ATTENZIONE Forum in modalità solo lettura Nuovo forum di Riflessioni.it >>> LOGOS |
22-11-2013, 13.53.16 | #102 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Credo sia opportuno, a questo punto, parlare di pre-supposti. Il presupposto che io assumo, e che mi porta a ragionare in questo modo, è la teoria soggettivistica del "bene". Per la mia prospettiva, è "bene" non ciò che viene riconosciuto come "oggetto", ma ciò che viene riconosciuto come ciò che piace; ciò che il soggetto desidera. Il mio è il presupposto classico della filosofia empirista anglosassone (dice Locke: "ciò che è atto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo bene, e ciò che è atto a produrre pena è ciò che chiamiamo male"). Senonchè, allo scopo di evitare un totale relativismo, accetto la precisazione di Kant circa la necessità di introdurre, in una tale concezione del bene, l'esigenza del "criterio". Per cui sarà "bene" non tutto ciò che piace, ma sarà "bene" ciò che piace SOLO SE questo si concilierà con una visione "oggettiva" del bene (una visione oggettiva che per me, come del resto per lo stesso Kant, ha il suo fondamento in ciò che definiamo "moralità", che a sua volta si fonda (anzi: non può che fondarsi) sul valore che chiamiamo "religioso"). In base a ciò, e pur riconoscendo il piacere ed il dolore come "moventi originari", non dirò che una certa azione è "giusta" solo perchè diretta al piacere di chi la compie, ma la dirò "giusta" solo se in accordo con l'imperativo della morale (che, ripeto, è in radice un imperativo religioso). In questo modo penso, o forse solo mi illudo, di conciliare la moralità di un certo agire con una necessaria "volontà di potenza" (vedi anche il mio post sull'"uberNietzsche" Camus). Dunque la volontà di potenza, come spinta al piacere (non vedo come possa essere diversamente), è rivolta ad un "bene" che non trova in se stessa, ma che trova solo nell'accordo (possibile) con l'imperativo morale. L'unica alternativa a ciò, io trovo, è delineare delle "essenze", per cui si è altruisti o egoisti a seconda della propria "natura". Una visione nella quale non mi ritrovo (troppo forte vi è, per così dire, la "carica metafisica"). ciao |
22-11-2013, 20.19.04 | #103 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Io trovo che il popolo italiano (che sarebbe più congruo definire "massa informe; liquida") voglia i diritti sociali E la libertà individuale. Cioè voglia tutto e il suo contrario, ma senza pagarne alcun prezzo. Ma, ripeto, lascerei perdere. Ormai sono, come ben affermi, 500 anni che questo paese non esprime nulla di significativo (a parte brevi parentesi, e a parte pochissime lodevoli eccezioni). Continuino i più a pensare di essere la "culla della cultura" ed altre simili amenità, e tiriamo innanzi. Certamente il marxismo "ribalta" il modello hegeliano, ma ne mantiene (come in ogni ribaltamento...) tutte le prerogative. Come il modello hegeliano eleva di fatto l'"idea" all'intera realtà, così il marxismo fa con la "materia". Ad entrambi questi modelli sfugge, io trovo, l'intima interconnessione che vi è fra i due elementi del "tutto". Il maggior merito di Marx è, a mio avviso, quello di aver profondamente compreso le dinamiche economiche. Non è certo per caso che nelle università americane qualcuno dica ormai apertamente (vorrei ricordarmi i nomi...): "se si vuole conoscere per davvero l'economia, bisogna studiare Marx". Il Marx "politico" mi piace assai meno. Proprio questo suo ritenere l'aspetto ideologico come necessariamente determinato da quello economico limita, e trovo parecchio, la sua "applicabilità" all'attuale quadro. Ciò che vediamo, infatti, sono delle dinamiche sociali determinate soprattutto dall'aspetto