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06-06-2007, 12.20.11 | #162 |
Ospite di se stesso
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Un' impressione OT,leggendo i post:
Sarebbe bello che ,semplicemente, chi non ha vista dica:"Non ne so nulla" senza mettere in dubbio o sospettare abbagli nell'esperienza altrui (oltretutto ,non lo sa,ma si faciliterebbe il compito..) Come ,sarebbe altrettanto bello che, chi "ha visto qualcosa" dica ancora "non ne so nulla" perchè ancora sarà così.. Ma adesso il Mistero sarà "sua carne" e vuole comunicarlo... Sarebbe ..ma così non è.. |
06-06-2007, 12.29.42 | #163 | |
Perfettamente imperfetto
Data registrazione: 23-11-2003
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Citazione:
Concordo. E' vero: chi "ha visto qualcosa" non può che dire "non ne so nulla", ne so sempre meno. Ciao, Noor! Ignoranza essenziale Più mi apro serenamente alla vita, di giorno in giorno di passo in passo vado inesorabilmente migliorando la mia ignoranza, fino a non sapere di non sapere: come quando sono nato come quando sarò morto come quando vivo naturalmente. P.S. Molto bello il pezzo di Eckhart Tolle che ci hai offerto. Grazie. Ultima modifica di Mirror : 06-06-2007 alle ore 13.56.14. |
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06-06-2007, 19.17.24 | #164 |
novizio
Data registrazione: 10-10-2006
Messaggi: 371
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Salute a tutti, vi ho letto senza partecipare, anche perchè il filo mi si era un po' attorcigliato. Ma posso dire che, anche se sono passati 2000 anni, la disputa oggi è molto avvincente come lo era allora tra gnostici e ortodossi.
Attenti, anche se gli ortodossi hanno vinto propinandoci in massa DOTTRINA, RITO e GERARCHIA gli gnostici ora stanno uscendo dalle loro tombe del deserto con il CRISTIANO di QUALITA'. |
06-06-2007, 20.21.31 | #165 | |
Perfettamente imperfetto
Data registrazione: 23-11-2003
Messaggi: 1,733
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Citazione:
Caro Ozner... per me gli ortodossi di qualsiasi risma sono uomini della lettera. Essi non sanno rinnovare l'autenticità del messaggio al quale dicono di rifarsi. Sarebbe invece auspicabile che esca l'Uomo di Qualità, l'Uomo senza più identificazioni religiose, senza bandiere confessionali. Un Uomo che sa essere insieme armonicamente Spirituale e Materiale. Un Uomo dallo Spirito aperto che sa ricreare ogni sacra tradizione trascendentale, coniugandola con l'intelligenza dell'adesso, libero dai dogmi, a braccetto con il meglio della scienza e con una visione positiva della Vita. |
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06-06-2007, 23.14.25 | #166 | ||
Ospite abituale
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Messaggi: 1,150
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Citazione:
Io, invece, sconcertato (ma neppure più di tanto), mi domando se ottusità ancora oggi faccia rima con astrusità, poi leggendo quel che scrivi, sconsolato (ma non molto), trovo la risposta… basta leggere. Citazione:
“Rinnega il tuo cuore e senza dubbio l’anima non sentirà più dolore” da “Ode ad un sognatore astruso” di V. Sechi (privo di copyright) Oddio! Ho inquinato la visione celestiale di un bel cielo stellato, quale danno. Talvolta accade a coloro i quali per troppo tempo presi dalla visione del cielo stellato, che nel ridirezionare il proprio sguardo verso il basso, siano colti da conati e si sentano turbati… si chiama vertigine. Hai frainteso, non ho mai avuto l’intenzione di sottrarti al tuo paradiso artificiale, anzi leggendoti mi consola il fatto che nell’umanità ci sia un evidentissimo progresso: per procurarsi il nirvana ed edificare il proprio personale paradiso sulla terra, un tempo ci si affidava all’LSD, oggi le cose si sono evolute alquanto: un colpo di pennello e via, pareti rosa e tutto diventa celestiale… ma attento al vetro della teca, che sia quantomeno infrangibile. Un bel quadretto con due scene: tu che estrai il pane dalla roccia e lo offri per sfamare le genti, l’altro, ancor più grottesco, abbarbicato ed avvinghiato alla nuda roccia in attesa che proferisca parole di verità… fossi un pittore vi dipingerei, fossi un poeta scioglierei al vento i miei versi, fossi un cantore intonerei un’ode che ben s’impasti con quest’armonioso quadretto surreale. Chiedo venia, l’ho già detto più volte, sono una persona assai normale, so solo scrivere quel che vedo e sento, e non compio troppi sforzi d’immaginazione per vedere e sentire quel che voi avete decretato non esista o reso silente da un’artificiosa filosofia che poco si relaziona con la Realtà empirica. Mi stupisco che una questione così marginale com’è una discussione sviluppatasi su un forum possa indurre in certe persone un turbamento dovuto all’utilizzo di semplici parole, mi chiedo cosa accadrebbe ai medesimi individui se dovessero confrontarsi con cose ed accidenti assai più seri delle mie contorte o semplici parole discordi. T’offro uno scambio, forse ci guadagni: una poesia in cambio della tua. NON CHIEDERCI LA PAROLA Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Per il resto transeat. Andiamo oltre, vediamo d’impegnare le nostre energie in questioni più rilevanti, significative e soprattutto assai più interessanti. |
