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05-10-2013, 10.05.46 | #13 | ||
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
Il punto è a mio avviso che quel "reale" su cui vuole fondarsi la realpolitik, ossia le condizioni vere di contesto che determinano l'azione appropriata, nel momento stesso in cui affiora è da un lato falsato dal suo stesso specifico definirsi, e dall'altro inverato dal suo emergere e questo il politico deve saperlo e la filosofia politica ricordarglielo. Infatti se è l'emergere che invera, è la volontà di potenza che fa emergere che rende vera una situazione, ma nello stesso tempo poiché la volontà di potenza mira al controllo della verità essa, definendola per controllarla, rende falsa la realtà emersa. Quando scrivi: Citazione:
D'altro lato anche l'idea dell'utopia come scopo radioso dell'azione politica è affermazione quanto mai moderna della volontà di potenza che trova la sua efficacia in se stessa, ossia nella sua ferma volontà di fissare da sé stabilmente la sua base realistica per non ridursi a una traballante inconcludenza, mentre il compromesso tanto amato dalla realpolitik è proprio quel furbo adeguamento che moltiplica in efficacia la volontà di potenza. Dunque resta indubbio che tutta l'azione politica è azione guidata dalla volontà di potenza autoreferenziale che vuole al suo servizio forti da premiare e deboli da scartare, quindi l'azione politica è fondamentalmente nichilistica e non riparo dal nichilismo, anche se è oltremodo proficuo alla volontà di potenza che la ispira illudere continuamente di sempre nuovi e più robusti ripari al nichilismo di cui è completamente intrisa. Eppure mi viene da chiedere se invece di pensare a una filosofia che tende alla politica dunque a quel gioco di potere espresso da un governo che pare una necessità naturale primaria provassimo a pensare a una politica che tende alla filosofia, ossia alla necessità naturale primaria di un eterno gioco di verità in cui non è in questione la sola verità che deve governare (che alla fine lo sappiamo è sempre la volontà di potenza che vuole l'essere niente di ciò che è), ma la contemplazione e la preservazione dell'apparire del gioco stesso non riusciremmo a fregare la volontà di potenza e il suo così vincente quanto devastante nichilismo anche se mascherato da realpolitik? |
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05-10-2013, 22.38.01 | #14 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Io non credo che la filosofia politica cerchi, o abbia cercato (visto che sembrerebbe opportuno parlarne al passato), di costruire degli a-priori. Non che, naturalmente, essa non sia, spesso o talvolta, arrivata a decretare degli a-priori. Ma non ritengo che la costruzione degli a-priori sia il suo tratto distintivo; quel tratto cioè che la distingue dalle scienze politiche. Piuttosto a me sembra che sia la scienza politica a poggiare saldamente su di un a-priori: quello della "razionalità", dell'"efficienza" assunte non come mezzo, ma come fine. E' notevole, io trovo, il tuo tracciare un parallelismo fra l'elettore ed il consumatore. Come giustamente affermi, non si tratta di esprimere giudizi di valore, ma di capire cosa è successo. Oggi tutto viene ricondotto al cosiddetto "economicismo". Incuranti del fatto che l'economia "è" lo studio dei mezzi più efficienti per raggiungere un fine (posto politicamente - come dalla definizione classica di Lionel Robbins, un economista non certo accusabile di anti-economicismo), si è elevata la razionalità economica ad un livello, direi, ontologico. Tuttavia, visto che il fine non può certo scomparire, ma solo obliarsi, celarsi, esso rimane sullo sfondo come un non-considerato. Ma rimane. Mi piace citare, a tal proposito, quanto afferma J.Stiglitz: "non riuscivo a spiegarmi (Stiglitz parla del tempo in cui era vice presidente della Banca Mondiale) il perchè si assumessero decisioni che a me parevano