ideologico. Di conseguenza, ciò che Marx non poteva vedere non sono le tecnoburocrazie moderne (che trovo anzi figlie di quel suo pensare un capitalismo "compiuto"), ma uno stato moderno nel quale il "conflitto sociale" e la relativa mediazione fra le parti sono praticamente scomparsi dall'orizzonte. Condivido del tutto la seguente, precisa ed amara (lo si capisce) riflessione sulla situazione attuale, e sulla condizione operaia in particolare. Però: "nuove forme di socialismo": quali? Mica è facile, a mio parere, rispondere. Naturalmente quando si accetta in pieno, come è stato fatto, la logica del mercato poi certe conseguenze sono, tutto sommato, prevedibili. Ma, ripeto: quale alternativa al mercato? Dimostri grande acutezza quando, in contraddizione con gli ormai tanti che propongono un'uscita dall'Euro, affermi che non è possibile pensare di finanziare il debito stampando moneta. Non credi però che, a questo punto, una riflessione sull'Euro si imponga? Infine, concordo assolutamente sull'affermazione per cui è un grave errore che le banche centrali siano diventate, di fatto, indipendenti da qualunque potere politico. Aggiungerei che, in particolare, grave errore è stato quello di operare una de-regolamentazione delle banche che le ha portate a diventare, da istituti di deposito, istituti ai più vari interessi interessati, per così dire. ciao |
23-11-2013, 11.04.59 | #104 |
Moderatore
Data registrazione: 03-02-2013
Messaggi: 1,314
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Oxdeadbeef, il problema che io rilevo nella tua posizione è duplice:
1- Se in accordo con Locke diciamo che bene è ciò che in noi produce piacere in realtà sostituiamo la metafisica dell'essente con una metafisica del piacere (a mio avviso ben più misera), a meno di non ricondurre il piacere all'aderenza dell'essente alla originaria realtà di se stesso (e in tal caso torniamo alla mia posizione per cui parlare di piacere facendone un principio guida risulta superfluo) 2- Se per ridurre la soggettività della posizione di Locke la confiniamo entro la visione morale oggettiva del dovere kantiano (dunque entro un'altra metafisica di maggior respiro) resta il problema di come conciliare le due assunzioni. Per quale ragione il soggetto dovrebbe accettare questa limitazione alla sua volontà di potenza se non come una sorta di alienazione in vista di una volontà di potenza ancora maggiore che peraltro sarà sempre rimessa in dubbio dal soggetto stesso? Io penso invece che il buon agire sia semplicemente l'aderenza totale al proprio esserci per come necessariamente è nel mondo, laddove il cattivo agire è la volontà di rimuovere questa necessità. Necessità che peraltro è allusa nel precetto kantiano inteso in senso ontologico e non solo morale (tu devi perché sei quello che sei e non sei in alcun modo svincolabile da ciò che sei) e l'adesione ad essa in quanto riconoscimento pieno del proprio esserci reca gioia, ma questa gioia è data come pura conseguenza, non come frutto di una volontà pianificante dell'ego che non vuole limitarsi a sentirsi solo strumento di cosciente disvelamento. C'è quindi una potenza universale che si svela attraverso l'esserci individuale e sociale, ma essa è la potenza originaria di ogni cosa per come ineluttabilmente è e questo svelamento di ciò che è originario reca gioia. Il bene si manifesta quindi come gioia di esserci e non come puro individuale piacere contrapposto ad altri egoistici interessi. Ultima modifica di maral : 23-11-2013 alle ore 16.53.06. |
25-11-2013, 22.43.31 | #105 |
Ospite abituale
Data registrazione: 17-12-2011
Messaggi: 899
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Prima inserisco al solito un poco di "carne al fuoco".