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06-06-2007, 23.15.21 | #167 | |||
Ospite abituale
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Citazione:
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Temo di non aver compreso compiutamente il tuo pensiero. Nondimeno provo ad esprimere il mio che non vuole essere una risposta indiretta all’interrogare di nexus… non vorrei turbarlo ulteriormente, così pure vorrei evitare di irritare oltremisura il caro amico predicatore del san_scritto… dio di ciò mi guardi e da ciò mi preservi. Parto dall’imprescindibile presupposto che il lettore e colui che scrive siano due distinti individui, cioè che l’uno non sia l’altro e che il “me” non corrisponda al “te”. Leggere ed ascoltare presuppongono l’alterità, altrimenti tutto si ridurrebbe a monologhi irrelati, né più né meno di quanto accade al “santo_scrittore”. Io, nel momento in cui leggo, sono colui che legge, ovverosia sono il lettore di pensieri scritti da altri. Essendo lettore che si sforza di capire, senza mai riuscirci, compendio in me anche il ruolo d’interprete delle parole altrui. Ciò è inevitabile, diversamente la mia azione di leggere si limiterebbe ad una mera compitazione delle sillabe e dei termini, senza che in tale azione di compitare siano coinvolte le mie facoltà (non oso attribuirmi delle capacità) cognitive e di comprensione. Se ciò è vero, ed appunto è più che vero, è inevitabile che io sia anche l’interprete del pensiero di coloro che non si peritano ad esporlo per iscritto – almeno per quanto attiene alla mia persona -. Essere l’interprete di qualcosa significa, senza ombra di dubbio, essere anche l’istitutore del medesimo, almeno in una certa misura la cui cifra ed entità son rilevabili nella rimodulazione e negli elementi non completamente conformi alle intenzioni di chi, esplicitandolo, l’ha reso manifesto. Mi pare che anche questo sia inoppugnabile, diversamente mi perderei il significato del verbo interpretare. L’istitutore, cioè colui che istituisce, sempre in una certa misura, è il creatore del pensiero, se non altro per quegli elementi scaturenti dall’azione compiuta dall’interprete e non appartenenti alla volontà di chi n’è stato l’originario latore, che a questa volontà o intenzione si sostituiscono e/o sovrappongono. Se il pensiero, come più volte ho letto, è creativo ed elemento precipuo dell’essere uomo, se in una qualche forma e grado è rappresentativo di colui che lo esprime, io, in definitiva, essendo l’interprete e, come visto sopra, per un certo verso anche il creatore, mi tradurrei, per il solo fatto di aver letto, in creatore delle altrui intenzioni. Ovvio che in tutto ciò s’inserisce un ulteriore elemento che espone il detto o lo scritto all’alea del fraintendimento e/o dell’esposizione non conforme all’intenzione del promotore del pensiero stesso; per soprammercato i due elementi di distonia testé elencati non di rado si sommano, costituendo un elemento aggiuntivo di creazione del pensiero e, in ultima analisi, del pensatore stesso… tutto ciò, ancora una volta, non è parto della mia mente immaginifica, per averne contezza sarebbe sufficiente leggere con attenzione le diverse rese esegetiche dei testi di Verità, ma funge benissimo alla bisogna anche un qualsiasi testo poetico o una semplice lista della spesa. Non vi pare che il nucleo essenziale di verità della comunicazione fra umani sia alquanto compromesso fin dall’origine proprio per effetto di un’assenza, una mancanza, un vizio capitale imprescindibile? Quante sono le diverse e contrastanti rese ermeneutiche dell’unico pensiero di Osho, Krismamurti ed altri coscienziali coscienti polimerici saggi del Sol Levante, i quali per esporre hanno dovuto a loro volta interpretare? |
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06-06-2007, 23.17.35 | #168 |
Ospite abituale
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Singolare oscillazione fra Immaginazione ed immaginazione, ovvero, fra Vero e verosimile