irrazionali. Un giorno ebbi una specie di illuminazione: erano degli interessi ben precisi che si stavano perseguendo". E allora è questa la domanda che io "rilancio": l'affermarsi della razionalità economica oltre il suo "naturale" ruolo di mezzo non costituisce forse l'a-priori sul quale si regge la stessa definizione di "scienza politica"? Illuminante, a mio parere, è anche l'analisi filosofico-giuridica di quello che è chiamato "formalismo", e che vede in Hans Kelsen il suo più significativo rappresentante (cito questo in un altro post, ma mi sembra più che opportuno un richiamo anche in questa sede). Kelsen intende formulare una "scienza giuridica", e ipotizza una serie di normative basate su criteri di efficienza e di razionalità. A un certo punto però Kelsen è costretto a chiedersi: "efficienti e razionali in relazione a che cosa?" Ecco allora che egli ipotizza una norma fondamentale ("grundnorm"); una specie di norma "costituente" in relazione alla quale la serie di normative assumerebbero i caratteri di efficienza e razionalità. Evidentemente egli nulla può dire circa l'efficienza e la razionalità della "grundnorm", che egli definisce semplicemente come "data", come "posta". Eccolo dunque, concreto ed immanente, il "fine": chi dà, chi pone, la "grundnorm"? Così come: di chi sono gli interessi di cui parla Stiglitz (in relazione ai quali le decisioni della Banca Mondiale sono efficienti e razionali)? Ma non c'è solo questo. Anche quando parliamo di razionalità ed efficienza in relazione ai mezzi dobbiamo fare una importantissima distinzione: non c'è UNA sola razionalità, UNA sola efficienza del mezzo. Se, ad esempio, io devo andare a Milano deciderò con quale mezzo andarci. Se, magari, io sono un manager che ha molti soldi e poco tempo tempo a disposizione sceglierò l'aereo. Ma se fossi uno squattrinato con pochi soldi e molto tempo a disposizione potrei, razionalmente, scegliere di andarci in autostop. Questo non è solo un esercizio retorico. Questa è, in nuce, anche la critica che P.Krugman porta a quella "ontologizzazione" del mezzo oggi tanto in voga (la razionalità del mezzo come univoca: le stesse "ricette" - più privato, più mercato - per qualsivoglia situazione). La verità, a parer mio, è che si è davanti ad un qualcosa di proporzioni spaventose. Una cecità, forse, senza precedenti, che ci sta conducendo davvero ad un punto di non ritorno. Questo qualcosa ha un nome ben preciso: si chiama "scientismo", e consiste nell'arbitraria estensione dei precetti della scienza ad ogni ambito. Alle volontà di potenza dominanti questo stato di cose sta bene, perchè non mette in discussione il loro diritto a dominare. La scienza non può riflettere su stessa (perchè una tale riflessione esulerebbe dai suoi confini, cioè non sarebbe "scientifica"), e quindi non può riflettere su di un fine "dato" al di fuori di essa. Nello stesso tempo, non può assumere su se stessa quell'indeterminazione di cui parlava Heisemberg. Perchè, basandosi essa sull'efficienza (oltre che sulla razionalità), tale efficienza ne sarebbe inficiata. A questo secondo aspetto, ma solo a questo, la scienza risponde con il dato statistico. Ecco allora che il mezzo più efficiente per andare a Milano diventa quel mezzo che è più efficiente per la maggioranza delle persone. Ma ciò vuol semplicemente dire che non è la politica ad essere diventata scientifica, ma è la scienza ad essersi politicizzata. Le prime e più ingenue forme moderne della democrazia (posso cercarti le esatte diciture) la definivano infatti come: "la maggior felicità per il maggior numero di persone". Ma, se è lecito chiederlo: che fine fanno le cosiddette "minoranze" in una tal visione della democrazia? Già, perchè il problema della tutela della minoranza comincia subito a delinearsi come problema centrale della democrazia (la "dittatura della maggioranza" è il problema che solleva già A.De Toqueville). Ma allora, "filosofando", potrei chiedermi: e se il mezzo per andare a Milano che è più efficiente per la maggioranza non fosse più efficiente per me? Dovrei usarlo comunque? E se non lo usassi sarei tacciabile di "irrazionalità"? Qui mi fermo. Ci sarebbero tante (ma tante) altre cose da dire. A cominciare dalla metafora dei polli di Trilussa, che spiega alla perfezione come la statistica funziona. ciao |