La distinzione fra privato e pubblico è la differenza che c’è nei corrispettivi:contratti nel privato e leggi nel pubblico. La disuguaglianza è fra chi comanda e chi obbedisce. Per Hegel che critica il giusnaturalismo ,il vincolo fra Stato e cittadino è permanente e inderogabile. Lo Stato può pretendere anche la vita che è un bene contrattualmente indisponibile. La critica contro il giusnaturalismo è volta verso la concettualizzazione privatistica contrattuale che invece non c’è fra Stato e privato,noi nasciamo già nello Stato. Ci sono due forme classiche di giustizia: quella commutativa e quella distributiva. La commutativa è definita “giusta” quando lo scambio è di uguale valore. La distributiva si ispira all’autorità pubblica dove oneri e onori sono gli oggetti; ma a ciascuno viene dato a seconda dei criteri che possono cambiare la situazione oggettiva, oppure dei punti di vista, in cui i criteri più comuni sono “ a ciascuno secondo il merito”, “ a ciascuno secondo il bisogno”, “a ciascuno secondo il lavoro”. La giustizia commutativa avviene fra due parti; la giustizia distributiva avviene fra tutte le parti. Il primato del diritto privato è una eredità del diritto romano in Occidente dove gli istituti principali sono:famiglia, proprietà, contratto e testamento. La proprietà è la persistenza del diritto privato sul diritto pubblico. Nell’età feudale non c’è uno Stato, è basato su rapporti privati. Il primato del pubblico ha sconfitto, anche se non definitivamente il concetto di Stato minimo privato. L’iirriducibilità del bene comune alla somma dei beni individuali è una critica all’utilitarismo elementare. La distinzione pubblico /privato si duplica in quella fra politica/economia cioè sull’ordine diretto dall’alto sull’ordine spontaneo, sull’organizzazione verticale su quella orizzontale. Hegel non aveva previsto il ritorno del contrattualismo ed a un ordine superiore come fra le organizzazioni sindacali nel contratto nazionale del lavoro o dei partiti nella contrattazione per una coalizione di governo. La società civile è composta da gruppi organizzati (associazioni, ecc.) sempre più forti con conflitti di gruppo continui, per cui lo Stato svolge la funzione di mediazione e di garante più che di detentore del potere. I due processi di pubblicizzazione del privato e di privatizzazione del pubblico si sono dimostrati non incompatibili e di fatto si compenetrano l’uno nell’altro. Questo crea una rappresentazione moderna del contratto sociale. I partiti hanno un piede nella società civile e uno nelle istituzioni essi appartengono quindi alla società politica che non è società civile e nemmeno Stato. Negli Stati totalitari la società civile viene completamente assorbita nello Stato. I due processi dello Stato che si fa società e della società che si fa Stato sono contradditori, perché il compimento del primo porta allo Stato totalitario, il compimento del secondo alla società senza Stato. Questi due processi sono rappresentati dal cittadino partecipante e dal cittadino protetto che sono in conflitto fra loro a volte nella stessa persona in quanto chiedendo protezione allo Stato di cui invece con la partecipazione vorrebbe impadronirsene, in realtà la richiesta di protezione aumenta la forza dello Stato che diventa padrone. Ciao Oxdeadbeeaf. Marx , dal punto di vista sociologico non poteva prevedere tutta la tecnostruttura nel privato( non ci sono solo il "padrone" che è imprenditore e datore di lavoro e gli operai, ci sono gli impiegati ,i funzionari i dirigenti e la marcia dei 40.000 alla Fiat nel 1982 o giù di lì dimostrò il potere della tecnostruttura anche nel privato facendo finire quella storia che alcuni sociologi definivano "aristocrazia operaia" delle tute blu contrapponendole ai "colletti bianchi" ). Non poteva prevedere l'elefantismo burocratico degli apparati degli Stati. L' evoluzione della popolazione italiana che si trova nelle statistiche dimostra che i numeri della popolazione attiva diminuiscono e quella nel settore privato ancora di più. La meccanizzazione e l’automazione ha liberato risorse economiche che sono state inghiottite dai settori parassitari dello Stato (e non solo) che non danno valore aggiunto:questa è