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12-11-2013, 19.57.44 | #92 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
Io trovo che le crisi portino sì a ricompattazioni sociali molto spinte (che, in genere, seguono le frammentazioni individuali), ma che tali ricompattazioni avvengano sotto l'egida di quello che, tutto sommato, non è anch'esso null'altro che un "io": il "popolo". Nella crisi, ovvero, si innesca un meccanismo "escludente", che è l'esatto contrario di quella "inclusività" che caratterizza i periodi fiorenti. L'antico e moderno tiranno si presenta, sì, sempre e solo nella veste di "padre del popolo", ma in realtà quelli che egli rappresenta sono solo e sempre una "parte". E' chiaro che, allo scopo di oltrepassare questo suo ruolo originario di rappresentante di una "parte", il tiranno non possa che richiamarsi a quelli che sono sentiti come valori comuni: i valori della tradizione; le radici del "popolo"; il "sangue". Tuttavia, questo non rappresenta ancora un ripristino del "noi"; appunto perchè il valore della tradizione, la radice popolare, il "sangue", non può che essere escludente. Continuo a credere che risieda nella democrazia (nella res-publica) il tentativo di ripristinare il "noi". Un "noi" inteso come ciò che include l'"Altro-da-noi", il "diverso", colui o coloro che non hanno il nostro stesso sangue. E' in un tal senso che dicevo della democrazia come tentativo di ripristinare il "noi" (un "noi", quindi, universalmente inteso). Mi sembra, d'altronde, che la storia offra numerosi esempi di ciò (dallo "ius soli" dell'antichità classica alle città del periodo comunale, tanto per citare due esempi). Non che con questo io mi illuda che la democrazia (o repubblica che dir si voglia) non porti in sè, dunque che non abbia intrinseci, quei fattori che ne determinano prima la crisi e poi la consenguente caduta. La libertà dell'individuo, che è base fondante della democrazia (specifico di intenderla nel senso più largo del termine; diciamo come "non-autocrazia"), è quello stesso elemento che ne mina le basi, come la vicenda di Crizia e Alcibiade credo dimostri. Diciamo allora che credo, tanto per usare un'immagine "spengleriana", che la democrazia rappresenti un pò il "fiore degli anni" di una cultura. Ma, inevitabilmente, gli anni passano... Guarda, ad esempio, agli USA degli ultimi decenni. Nel momento massimo della crisi, ovvero dopo l'11 Settembre, in quella che viene considerata la patria del liberalismo viene promulgato il "patriot act", ovvero un sistema normativo che, di fatto, sospende un fondamento del libertà politica come l'"habeas corpus". Non c'è nulla da fare: forse ha ragione Nietzsche a parlare di "eterno ritorno" delle cose... ciao |
13-11-2013, 20.14.46 | #93 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Maral
La domanda è appunto questa: si può non essere egoisti? Io credo che non si possa non esserlo. Ma, e per conseguenza: si può non essere animati da volontà di potenza? Io credo di no. Cosa significa quel: "non avrebbero potuto fare altrimenti (riferito ai Polacchi che aiutarono gli Ebrei)? Cos'era che impediva loro di agire altrimenti? Non certo, trovo, una necessità biologica, visto che i Tedeschi (che, fino a prova contraria, erano fatti della medesima "materia") agivano altrimenti. E perchè dici che l'altruista non ha alternative? E in cosa consiste la necessità del suo atto? Dici che l'altruista, compiendo il suo atto, "trova se stesso". E che in questo "trovarsi" egli prova felicità. Ebbene: hai mai pensato che, se provasse dolore, l'intero suo agire sarebbe diverso? In questo, a mio parere, consiste la necessità di agire in un modo piuttosto che in un altro. L'altruista non ha alternative perchè l'alternativa gli procurerebbe dolore. Qualche volta capita di agire in un modo che, apparentemente, ci procura un utile immediato (questo succede spesso ai molti che sono incapaci di una profonda riflessione intima; ma qualche volta capita anche a coloro che ne sono capaci). Successivamente, capita di accorgerci che questo utile immediato non è il "vero" utile. Ecco che allora veniamo assaliti prima dal dubbio, e poi da un vero e proprio "rimorso". La saggezza religiosa definisce tutto ciò nei termini di una contrapposizione fra una "carne" che indulge alla debolezza ed uno spirito che, pur forte, non sempre riesce ad averne la meglio. La metafora di Giuda, che dapprima vende Gesù per trenta denari e poi si impicca per il rimorso, è la miglior esemplificazione di un utile che, nell'uomo "retto", coincide con i valori dello spirito. ciao |