L’immaginazione è la capacità della mente – accidenti, non di altro – di restituire il “riflesso” o l’eco di un evento o di un oggetto facenti parte della Realtà fenomenica; quando promanasse dall’anima o dal profondo dell’essere in guisa d’intuizione profonda, essa sarà necessariamente restituita, come elemento percepito, sempre alla mente, abbisognando, infatti, di un’elaborazione, diversamente non s’impregnerebbe di senso e significato. Ma non solo, questa facoltà s’insinua anche in ambiti che poco attengono alla Realtà fenomenica, andando ad intrufolarsi in aree che la trascendono totalmente. Così è che, in quest’ultima accezione, possano essere portati all’attenzione della coscienza (se non disturba troppo, leggasi pure mente) anche eventi, accadimenti, situazioni e condizioni che sopravanzano la dimensione umana e che si situano in un oltre rispetto alla Realtà empirica. In questo caso, assumo come definizione omnicomprensiva quella di “Immaginazione noumenica” che completa quella “fenomenica”, ovverosia, per intenderci meglio, direi che l’una sia il completamento della seconda (com’è la fede rispetto alla ragione nella complessa ed affascinante enciclica di Giovanni Paolo II: Fides et ratio) e, per l’economia della discussione, la prima inerisca alla Realtà assoluta, la quale, alfine di non estrometterla dalla contingenza e dall’esperienza concreta, rendendola totalmente avulsa dal mondo esperibile, non deve essere conferita alla coscienza quale nucleo a se stante, intangibile e non colloquiante con il mondo, ma dal mondo e dalla concreta esperienza esistenziale deve essere attinta, diversamente si tradurrebbe in un’esperienza non fattuale, ma solo mitologica e fiabesca. Posto che quanto precede sia comprensibile e condivisibile, ammesso che questa Realtà noumenica esista realmente e sia anche derivabile dall’esperienza esistenziale di ognuno di noi, resta vero ed incontrovertibile che tale connessione, per declinarsi all’attenzione della coscienza, sia sottoposta alla mediazione della mente. Sempre che non si voglia prefigurare un’esperienza estatica o mistica che, in quanto tali, non sarebbero assoggettate a questa mediazione interpretativa, ma che sono anche avventure non correlate o correlabili alla quotidianità, quindi non perspicue e affatto congruenti con il vivere della moltitudine, ed attingono ad esperienze improprie i cui ingredienti costitutivi rientrano a pieno titolo fra le modalità alterate della percezione, ovverosia attengono agli stati alterati di coscienza (spero si comprenda che tutto ciò non debba essere inteso nella sua accezione negativa, ma solo come dimensione innaturale dell’essere). Partendo da quest’assunto inderogabile, che credo non sia capzioso o teoretico, ma concreto ed empirico, ritengo possa essere condiviso che la presentazione del fatto, della Realtà, sia essa noumenica o fenomenica, per quanto solo rientranti nella sfera dell’immaginazione, abbisogni di una lettura, la quale, come ho provato a spiegare in precedenza, presuppone ed implica l’interpretazione. Da ciò deriva, come conseguenza naturale, che anche questo esempio di lettura del Noumeno sia esposto alle interferenze, intrusioni e disturbi dovuti proprio alla necessità imprescindibile di interpretarli per intriderli di senso e significato. In ultima analisi, anche l’immaginazione noumenica soggiace alle leggi incontrovertibili dell’ermeneutica – anche per un saggio polimerico -, le cui norme sono fondative ed imprescindibili della lettura e dell’inestricabile ermeneutica ad essa collegata. Ciò significa che questa realtà sovrasostanziale, sovraumana, trascendente, che oltrepassa e sta’ oltre il fenomenico, completandolo, per le motivazioni che ho provato ad esporre, essendo non immediatamente attingibile, sia anche del tutto ininfluente rispetto a quanto ci tiene impegnati su queste pagine virtuali. L’uomo non ha accesso all’essenza di questa dimensione, se non entro i limiti di un’esperienza impropria (estatica o mistica), peraltro non aperta all’esperienza di specie, cioè della moltitudine. Così è che l’Immaginazione, con l’iniziale maiuscola, sempre ammesso che sia realistica e non parto della fantasia e dell’immaginazione, questa volta con l’iniziale minuscola, ma assumiamo il concetto come vero e concreto, si riduce ad elemento che emerge eccezionalmente dalla complessità esistenziale individuale ed in essa inscritta, e non può essere eletta come paradigma in virtù di questa sua eccezionalità, rappresentandone solo un di più poco rilevante o significativo, per cui non è ottuso relegarla nel cantuccio a