storia sotto gli occhi di tutti.. Vedi lavoratori nei campi o trattori? Una fabbrica di oggi è completamente diversa da quella di soli trent’anni fa. Il computer ha eliminato il lavoro impiegatizio che non sia tecnico. Ma non è cambiata la burocrazia dello Stato nonostante da qualche anno si faccia un gran parlare. Il giusnaturalismo riappare nelle strutture moderne nell'eterna diaspora fra privato e pubblico, fra contratto privato e legge dello Stato. Approfondendo la storia dei sindacati internazionali ci si avvede che ad esempio il sindacalismo statunitense è di tipo neocontrattualista e neocorporativo.Ma anche nostri grandi sindacati come la Cisl hanno avuto più o meno apertamente questa posizione ed è interessante collegarla storicamente alla cultura confessionale cristiano sociale ,Questa corrente culturale politica a livello internazionale non ha mai abbandonato la sua pretesa di stare nella storia. Il ruolo dello Stato viene deresponsabilizzato in quanto la pattuizione delle parti sociali è una scrittura di tipo privatistico e soprattutto non mette mai in discussione il fondamento dei ruoli sociali. Il neocorporitarismo crea le condizioni di strutture dedicate (casse sanitarie, pensionistiche, albi professionali,ecc) che intrecciano il rapporto privato/pubblico strutturando confusione ,collateralismi, strani connubi per salvaguardare da una parte interessi di gruppi sociali economici e dall’altra come sacca di voti per il consenso politico. Lasciando alle parti sociali strutturate in organismi territoriali e di federazione professionale la negoziazione, il potere istituzionale dello Stato lascia da una parte alla scrittura privata la costruzione delle diseguaglianze (un usciere se lavora al Ministero del Tesoro prende uno stipendio diverso di una azienda magari artigiana che in appalto dà uscieri ad aziende private , perché sotto i sedici dipendenti e quindi senza i diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori), Insomma uno stesso lavoro , uno stesso ruolo, viene ad essere diseguale come diritto e come stipendio. Oppure il diritto privato peri lavoratori privati e il diritto pubblico per gli statali. Si creano contorsioni e disuguaglianze affinché viva il “dividi et impera”. In questo “pascolano” i corporitarismi sindacali, e professionali che così attenuano le forze conflittuali pacificando i conflitto prima che arrivi alle istituzioni. Un famoso sindacalista diceva e a mio parere giustamente, che la firma di un contratto arriva a definire dei diritti, poi avviene la parte ancora più difficile: la gestione. Non sta scritto da nessuna parte che il duopolio francotedesco debba determinare le linee di comportamento in questo caso dell' Italia. La dimostrazione è che le tolleranze fra gli indicatori della ricchezza (PIL) e debito pubblico vengono di volta in volta contrattate. I nostri politici devono dmostrarci innanzitutto che sono in buona fede e non invischiati in contumele con poteri forti nazionali e internazionali (leggesi poteri finanziari e multinazionali) e secondo imporsi un punto di caduta e un punto di rottura che delimiti la negoziazione di un bene e o di un diritto.Significa che una firma deve essere il più possibile conveniente per tutte le parti firmatarie se si vuole un cooperativismo internazionale, diversamente ci si alza dal tavolo e si risparmia inchiostro e tempo per la firma. Il potere sovrano dello Stato italiano non è stato ceduto formalmente a nessuno è del popolo italiano. Questo è il punto di forza; significa che basta un referundum popolare(che non hanno mai voluto fare) per far saltare politici e trattati e autodeterminarsi, responsabili di noi stessi: ma con quale dirigenza industriale e politica, o meglio con quale cultura industriale e politica? Di coloro che hanno colluso per decenni? Dei trasformisti, populisti, degli occupatori di potere pubblico per fare corruzione, millantato credito, intessi privati in ruoli pubblici,abusi di potere, vessazioni? Io non temo tanto gli”esteri”, ma temo sulla pochezza della nostra cultura cosa che agli”esteri” è più chiara che a noi e ne stanno approfittando. E’ strana la ciclicità della storia e gli scenari che nascono. L’IRI , istituto di