06-10-2013, 01.28.34 | #15 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Vorrei conoscere meglio la realtà di questi Nuer... Di società egualitarie ne abbiamo viste tante, meno ne vediamo adesso. Tutte però esprimevano, bene o male, un "capo". Persino nelle comunità dei figli dei fiori emergeva sempre la figura di un "guru". Vero è che le società egualitarie sono sempre state società violente (la comunità dei figli dei fiori non fa testo, perchè appunto "comunità", e non "società"). E' il "guerriero" che non si piega facilmente al comando esterno (o che, perlomeno, accetta il comando, ma senza prostrarsi). E comunque, Fini dovrà aspettare un bel pò prima di vedere sorgere negli italiani un barlume di sentimento egualitario... Per come io la intendo (l'insieme delle forme e dei contenuti di governo), la politica accompagna necessariamente ogni fase della civiltà umana (Nuer compresi se, come presumo, hanno una forma e un contenuto di governo). Posso comprendere come quella mia: "distinzione fra chi comanda e chi è comandato" sia una affermazione molto netta, che non tiene conto delle innumerevoli sfumature che il potere politico assume, ma il comando è il comando, e non ritengo proficuo (in questa sede) distinguere fra il comando di un "fuhrer" e quello di un "padre" (anche nella famiglia vi è una forma e un contenuto di governo). Io non direi che la filosofia politica (per come tu sembri tratteggiarla) nasca con Platone. Nasce, semmai, nel periodo cosiddetto dei "grandi legislatori", ovvero quando emerge la necessità di sottrarre all'ambito familiare la gestione della giustizia (nasce, ovvero, nel passaggio dall'"oikos" alla "polis"). Potremmo allora dire che non è la filosofia politica, ma è la "religione politica" (le leggi sono originariamente di origine divina) ad assumersi l'onere (e l'onore...) di rimediare allo sconquasso provocato dall'emergere dei primi interessi "corporativi". E la legge rimane divina almeno fino al mito di Romolo, che fonda uno "ius" basato sulla volontà di potenza (ecco perchè il Diritto Romano è sempre così attuale). Da un certo punto di vista, potremmo dire che la filosofia politica è una "nottola di Minerva", che si alza sempre in volo a cose fatte (ecco perchè Platone rimane deluso dall'esperienza politica: perchè il "reale" precede sempre l'"ideale"). Questo però non vuol dire che del filosofo politico non c'è bisogno. Il ruolo del filosofo, e dunque del filosofo politico, non è il ruolo del "creatore" (nel mito di Romolo il creatore è Celer lo sgherro, cioè sono la violenza e la velocità a "creare", non la lentezza della riflessione), ma è il ruolo di colui che sottopone a critica ciò che già è stato "creato". Da questo punto di vista non potrà mai esserci il "governo dei filosofi" vagheggiato da Platone; mai nessun filosofo deciderà chi comanda chi. ciao (ho risposto alla prima delle tue risposte) |
06-10-2013, 15.07.32 | #16 | |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
