come "essere", ma come "dover essere") come giusta gestione del bene della comunità, non credi? Citavo, nella risposta a Paul11, Stiglitz e il ciclo di studi (denominato "Trickle and down" - praticamente intraducibile) tenuto ad Harvard, nel quale il famoso economista formula una critica quasi filosofica a questo caposaldo del liberalismo, arrivando a formulare una origine metafisica del concetto (non che fosse complicatissimo arrivarci...). Per venire alla chiusa dell'altra risposta, no, io non credo che l'uomo sia necessariamente "lupo"; ma credo che lo sia, e lo sia stato, molto spesso. Sostanzialmente, come Kant, io credo che l'uomo sia tendenzialmente un "legno storto", che trova però nella società la possibilità di raddrizzarsi (secondo il detto: "vizi privati pubbliche virtù"), o quantomeno trova opportuno far finta di raddrizzarsi (non che mi interessi la forma, diciamo, quanto il contenuto...). E' piuttosto dal concetto di "provvidenza", così fondante per la filosofia anglosassone, che si sviluppa l'idea di un uomo antropologicamente buono; così buono da far si che il suo interesse privato coincida con quello della collettività (è questo, in estrema sintesi, il nucleo metafisico che Stiglitz individua). Sull'ultima tua notazione è bene però che io sia un pò più chiaro. Ribadisco che sotto ogni potere politico si cela la volontà di potenza. Però sbaglieremmo grandemente ad equiparare il governo di un padre a quello di un "fuhrer". E' vero che l'atto primo di ogni politico (la presa o il mantenimento del potere) è un atto che pre-suppone necessariamente una volontà di potenza (quello che ho chiamato "peccato originale"), ma è altrettanto vero che un "ontologismo" che appiattisca ogni differenza sulla volontà di potenza non solo non è saggio, ma neppure pensabile razionalmente. In un simile contesto, il compito della filosofia politica è quello, fondamentale, di "riconoscere"; di riconoscere ciò che "è", ciò che "deve essere" ma non solo: anche ciò che "può essere". E il ruolo della filosofia non può essere quello della scienza politica (che è necessariamente cortigiana del potere), ma "è" ciò che "deve essere" NEL "poter essere": uno "sguardo totale" AL mondo (è quello che ammette un bravo politologo come G.Sartori, che dice espressamente che la sua analisi non può spingersi oltre un certo limite). E pazienza se questo vorrà dire ritirarsi in una stanzetta a contemplare la piacevole in-utilità del filosofare: solo chi si è illuso può rimanere deluso. ciao |
11-10-2013, 22.39.41 | #30 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Gyta
Affermazioni, le tue, condivisibili ma/se pre-supponiamo che l'oggetto è una creazione del soggetto. Se, ovvero, ci poniano in un'ottica idealista ci sono buonissimi motivi per condividere quel tuo "pensiero autenticamente pensato" (e pensare che esso sia non il 90% dell'opera, ma il 100). Hegel (mica uno qualsiasi...) sarebbe entusiasta delle tue parole. Ma, appunto, è Hegel che bisogna accettare prima di poterle condividere (e per me, kantiano convinto, non è per nulla semplice). ciao |