ricostruzione industriale nacque poiché ci fu collusione fra industria e finanza(banche) al tempo di Mussolini dove le ripercussioni della crisi del 1929 arrivòanche in Europa (come è strano che le crisi nascano in USA e i “virus” si diffondano oltre) fra l’altro la crisi colpì gravemente la repubblica di Weimar in Germania che consegnerà il potere ad un certo Hitler. Si trattava in altri termini di salvare le banche (ma guarda un po’!!!)in quanto avevano prestato denaro e soprattutto avevano partecipazioni azionarie nelle industrie che stavano affondando,erano legate a doppio filo sistema industriale e finanziario. Ne scaturirà un diverso ordinamento bancario dove l’unica banca d’affari,cioè che potesse finanziare la grande industria sarà quella del mitico Enrico Cuccia, Mediobanca, fino alla liberalizzazione e all’internazionalizzazione del settore finanziario. |
26-11-2013, 22.08.05 | #106 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Se diciamo che "bene" è ciò che in noi produce piacere, certamente abbiamo una visione del bene ben misera, ma metafisica direi non tanto, non trovi? Da questo punto di vista, "bene" è ciò che è bene-per-me; ciò che soddisfa i miei desideri; per cui il "bene" è ciò che soggettivamente è ritenuto tale. Naturalmente, come ben dici, sorge il problema di come conciliare una tale visione del "bene" con la visione kantiana. E questo è un problema che si pose allo stesso Kant, visto che anche lui accetta la concezione soggettivistica del "bene". Non sono quindi d'accordo con la tua affermazione per cui Kant sembra sostenere la necessità di "essere" in un modo piuttosto che in un altro. Diciamo piuttosto che Kant, come dicevo, introduce in quella concezione l'esigenza che essa sia misurata sulla base di un criterio (dice Kant: "il bene è ciò che, mediante la ragione, piace per il suo puro concetto" - distinguendo in questo modo il "buono" dal "piacevole"). Ovviamente non è e non può essere questa la risposta alla tua obiezione, ci mancherebbe. Io trovo che quella che chiami "conciliazione" possa essere trovata nello stesso modo in cui Kant la trova nel rapporto che lega la Ragion Pratica alla Ragion Pura. Ma, certo, "conciliazione" è una parola; una parola da intendersi, tutt' al più, in maniera problematica (esattamente come in maniera problematica - non certo risolutiva, voglio dire - è inteso il rapporto fra Ragion Pratica e Pura). Dunque dici bene quando dici: "per quale ragione il soggetto dovrebbe accettare questa limitazione alla sua volontà di potenza?". La mia risposta è quella "classica" di Kant: dovrebbe accettarla come consapevolezza della finitezza della sua ragione, quindi come consapevolezza della finitezza di se stesso. Ma, e pur rendendomi conto, appunto, della problematicità della mia posizione, qual'è l'alternativa? Sembri delineare un essere umano necessariamente "buono". E sembri, socraticamente, definire il cattivo agire come una "dimenticanza"; come un "ignorare" quella che è la vera, necessaria, essenza umana. Francamente, la tua posizione mi sembra avere una carica metafisica di assai difficile accettazione, come accennavo (e come la tua successiva risposta mi sembrerebbe confermare). Non che la mia non ne sia priva, anzi. Ma mi pare che, per così dire, possa essere proprio il relegare lo "sguardo" metafisico alla pratica, e non alla teoresi, a fare la differenza (una differenza che, a mio parere, si misura sul metro della consapevolezza). Anche se poi, naturalmente, ci sarebbe da discutere sulla "qualità" di questa differenza. ciao |
27-11-2013, 23.07.06 | #107 | |||||
Moderatore
Data registrazione: 03-02-2013
Messaggi: 1,314
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
Citazione:
Citazione:
La problematicità della conciliazione nasce dal fatto che l'io si riconosce come gettato separatamente (diabolicamente) nel mondo, ma nel contempo sente che esso è diretta espressione proprio di quel mondo da cui si sente separato. La soluzione allora la intravedo come una comprensione della diversità dell'altro senza separarci dall'altro. Senz'altro si apre qui un percorso estremamente problematico e complesso che rischia continuamente di naufragare. Citazione:
Citazione:
|
|||||