L’imperativo categorico è un apriori quanto lo è il noumeno o l’essere della metafisica. Sono gli svolgimenti delle argomentazioni che validificano o meno quei principi, che non sono dimostrabili. In verità è sempre l’evidenza che vince perché la vita nella mondanità quotidiana, se stiamo discutendo di politica è soprattutto pratica, dove si utilizza anche involontariamente su molte scelte “il rasoio di Occam”. Ma il problema vero è quale compito ha la filosofia, non solo nel ramo della filosofia politica.. Perché è qui che ha vinto la scienza, come capacità di rispondere alla pratica, essendo più “plastica “ e dinamica lavora per tentativi traendo immediatamente dalla pratica degli effetti la spinta per cambiare le proprie teorie. Ma questo procedere della scienza è “avvitamento” sulla propria teoria del modo di procedere, svincolata dagli apriori delle filosofie, non essendo così “rigida” nelle sue architetture teoriche che ormai hanno accettato assiomi e tautologie relativizzate. Il risultato che noi viviamo in mezzo alle opinioni e vince l’opinione che ha un’immagine retorica ,capacità di persuasione, più forte di altre. Il risultato è il conforto teorico oppure la ricerca di un nuovo procedere, ma sempre per opinioni. Se la filosofia è rigida e la scienza è dinamica ,vince chi riscuote ,anche qui, maggiori consensi popolari.: proprio come gli indici di ascolto televisivi . La filosofia se non parla di vita reale è fuori dalla storia ormai.. E parecchi filosofi nel Novecento come lo stesso Levinas smettono di parlare di essere per parlare di esistenza. E lo dico con sgomento dal punto di vista personale. Perché non è compito della scienza costruire principi morali ed etici, regole di convivenza, approcci all”altrui”uomo specchio del me stesso e cultura. Questi sono i compirti della filosofia che a sua volta si è persa nei rivoli di discipline in subordine ai principi apriori. Quanto concretamente è credibile la Gioa finale di Severino nelle gabbie delle costruzioni logiche delle teorie metafisiche? Ma quanto meno la sua teoria ha una escatologia interna, un destino, ma non è legata all’uomo. L’uomo vi appare come trascinato in subordine, nno come agente fondamentale del cambiamento. Il marxismo ad esempio ha una sua escatologia che nasce dall’analisi del materialismo storico collegando il mondo della produzione alla divisione sociale e quindi alla sociologia, che attraverso una lotta di classe arriva ribaltare il sistema per arrivare a quel comunismo egualitario di giustizia sociale. E’ potente. Perché negli animali più evoluti che vivono socialmente in branchi ,il massimo è sfidare i l capobranco e sostituirlo. Ma a nessuno viene in mente fra gli animali di cambiare “le regole del gioco”..Questa è una profonda differenza “mentale” fra uomo e animale. Quando in quello che in teologia viene definito kerigma appaiono le seguenti parole: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per mettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. … Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" » (Luca, 4, 18-19.21) Lasciamo stare il discorso religioso che in questa discussione non vi entra , ma leggiamo le parole del messaggio E’ potentissimo. La filosofia ha il compito di dare quella capacità di trascendere la propria condizione umana, di dettare destini di speranza e non vuoti sensi logici, perché nella filosofia politica quella morale che Kant giustamente inserisce come apriori nell’imperativo categorico, perché nno può dimostrare ciò che è già evidente nell’uomo che ha sentimenti e motivazioni che lo rendono imponderabile anche alle scienze moderne(che solo gli amanti delle statistiche possono pensare ponderabile, quella stessa disciplina che se una persona ha la testa in un forno e il sedere in un frigorifero mediamente sta bene)ma che le stesse scienze “plasmano” sugli effetti rendendolo psicologicamente fragile, materialmente precario ,e socialmente atomistico per circoscriverlo e annichilirlo agli scopi e usi delle economie e delle politiche ciniche dell’autoreferenza e autogratificazione del potere esistente. Il filosofo ha il compito di sfidare la storia, nno solo di narrare il passato, perché deve dare all’umanità intera quella centralità che è stata spodestata da quelli che inizialmente erano strumenti epistemici, le logiche e le scienze. E deve”sorvegliare” sui principi morali che regolano lo stato, che prima era di natura poi divenne sociale e oggi è stato politico per definizione. |