15-11-2013, 14.21.57 | #94 | |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Citazione:
L'egoismo implica una scelta pesata di ciò che mi torna utile e cosa no, di ciò che mi fa piacere e cosa no, ma qui non vi è nessun progetto, nessuna scelta soppesata. Io dono qualcosa non nella speranza che qualcos'altro, materiale o spirituale che sia, mi ritorni magari pure moltiplicato, ma semplicemente perché non posso fare a meno di donare, per questo si tratta di uno stato ontologico in cui c'è solo la necessità di essere ciò che si è e riconoscere tale necessità che non è il frutto di una scelta. Certamente sentire di essere ciò che si è rende felici (anzi è l'unico modo per essere felici), ma non si è ciò che si è per essere felici, la felicità è l'effetto non la motivazione causante. In altre parole non si può non scegliere la felicità, ma non perché non si può non volerla, ma perché la felicità è necessità ontologica, necessità legata all'essere stesso per come si realizza in ogni essente. La politica quindi che persegue la felicità in realtà non la persegue affatto, ma la finge e per questo è volontà di potenza (volontà di far sì che ciò che non è felicità lo sia). In realtà la felicità già è, è ciò che da sempre siamo e attende solo di venire riconosciuto per tale. |
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16-11-2013, 19.19.54 | #95 |
Moderatore
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
Per quanto riguarda il tuo precedente intervento, Oxdeadbeef, sono sostanzialmente d'accordo: la tirannia tende a ricompattare il noi annullando l'altro da noi e per innescare questo meccanismo ha bisogno di aumentare continuamente il senso di pericolosità dell'altro. La democrazia, almeno teoricamente, dovrebbe tendere a costruire dinamiche complementari in cui l'altro viene conservato nel suo riconosciuto valore (in tal senso la democrazia è in primo luogo tutela delle minoranze, non potere della maggioranza). Ma questo esige uno sforzo continuo di intelligenza la cui ragione che lo sostiene viene messo in dubbio appena si intravvede l'aspetto pericoloso dell'altro che mette l'io in discussione.
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16-11-2013, 23.07.48 | #96 |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
@ Paul11
Hobbes, e proprio perchè parte da una concezione dell'uomo come "lupo", teorizza un potere sovrano "ab-solutus", cioè sciolto da qualsivoglia diritto "naturale" (che diritto naturale potrebbe mai avere un lupo, se non quello di far valere la sua forza?). Quindi nella monarchia assolutistica, che Hobbes teorizza, il sovrano non è certo sciolto dalle "leggi civili" (come, poi, potrebbe essere "sciolto" da un qualcosa che egli stesso promulga?), ma da quel diritto "di tutti" in quanto naturalmente posseduto da ogni essere umano. L'ordinamento statuale di Hobbes parte sì da un "patto sociale"; ma questo è un patto che dei "lupi" stipulano, e perciò è un patto nel quale i "lupi" rinunciano appunto ad essere lupi. Non a caso il potere sovrano che Hobbes teorizza è un potere che pone fine alla guerra di tutti contro tutti. Le differenze con Locke sono enormi, e sono essenzialmente dovute alla diversa percezione della "natura" umana che hanno i due filosofi (dice infatti Locke: "in natura l'uomo non è lupo, ma si pone sullo stesso piano degli altri uomini. Essendo tutti uguali ed indipendenti, nessuno danneggia l'altro nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà"). E' in Locke allora, non in Hobbes, che il potere sovrano risulta limitato. E risulta limitato proprio da quegli stessi diritti che Grozio individuava come "naturali" (pur se Locke vi re-inserirà