29-11-2013, 21.59.28 | #108 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Marx non poteva prevedere ma ha previsto eccome, non trovi? Ha previsto e, a mio avviso, ha sbagliato completamente la previsione. E' questo, trovo, che ne fa un mediocre politico (a fronte della grandezza, per me indiscutibile, dell'economista). Cos'è la "tecnostruttura"? E' forse un qualcosa di diverso da una banale ideologia? Certo, una ideologia assai ben congegnata, non c'è dubbio; ma essenzialmente una ideologia, visto che dell'ideologia possiede i tratti caratteristici. Si parte da una idea ritenuta evidente ed indiscutibile (fra varie alternative, una sola è quella piu conveniente, cioè quella "economica"), e su di essa si costruisce una "logia", ovvero una scienza (...). Il carattere squisitamente ideologico risiede appunto nell'idea di partenza, cioè nel presupposto, che mai viene messo in discussione (ecco perchè il "conflitto" è obliato): l'ideologia non è mai "aperta". Direi di stare molto attenti a non farsi troppo condizionare da questo senso di "enormità" che oggi la tecnostruttura possiede; da questo senso di "irreversibilità". Anche le ideologie novecentesche apparivano così. Ma il discorso è vastissimo (a dir poco...), e semmai lo riprenderemo. Concordo del tutto sulla affermazione per cui, all'eclissarsi dello "stato", corrisponde l'emergere prepotente della teoria contrattualistica. Farei però una distinzione sul corporativismo, perchè ritengo che anch'esso vada eclissandosi. Quale "corporatività", infatti, se a vincere storicamente è l'individualismo? Naturalmente le tue riflessioni in merito sono condivisibili (oltre che acute). Il corporativismo mai mette in discussione il fondamento dei ruoli sociali, eppure esso si regge pur sempre su di un "noi"; un aggregato comune di ruoli che oggi va sempre più sbiadendo davanti a quell'"economicismo" di cui sopra accennavo. Perchè se fra varie alternative una sola è quella "economica", allora questa non è la contrattazione corporativa, ma quella individuale (questo fatto mi sembra confermato dal sempre crescente peso della contrattazione fra "parti" sempre più piccole e frammentate - contrattazione "di secondo livello"). Lo stesso processo mi pare avvenga in ben più alte "sfere". Come è possibile che una firma sia il più possibile conveniente per tutte le parti firmatarie? E' possibile, appunto, con la soluzione "tecnica", che individua in una ed una sola firma la firma più conveniente: la "firma economica" (mentre tu, a me pare, stai ancora pascolando nei terreni politici, per così dire...). La sovranità politica, ritengo, è persa da un pezzo. E non solo dall'Italia. La politica come arte di comporre gli interessi particolari è stata spazzata via da questa nuova (poi mica tanto...), potentissima, ideologia che predica, tra l'altro, la coincidenza dell'interesse particolare e di quello generale. Che bisogno c'è di "comporre" gli interessi particolari? Gli interessi particolari vanno invece stimolati e facilitati; perchè, come nella "Favola delle Api" di Mandeville, essi sono l'autentico "motore" di ogni cosa. E, trovo, non tragga in inganno la sovranità politica che ancora dimostrano certi paesi, perchè essa è dovuta essenzialmente alla potenza economica. Ma è, quest'ultimissimo punto, un qualcosa su cui dovremmo spendere, diciamo, qualche distinguo in più. ciao |
02-12-2013, 01.24.16 | #109 |
Ospite abituale
Data registrazione: 17-12-2011
Messaggi: 899
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
QUOTE=0xdeadbeef]@ Paul11
ciao Oxdeadbeef Marx ha capito alcune leggi economiche fondamentali che cambiano la struttura sociologica degli interessi sociali e di conseguenza anche la politica. Mi limito a dire che il plusvalore(o valore aggiunto) che nasce nel momento in cui viene somministrato un servizio o trasformato un semilavorato o materia prima in un prodotto finito in una società strutturata a ruoli e dove colui che fisicamente crea non è proprietario del mezzi produttivi, crea una diseguaglianza della ricchezza prodotta e questa ricchezza segue la legge della concentrazione dell'accumulazione, cioè pochi diventano sempre più ricchi e la forbice fra ricchi e poveri aumenta fino a seguire i