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06-10-2013, 23.33.29 | #17 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Acquario69 e Maral
La politica non si sottrae ai mutamenti nel momento in cui questi mutamenti riguardano la società (cioè riguardano il reale). E' d'altronde vero che, come dicevo, la politica non può solo e sempre seguire la "pancia" (ma la segue sempre di più, come possiamo constatare quotidianamente); ma, se "seria", deve indirizzare la società verso più "alte e nobili" finalità, per così dire. Non riesco piuttosto a capire adeguatamente il tuo riferirti (di Acquario) ad un reale che non è più tale (ma che diventa "virtuale"). Per la mia interpretazione filosofica la distinzione fra reale ed ideale (potremmo anche dire fra essere e dover-essere) è netta. Ma Maral mi chiede appunto in cosa consiste questo reale. Il reale è la condizione oggettiva della società. E la politica è, in quanto tale, "realpolitik" (e non perchè la politica abbia la possibilità di essere un qualcosa di diverso). L'analisi che la politica esegue della società non è l'analisi che della società esegue la filosofia. Il metodo che essa segue è appunto intuitivo (sì, il celebre "fiuto"). Berlusconi (ma potrei fare una miriade di esempi diversi), nel 94, scese in politica non solo comprendendo il "vuoto" che aveva lasciato la DC con la sua dissoluzione, ma anche comprendendo che la società italiana voleva un paradigma del tutto diverso da quelli visti fino allora; voleva un atteggiamento diverso; voleva un linguaggio diverso. Non è possibile sapere fino a che punto la sua fosse buonafede (fino a che punto egli pensasse alla necessità di una nuova rappresentanza politica), o fino a che punto la sua fosse malafede (la ricerca del potere politico fine a se stesso). E' invece possibile sapere che la sua analisi della società italiana fu azzeccata. Tant'è che ottenne da subito un vistosissimo consenso elettorale. All'estremo opposto, le BR fallirono, durante gli anni 70, nel loro tentativo di innescare la rivoluzione. Ma fallirono innanzitutto perchè non compresero la realtà della società italiana (il loro tentativo di inserirsi nelle fabbriche fallì subito, ma ancora questo non li indusse a ripensare la loro strategia); una società che non voleva fare nessuna rivoluzione. La politica non si muove sugli stessi binari della filofia. La sua valutazione è "quantitativa", non "qualitativa" (in politica si dice che i voti si contano, non si pesano...). E l'esattezza delle sue proposizioni si misura con un solo metro: quello dell'efficacia (cioè del successo). In base a ciò, concordo sostanzialmente con l'affermazione per cui l'azione politica è azione guidata dalla volontà di potenza, anche se credo che questo non significhi necessariamente che essa sia fondamentalmente nichilistica. Dicevo appunto che la politica ha una specie di "peccato originale" da scontare (la presa del potere politico come atto primo e necessario). Il fatto, crudamente sintetizzato da Machiavelli, che: "le lettere seguon sempre drieto all'arme" è l'esplicazione più chiara di tutto ciò. E' d'altronde dall'inizio di questa discussione che vado dicendo circa la necessità di "sbattere in faccia la realtà", di prendere atto della intrinseca "sozzura" della politica. Ma che fine fa, allora, la filosofia politica? Può, essa, dire ancora qualcosa di importante? Io credo di sì, e non fosse altro se non per denunciarne, della politica, l'intrinseca natura; per smascherarla dallo spesso velo di ipocrisia che l'avvolge. Guardate, ad esempio, all'oggi. Si fa un grande apologia dei "moderati"; si denuncia come estremista chiunque osi pronunciare una sola parola contraria al "verbo" dominante (che è quello del "mercatismo", o "economicismo" che dir si voglia). Ma chi sono, veramente, i "moderati"? Forse che la "moderazione" consista nell'assenza di qualsiasi forma di critica al "sistema"? Io credo di sì. Forse che la "moderazione" consista nel teatrino ipocrita che vuol farci credere che non ci sia un "dominium"? Credo di sì anche in questo caso. un saluto |