quell'elemento religioso che Grozio aveva espunto). Sarà, successivamente, Hume, col suo decretare un diritto naturale che si fonda sulla convenienza reciproca, ad espellere nuovamente l'aspetto religioso dalla sfera normativa anglosassone. E' evidentissima, a mio parere, la differenza che intercorre fra un pensiero anglosassone che intende la "libertà" come un qualcosa che si fonda sulla "natura" e un pensiero europeo-continentale che la intende (anche se, in questo caso, sarebbe più corretto parlare di "diritto") come fondata sulla "legge". L'origine di questa differenza, come ti dicevo, va a mio parere cercata nella differente visione religiosa. A parte ciò, in Leibniz vediamo già chiaramente distinto il diritto naturale dalla morale (una distinzione che non sussiste, almeno non così chiaramente, nel pensiero anglosassone). Con il primo che viene determinato dalla seconda. Ma questo può solo voler dire che emerge, netta, una distinzione fra sfera giuridica e sfera morale che la filosofia anglosassone rigetta (la convenienza reciproca, su cui Hume fonda il diritto naturale, coincide con la morale, visto che la morale intesa dagli anglosassoni è una morale fondata su principi utilitaristici). Ma distinguere fra una sfera giuridica "determinata" ed una morale "determinante" può solo voler dire, per il pensiero europeo-continentale, passare dalla teoria del diritto naturale (che, come evidente, impregna tutta la pre-modernità) alla teoria di un diritto che la ragione illuministica ab-soluta (la ragione illuministica è infinita, e solo Kant la metterà in discussione) fonda su una morale anch'essa "ab-solutamente" intesa. Queste, a mio modo di vedere, sono le basi senza le quali è poi impossibile vedere con chiarezza il dipanarsi delle diverse situazioni filosofico-politiche che determinano le differenze fra i paesi anglosassoni e gli altri. ciao |
17-11-2013, 01.22.15 | #97 | |
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica
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Mi trovo abbastanza d'accordo con te anche con i tuoi precedenti post. Il liberalismo è soprattutto di matrice inglese e la salvaguarderà dalle future democrazie sociali che porteranno a dittature. Ma saranno però queste democrazie repubblicane centro europee a evolversi nel bene e nel male, portando il welfare e le lotte per i diritti civili e sociali. Proprio questa contraddizione in essere delle nuove democrazie moderne hanno in seme la possibilità che quel sociale utilizzato dal nazionalsocialismo (mentre il socialismo nasce come internazionale e quindi non sciovinista) possa degenerare. Quella volontà suprema pur in nome del popolo se non corroborata da principi di libertà così chiari nello spirito inglese, porta le democrazie a contraddizioni strutturali nell'ordinamento dei poteri dello Stato. E l'Italia non conosce , ma sopratutto non ha mai praticato una cultura del diritto liberale e si vede benissimo. Non c'è una cultura del diritto, ma della raccomandazione, dell'occupazione, delle rendite di posizione, dei corporitarismi medievali e dei fasci corporati fascisti. E queste eredità sono divenute comportamenti sia dal basso (il popolo)che dall'alto dello Stato (chi incarna i poteri) con dinamiche di sudditanza e non di cittadinanza,di imposizione e di vessazione piuttosto che di rispetto e democrazia. Metterei anche in evidenza che il giusnaturalismo, come d'altra parte avevi anche tu scritto,teoricamente non regge come modello di diritto di natura. Il modello hegelo e poi marxiano lo mettono in evidenza. Altresì è da notare come nel modello marxiano viene in luce il ruolo della politica come luogo delle mediazione: questo è fondamentale per capire la futura evoluzione fino ad oggi. Se il modello giusnaturalista ha dato i principi costituenti delle codificazioni degli Stati europei e cioè la staticità organizzativa negli ordinamenti è altrettanto vero che se la politica diventa il luogo della mediazione dei diversi interessi economici significa che questa rappresenta la dinamicità nella pacificazione del conflitto sociale: da quì si intuisce il ruolo dei partiti e dei