cicli economici di crisi in cui il malcontento e la povertà generano scontro di classe. La politica è una sovrastruttura che a sua volta interviene prelevando dalla fase della produzione della ricchezza e la ridistribuisce. Queste due fasi:ricchezza prodotta e ricchezza distribuita, sono il nocciolo di qualunque sistema economico.Il come vengono gestite dallo Stato e dalla politica (attraverso la tassazione e la distribuzione di servizi) e il modo di come e quanto preleva con la tassazione lo Stato e spende è il fondamento del governo dello Stato: il resto è poco più o meno di ...parole demagogiche e populismi. Aggiungerei che nella dottrina keynesiana quei servizi gestiti dallo Stato è come se facessero parte dello stipendio, o diciamo semplicemente aggiunge il guadagno privato ,diversamente quei servizi il privato li pagherebbe. Ma Keynes come gli "statalisti" si contraddice, affinchè sia reale servizio e guadagno del privato il dare allo Stato tasse con il ritorno in servizi significa che devono seguire le regole dell'efficacia e dell'efficienza e nno creare diseconomie che il privato deve pagare come tassa di inefficienza. Ma lo Stato essendo comunque soggetai alla società politica dei partiti ed essendo legati al suffragio del voto democratico, pur di vincere le elezioni contribuiscono a creare sacche di inefficienza che danno però in cambio voto sicuro:lo scambio politico/economico. La burocrazia fa da cuscinetto nell'attrito della lotta di classe,poichè vive nel parassitismo. Marx capisce ( e troppi lo hanno dimenticato) che il lavoratore dà in cambio tempo di vita per avere denaro. Significa che il vero progresso è liberarsi dalla fatica e dall'incombenza del prestare lavoro.E invece è scientificamente economico che il denaro scambiato per tempo di vita non può liberare per sempre dal lavoro ,ma si riproduce questo scambio giorno per giorno con la continuità dell'esistenza. Quindi un vero concetto di progresso è diminuire l'orario di lavoro, il tempo di vita prestato per avere in cambio denaro che non essendo l'intero ammontare del surplus prodotto, ma che il datore preleva come profitto, costituisce il vero conflitto poichè costringe al ruolo di dipendenza economica. Questi sono fondamenti al di là di questioni ideologiche. Uno dei fattori del progresso è quanto lavoro dovevano esercitare plebei, servitori della gleba, proletari e comunque prestatori d'opera con contratto di subordinazione. Il denaro è tramutabile in tempo di lavoro e di vita: questo fondamento si è perso . La riduzione d'orario di lavoro a parità di denaro(il riprendersi i surplus di lavoro creati, il valore aggiunto) si è ovviamente persa a sua volta come conseguenza. Gli statalisti pensano che per vincere la disoccupazione si debbano creare lavori inutili? Qualcuno deve pagarli! E il passaggio dalla efficienza alla inefficienza costruisce il debito. La frammentazione sociale ed economica degli interessi privati è fautrice dell'individualismo inteso economicamente e non conseguenza.E' la struttura economica che si è frammentata e delocalizzata e i centri di potere sono sempre più sfuggenti. E' un altra conseguenza del concetto definito come localismo e centralità nella politica e nelle organizzazioni sociali, ma è conseguenza del diverso modo di organizzare le economie produttive moderne e anche quì Marx ha ragione. Sono i modelli economici produttivi che vengono replicati nei modelli organizzativi umani nella società e nello Stato. Termini come flessibilità ed elasticità produttiva, tecniche di just in time sulle scorte a magazzino, creano le conseguenze del precariato (si lavora quando il mercato richiede e ci si ferma quando non lo richiede) e la pretesa che lo Stato sia altrettanto pronto (sburocratizzandosi) e veloce nelle pratiche fra privato e Stato, negli iter . La contesa fra privato e Stato non è mai finita e genera quegli equilibri del "io ti dò e tu cosa mi dai in cambio?" Le corporazioni intese come associazioni, club, ecc, i cui soci hanno scopi e interessi economico e sociali comuni, prolificano. Basta guardare i tre sindacati dei lavoratori , CGIL,CISL, e UIL che hanno perso consenso dando spazio a nuovi sindacati . Il passaggio al secondo