07-10-2013, 05.59.54 | #18 | |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
quella che a mio avviso viviamo oggi non e' la realtà ma la sua caricatura,viviamo cioè' nella menzogna. tra noi e il reale si e' creata una distanza tale che tutta l'angoscia esistente (escludendo quella congenita alla natura umana) e il senso di vuoto che ne consegue può essere ricondotta a questo fondamentale motivo. di esempi,anche molto pratici in questo senso me ne vengono tantissimi…io credo che ce ne possiamo rendere conto anche in considerazione dello stile di vita attuale di ognuno di noi,poiché ritengo che riguarda tutti indistintamente.. innanzitutto siamo più isolati,proprio a partire dalla comunicazione,che e' diventata quasi solo virtuale..le stesse relazioni ora nascono dai social network e sempre di più nelle giovani generazioni,essendoci proprio nati in questa dimensione e che secondo me poi faticano a concepire come sia possibile un modo diverso di approcciarsi e relazionarsi..che nei miei ricordi era decisamente piu ricco e tangibile. mi torna alla mente un episodio di una ragazzina di 14 anni che si suicida http://www.ariannaeditrice.it/artico...articolo=44846 perché la sua vita era ormai "vissuta" e concepita solo all'interno del virtuale.. ma a parte questi esempi che forse devierebbero a un altro tipo di discorso,credo pur sempre legato a questo,quello che e' a un certo punto e venuto a mancare e' la consapevolezza nel saper distinguere cio' che e' reale da cio' che e' la sua mistificazione.. fai l'esempio di berlusconi che ha avuto il "merito" di saper sfruttare il suo intuito politico,che era percio' rivolto al cosiddetto reale…e' vero ma allo stesso tempo proprio qui secondo me ci sarebbe stato l'abbaglio,poiché il suo intento non era quello di confrontarsi al reale (così ritenuto tale dalla attuale politica) ma quello di adottare la finzione allo scopo di occultare e stravolgere la realtà,quella autentica.. se arriviamo a pensare che quella sia la politica nella sua strategia allora vuol dire che non riusciamo più a distinguere il vero dal falso e anzi a capovolgerne i fattori,così quella che dovrebbe rivelarsi un servizio reso alla comunità,come la politica credo andrebbe intesa,anche all'origine,ne viene ribaltato il suo senso stesso. non che l'avvento di berlusconi sia venuto fuori così all'improvviso,ancora prima venivano a maturarsi quelle condizioni ideali che gli avrebbero consentito la sua famosa discesa in campo,perché il terreno era gia stato preparato almeno una quindicina di anni prima e quando era ormai fertile la "realtà" che si era venuta configurandosi gli avrebbe poi consentito un sicuro successo,come poi infatti avvenne. mi viene in mente ad esempio che negli anni precedenti,a partire dagli anni 80 ce' stato da parte sua (e secondo me,ancora prima,da una certa elite,a cui lui stesso era dipendente e di cui solo ora riusciamo a intravederne l'entità) tutta una serie di intensi messaggi mediatici,volti a rappresentare una falsa realtà che nella mente delle persone ha finito per essere raffigurata come tale…anni e anni di persuasione hanno finito poi per renderci assuefatti a parametri atti a plasmare e a costruire una "realtà" funzionale solo agli interessi superiori..i fautori di questi interessi a loro volta sono gli stessi che nella loro paranoia hanno distorto in se stessi il senso del reale,trascinandoci con estrema inconsapevolezza e cinismo nel baratro attuale. quindi secondo me non si tratta solo di saper far distinzione fra reale e ideale (la pancia e l'utopia) ma ancora piu urgente a quello della stessa sopravvivenza. Ultima modifica di acquario69 : 07-10-2013 alle ore 11.33.00. |