sindacati come rappresentazioni degli interessi , della destra e sinistra storica, di rivoluzione e riformismo. Fin quando questa dinamicità tiene in equilibrio le diverse forze allora la staticità degli ordinamenti statali sono salvaguardati, allorchè invece le dinamiche diventano sempre meno pacifiche e meno pacificabili allora viene minato l'ordinamento del diritto costituzionale in quanto diventa non più espressivo se non solo a parole e per intenti rispetto alle esigenze conflittuali della società dinamica o in altri termini i diritti teorici sanciti non trovano risposta dalle richieste sociali. E quì ha ragione Marx nel porre la politica come una sovrastruttura che viene messa in discussione dai movimenti strutturali e congiunturali dei cicli economici che dettano le forme delle organizzazioni delle produzioni e di riflesso degli ordinamenti sociali dello Stato. Si può anche intuire come la scienza politica e non più filosofia politica ,allora diventa la conoscenza per gestire al meglio la governabilità di un sistema a prescindere da morali e diritto. Diventa l'esercizio machiavellico del fine che giustifica i mezzi. |
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18-11-2013, 20.17.07 | #98 |
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@ Maral
Ma, detto nel modo in cui lo dici, questo "trovare se stessi" non è certo un enunciato, diciamo, accusabile di essere ontologico... Voglio dire: in realtà c'è anche chi, guardandosi allo specchio, non prova nessuno schifo per se stesso (e anche dopo aver commesso la più schifosa delle azioni). Io credo che ogni nostra azione sia mossa dal calcolo di ciò che torna utile. Quindi che vi sia sempre un progetto; una scelta soppesata. Tuttavia questo, io credo, vale soprattutto per coloro che "conoscono se stessi". Per gli altri, meno consapevoli, vale quanto dicevo a proposito di Giuda, che crede di conoscere qual'è il suo utile quando in realtà non lo conosce. Non credo che l'utile, il piacevole, l'egoistico, vadano necessariamente pensati in termini negativi. Se io dono qualcosa non lo faccio perchè mi aspetto che questo qualcosa mi venga restituito in un qualche modo: lo faccio perchè il non farlo mi procurerebbe dolore. In altre parole: io credo che il piacere e il dolore non siano effetti, ma cause: "moventi originari". Naturalmente, a questo punto sorge il problema di determinare il "perchè" la medesima causa provoca, in differenti soggetti, differenti comportamenti. Ad esempio nel dono: perchè ci sono persone che provano piacere nel donare e persone che provano piacere nel non farlo (e magari, tanti, si limitassero a provare piacere nel non donare...)? Cosa significa, da questo punto di vista, essere altruisti? E cosa significa essere egoisti? Perchè alcune persone sono altruiste ed altre egoiste? Il mio punto di vista riduce l'altruismo all'egoismo (senonchè non spiega la causa della differenza nel comportamento), ma il tuo è essenzialmente metafisico, visto che parla di un "essere" (altruistico o egoistico) nel senso, aristotelico, di "sostanza" (che, trovo, Severino riproduce). La democrazia. Il discorso sulla democrazia non può che ridursi, a un certo punto, alla presa d'atto della impossibilità di una "vera" e compiuta democrazia. La democrazia, come l'essere di Heidegger, scompare nell'atto stesso del suo apparire: del suo "inverarsi" materiale. Parlerei dunque, più che di democrazia, di "democraticità". Nel senso che individuerei "gradi" differenti di democraticità in relazione ai periodi storici nei quali la democrazia si esprime. In genere, accade che il grado di democraticità è più alto nel periodo immediatamente successivo all'instaurarsi della democrazia. Ma, in seguito, esso è necessariamente destinato a diminuire. Fino a... ciao |
19-11-2013, 22.55.11 | #99 | |||||
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E qui richiamo l'immagine del super uomo nicciano che è autenticamente altruista in essenza, pure nel suo egoismo, e non certo un contabile con partita doppia! Citazione:
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In tutto questo non vi è alcun calcolo di vantaggi o svantaggi, il calcolo segue e non precede il modo di sentire e a posteriori, se necessario, lo conferma. Il calcolo in realtà è truccato e non aggiunge nulla al proprio modo di sentire che è in sé a volte altruistico e a volte egoistico a seconda dei contesti, dei condizionamenti, delle ombre e delle luci che si proiettano sul volto altrui. La democrazia dovrebbe favorire la salvaguardia del sentimento dell'altro, purtroppo finisce per non farlo perché forse questo sentimento è troppo intimo per risultare utile in senso democratico istituzionalizzato, cosicché mano a mano che le istituzioni democratiche si perfezionano nei loro meccanicismi sempre più complessi. il sentimento dell'altro ne viene via via esautorato e allora subentra il contabile che si muove solo se trova un utile. |
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20-11-2013, 20.18.17 | #100 |
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@ Paul11
Io direi che in Italia non si conosce non il "diritto" (che è concetto "francese"), ma la libertà così come intesa nei paesi anglosassoni. La colpa di ciò, se di colpa volessimo parlare, è della religione cattolica. Che non relega la sfera spirituale nell'interiorità dell'individuo (come nel Protestantesimo), ma si fa portatrice di una azione che va a toccare anche la sfera della politica. Il classico esempio che viene fatto a tal proposito, quello del "Patto Gentiloni", spiega alla perfezione le dinamiche politiche che nascono da questo sostrato. Sulla situazione italiana però non spenderei troppe parole (già te l'ho detto?). Il miserevole stato in cui versa il nostro paese ha, per così dire, molti padri. Non serve nascondersi dietro ad un dito, e dire: la colpa e di quello e di questo. La società italiana, lo stesso "popolo" italiano, è letteralmente putrefatto (come già diceva, e in tempi non certo sospetti, Calamandrei). Il giusnaturalismo, come uno dei fondamenti del liberalismo, non solo ha retto come modello di diritto di natura, ma è addirittura uscito vincente nel confronto storico con l'hegelismo (di cui, a mio avviso, il marxismo fa parte). Ne è uscito vincente non certo teoreticamente, ma politicamente (a chi vuoi che interessi la teoresi? Siamo ormai ben pochi, amico mio, ad interessarci di queste cose...). A questo proposito, certamente la teoria dello stato di natura, come base di partenza reale dell'ordinamento giuridico liberale, è una teoria che nessuno prende più in considerazione. Ormai i liberali parlano di "efficienza" delle norme, trovando in questo un risolutivo appoggio dal dilagante (anzi: dilagato) scientismo. Come puoi parlare, da questo punto di vista, di "conflitto sociale"? Come può esservi "conflitto sociale" se le norme sono efficienti (specifico, ma con te non ce ne sarebbe bisogno, che la mia è amara ironia)? Se sono "razionali"? Non vedi come tutti si affannino a dire che non ci sono più la destra e la sinistra? Che l'interesse dell'impresa coincide con quella del lavoratore? Credi forse sia per caso che i poteri "forti" siano ormai quelli della tecnocrazia euroburocratica? Che gli ultimi due governi della Repubblica siano stati, oltre che di "larghe intese", graditi a quella struttura di potere? La politica quindi non "media" un bel nulla, perchè semplicemente pensa che non vi siano interessi contrapposti fra i quali mediare. E' chiaro che così facendo fa l'interesse di una sola parte; ma è chiaro solo ai pochissimi che, ancora, si ostinano a ragionare, non certo alla stragrande maggioranza (davanti alle cui percentuali persino la Bulgaria dei "tempi d'oro" impallidirebbe...). Quanto a Marx, io penso abbia avuto ragione su molte cose, ma non su tutte. Una di queste ultime è proprio questa rigida distinzione fra struttura economica e sovrastruttura ideologica. Un'altra è lo stretto necessitarismo causale che lega i cambiamenti della sovrastruttura ai mutamenti della struttura. Non vedo, in altre parole, nessun cambiamento in vista per quanto riguarda la sovrastruttura, che anzi mi sembrerebbe radicalizzarsi. E questo pur in presenza di un cambiamento, vistoso, della struttura. ciao |