livello di contrattazione a scapito del contratto di primo livello del contratto nazionale è una perdita del dipendente voluta come attuale punto di equilibrio dei rapporti di forza fra datori e dipendenti. Il lasciare che a livello locale si possa cambiare in deroga alcuni punti argomentati dal contratto nazionale significa di fatto prendere atto che la crisi economica pur di salvaguardare il posto di lavoro può peggiorare il contratto nazionale. Ma questo fa parte di quella bilancia mondiale che ha aperto la globalizzazione: mentre le rivendicazioni dei lavoratori dei Paesi emergenti salgono, il potere d'acquisto e le tipologie di precariato nei Paesi Occidentali scende, più po meno rapidamente a seconda dei settori produttivi e delle inefficienze dello Stato. Quando i due piatti della bilancia saranno a pari vi sarà un nuovo ciclo economico. "Quella" firma diventa conveniente nei ruoli della sopravvivenza nelle situazioni di crisi e riflette sempre un negoziato basato su rapporti di forza. I piani dell'economia e della politica si intersecano in quella firma. I sindacati se non contrattano hanno finito il loro ruolo, i politici se non mediano hanno finito il loro ruolo,ecc. Il percorso intrapreso dalla Comunità Europea attraverso la firma di trattati obbliga i contraenti a ciò che si è pattuito. Ma non è la fine della storia,perchè cambiano i soggetti ,gli scenari, gli oggetti del contendere e nessuno è obbligato per l'eternità, se cambiano i presupposti di quella firma e i rapporti di forza. Una firma, detto in un altro modo, è un punto di equilibrio che vale in determinato momento storico. Ma la storia insegna che si disseppellisce anche l'ascia di guerra. Se il popolo italiano non ritiene che le siano convenienti quei trattati,destituisce la politica di fatto che lo ha firmato, con un referendum, e si prende in mano il suo destino costituendo un nuovo corso politico. La chiave del problema politico economico attuale è se è accettabile un percorso che tenderà alla fine(ma quando?) a costituire di fatto una confederazione di Stati d'Europa, a scapito di perdite in ricchezza economica pagate in disagi e difficoltà dalle popolazioni . Penso che nello scenario attuale abbiano più buon gioco le scienze politiche della filosofia politica. E' più facile capire il motivo per cui il popolo è inquieto ,ma non si ribella ,nno si determina attraverso gli schemi di quest'ultima. Quando un politico ultimamente, ha detto che gli italiani non stanno ancora toccando a fondo i risparmi e che il settantacinque per cento della popolazione è proprietaria di una casa:ha centrato almeno in parte l'analisi. E' chiaro che si parla di una media statistica dei polli, ma significa che la popolazione nella sua grande maggioranza ha trovato strumenti adattativi allo stato di crisi,salvo casi disperati. Da sempre sostengo che l'economia è più importante della politica. Perchè è il vero oggetto"reale" della politica. Ma è altrettanto vero che per ragioni economiche o politiche un popolo sovrano può ribellarsi,rompere trattati e cambiare il corso della storia come può altresì mantenerli accettare uno “status quo”. |
02-12-2013, 19.29.27 | #110 | ||
Ospite abituale
Data registrazione: 14-11-2012
Messaggi: 919
|
Riferimento: L'oblio della filosofia politica
** scritto da paul 11:
Citazione:
Gli strumenti adattativi, non essendoci sviluppo a norma, dovrebbero essere quelli illegali. Se il popolo non si ribella è (per la minoranza) perché, appoggiandosi proprio all'adattamento illecito, si accontenta (forte anche dell'esempio del governo di turno colluso), mentre, la maggioranza, per paura di perdere quel poco che pensano ancora di possedere. Un popolo corrotto ed impaurito è più facile da dominare e manipolare, basta vedere il successo di questa "politica" in Lituania, Cuba e Venezuela. Citazione:
Se non si pensa prima e davvero al vero soggetto del tutto, ossia l'essere umano, sia la politica che l'economia non porteranno mai concrete trasformazioni benefiche alla collettività, ma solo all'oblio della filosofia politica. Infine, così come c'insegna il ripetersi e ripetersi e ripetersi della storia, un popolo sovrano quando si ribella è sempre e già troppo tardi. |
||