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07-10-2013, 14.33.00 | #19 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Non intendevo dire che la filosofia politica non costruisce degli a-priori, ma intendevo dire che la costruzione dell'a-priori non è in essa necessario; non costituisce il suo tratto distintivo nei confronti della scienza. Dicevo che, anzi, è la scienza che si fonda su di un a-priori (e non lo sa, o finge di non saperlo...). Ritengo, da questo punto di vista, che la scienza sia impossibilitata a riflettere su concetti come quelli di "efficienza", di "razionalità" (non vi può riflettere, perchè essi rappresentano il suo fondamento; perchè essi sono l'"evento" originario da cui essa sviluppa la sua catena di significanti e di significati), mentre la filosofia politica non ha un tale impedimento, in quanto capace di riflessione "radicale". E com'è possibile (ammesso che quanto affermo sia "giusto"), per la scienza, essere "plastica", "dinamica", lavorare per tentativi traendo dalla pratica la spinta per cambiare le proprie teorie? Risponde forse a criteri di dinamicità quella politica economica che FMI, BCE e diavolerie varie suggeriscono ai paesi più vari onde far fronte alle loro crisi economiche ("la stessa ricetta per qualsivoglia situazione", dice Krugman)? Risponde forse a criteri di dinamicità quel "monolite" che Kelsen chiama "grundnorm", e che nelle sue intenzioni dovrebbe fungere da norma-base per successive norme giuridiche improntate ai criteri di efficienza e razionalità? Io, questa dinamicità, questa plasticità, non la vedo. E non la vedo né teoricamente (dal punto di vista filosofico) né praticamente (nelle politiche che vengono attuate). Piuttosto, mi incuriosisce quel tuo riferirti al mondo animale come a un mondo "statico". E' vero, a nessun animale viene in mente di cambiare le "regole del gioco", però agli umani è venuto in mente di far diventare quelle "regole del gioco" un "gioco delle regole" (come dal titolo di un saggio di Guido Rossi). Una regola (Rossi, chiaramente, si riferisce alla regola giuridica) si può cambiare, ma si può cambiare solo in riferimento ad un'altra regola (quante volte, e a proposito, sentiamo dire: "non si cambiano le regole in corsa"...). Mentre qui la regola è, appunto, diventata un gioco; un gioco al quale ognuno gioca secondo l'unica regola riconosciuta: quella della propria (volontà di) potenza. Non senza un velo di ironia, mi verrebbe da dire che almeno gli animali giocano a carte scoperte... ciao |
07-10-2013, 14.46.03 | #20 | ||||
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Ce li ha descritti l'antropologo Evans Pritchard che visse presso di loro circa un anno (in una zona dell'Africa che per un occidentale è un vero inferno, mentre per i Nuer è - o forse era- il paradiso). La loro non è una società egualitaria, vi è una certa divisione in classi che deriva da un differente prestigio di lignaggio parentale, ma senza che questo comporti alcuna gerarchia di governo. Tutti, indipendentemente dal prestigio di cui godono, svolgono gli stessi compiti (in primo luogo la cura del bestiame) e non tollerano gli ordini da chiunque vengano impartiti, anche se di miglior lignaggio. L'idea che noi Occidentali non solo accettiamo di ricevere ordini, ma addirittura paghiamo qualcuno per darceli ci rende disprezzabilmente ridicoli agli occhi dei Nuer. E' gente molto orgogliosa, suscettibile e poco avvicinabile, la loro società si basa su rapporti di parentela allargata multi livello, l'equilibrio prestabilito tra questi livelli (nucleo di capanne, villaggio, villaggi confinanti, tribù ecc.) è ciò che ne garantisce la stabilità. Esistono alcuni funzionari per le profezie, i riti sciamanici e per proporre (senza mai imporre) soluzioni di conciliazione tra parti in lite onde prevenire o fermare le faide, ma questi funzionari non godono di alcuna autorità di fatto, la parte in causa è sempre libera di decidere se accettarne o meno i suggerimenti. Non c'è alcun "capo" che dà ordini, se si vuole ottenere qualcosa da un Nuer, occorre chiederglielo come si chiede un favore a un fratello o un parente. Può invece esserci un profeta che gode di grande autorevole prestigio e per questo viene ascoltato, ma non ubbidito come autorità. Gli stranieri sono disprezzati, ma possono essere invitati dalla comunità nel villaggio, addirittura quelli catturati nel corso delle razzie di bestiame vengono assegnati alle famiglie di chi li ha catturati e ne diventano parte come figli. Questo fa sì che ci siano numerosi lignaggi stranieri nelle comunità Nuer, che godono di identici diritti e doveri e dopo 2 o 3 generazioni nessuno li distingue più dagli autoctoni. E' sicuramente una società semplice e violenta a livello individuale, ma temo che la nostra, super strutturata, gerarchicamente complessa e competitiva spesso ai limiti del delirio lo sia molto di più a tutti i livelli. Citazione:
Sinceramente non vedo chi altri più di Platone abbia megli formalizzato la politica a livello filosofico: "La Repubblica" è il suo dialogo fondamentale esplicitamente ed implicitamente politico. Oltre la descrizione della Polis ideale, lo stesso mito della caverna e la descrizione dell'anima esprimono significati profondamente politici che forse agli occhi contemporanei, tanto abituati a tenere tutto separato, possono sfuggire sebbene evidentissimi. E' un dialogo di filosofia politica anche l'Apologia di Socrate con il suo richiamo al senso vero delle leggi, al ruolo che esse rivestono per la comunità sociale che le istituisce (non più un dio quindi). Platone è un grandissimo filosofo politico, senza dubbio il primo che possa definirsi tale. La concezione della politica alla nascita delle città è quella illustrata da Menenio Agrippa ai Romani nel celebre apologo, finalizzata al buon funzionamento sociale (attraverso la gestione giusta delle risorse soprattutto se in eccedenza senza che si debba rinunciare alle eccedenze come si faceva a suo tempo in alcune aree del mondo con il potlatch rituale) come la medicina è finalizzata al buon funzionamento del corpo ristabilendone i giusti equilibri armonici. Il corpus del diritto ha quindi la funzione di essere come un prontuario medico, funzione che si estende sempre di più fino a rendere il filosofo platonico, sapiente di politica sempre meno necessario. Alla fine basta il prontuario (simulacro di oggettività) con i necessari commenti interpretativi a chiosa. Citazione:
Citazione:
Non è un caso che tutti i rivoluzionari dai Giacobini ai Bolscevichi e oltre comincino con l'essere presi a bastonate dalla polizia e finiscano sempre con il chiamare la polizia a difenderli mentre le bastonate le danno! Questa è la logica della politica che nasce come utopia e finisce come realpolitik: una realpolitik che insegna sempre e solo che le bastonate è meglio darle che prenderle, punto di arrivo quanto mai realistico, altro che le storielle di Platone e quanti altri sul bene comune e sull'armonia sociale! La filosofia non serve alla politica, serve solo la tecnica per costruire bastoni più grossi per chi ha i soldi per pagarli e quindi per rastrellare quanti più soldi possibili con cui comprare bastoni e altri strumenti di convincimento. Hanno allora certamente ragione i Nuer che si pigliano nobilmente a zagagliate faccia a faccia quando qualcuno prova a dare degli ordini, almeno si sono preservati meno sozzi, ipocriti e vili! E, concluso questo, la filosofia politica ha già concluso il suo compito. Cos'altro può mai dire, dato che i tempi dell'armonia platonica sono ormai per sempre svaniti nei cieli delle pure idee sostituiti da realistici miasmi di fogna? Oppure il filosofo può pragmaticamente ancora riciclarsi come sofista, insegnando a farsi furbi con l'arte del convincere, in modo da guadagnarsi la pagnotta come stimatissimo e accreditato esperto accademico di furbate e sozzure? |
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