lei dovuto e restituirle il giusto valore che le compete, ovverosia uno spazio alquanto residuale. Operando un ulteriore sforzo e traducendo quanto precede in Verità e verosimiglianza, sarà agevole per chiunque rilevare quanto la Verità sia attingibile nella sua polimorfa e mutevole essenza di verosimiglianza. In tal senso e in tale prospettiva, anche le parole sono vuote e prive di senso e d’essenza: l’anima non comunica attraverso la fonetica… ne abbiamo già discusso. Volendo aggiungere un’ultima e brevissima annotazione a quanto ho letto nel prosieguo della discussione, solo per beneficiare il mio piglio scrupoloso, vorrei domandarvi se avete inteso istituire “L’angolo della sapienza”, il cui accesso fosse consentito esclusivamente ai “Sapienti”, ovverosia a coloro che “sanno”, precludendone l’ingresso a chi “non sa”? Nell’eventualità avreste potuto affiggere un cartello che rendesse esplicita tale riservatezza, avrei evitato di lordare con la mota della disputa e del confronto, intrinseci al mio interpellare, il vostro candido maniero. Ciao |
07-06-2007, 09.04.41 | #169 |
Ospite di se stesso
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Caro Visechi Ti offro parte d'uno scritto di R. Pannikkar:
La responsabilita' dell'intelletto: nessuno ci puo' rinunciare, come non possiamo rinunciare al corpo, non possiamo rinunciare alla mente dell'intelletto, non possiamo rinunciare a tutti i problemi. E qui la modernita' ha fatto un passo da gigante per abolire tutte queste scorciatoie, per arrivare alla pienezza della vita, lasciando da parte altre dimensioni di questa stessa realta'. Considera, medita, pensa. E il secondo occhio che ci fa scoprire la faccia sempre invisibile della luna, ma che sappiamo che sta la'; che ci fa scoprire la faccia ugualmente invisibile dell'eternita', che non e' altro che l'altra faccia della temporalita'. L'eternita' non viene dopo, sarebbe troppo na'if, o come diceva Simeone, il nuovo teologo: «Quelli che non hanno goduto della vita eterna qui, possono dire good bye alla vita eterna, perche' dopo non c'e'». Quelli che non sono capaci di scoprire la vita eterna nella temporalita', evidentemente non la possono scoprire dopo, e' tutta un'altra cosa: senza questo secondo occhio della meditazione, senza meditazione in una forma o un'altra, non si puo' avere una vita umana. Quello che si sente, quello che si pensa, quello che si contempla: il terzo occhio. E cosa vede il terzo occhio? La contemplazione e' quella che ci fa realmente vivere, e che si fa senza uno sforzo immediato. Ha bisogno di una preparazione, evidentemente, bisogna passare per il guarda, intuere, medita, ma la contemplazione non ha un oggetto fisso. Questa sarebbe la meditazione. Si fanno le cose senza sforzo, perche il motore e' la vita, o con altre parole, l'amore. Percio' quando si contempla non c'e bisogno di un premio, di un qualcosa che venga dato dopo perche' hai fatto molto bene, non c'e' bisogno di considerare la vita come una gara in cui alcuni ci arrivano e altri no; non c'e' bisogno di un consumismo spirituale o di una competitivita' ascetica che porta tante volte alle deformazioni della vita intellettuale e della vita spirituale. La contemplazione e' quella che ci fa entrare in contatto diretto con tutta la realta'. E' allora che il soggetto non sparisce, non si divinizza. C'e' un'estasi costante perche' questa separazione letale tra oggetto e soggetto non c'e' piu. Ama il tuo prossimo come te stesso, non come un altro tizio al quale tu devi fare tutte le cose che vorresti per te. Se tu non scopri questo te stesso, nell'altro, evidentemente non sei arrivato alla contemplazione perche sei ancora nella dicotomia, nel dualismo di uno e l'altro. Allora l'unica cosa che possiamo fare e' considerare i diritti dell'altro e tante altre cose per ragioni pragmatiche, pratiche, politiche che vanno molto bene, ma che entrano in una gara intellettuale, economica, politica e spirituale. Il contemplativo non ha paura di perdere niente, non ha la tentazione di fare il bene; come se dovesse giustificare la propria vita per il molto bene che fa; e' un fuoco interno, e' la vita eterna, e' la vita infinita. Questo e quel vedere l'invisibile che diceva Paolo, «capendo l'incomprensibile», il terzo occhio che si apre soltanto insieme agli altri due; cosi' si supera il mondo delle cose, il mondo delle idee e non si fa di Dio il grande fantasma di quasi tutta la filosofia e teologia occidentale. La contemplazione ci porta a essere, ed essere – qui sono nella piu' grande tradizione sia orientale che occidentale – e' un altro nome di Dio. La contemplazione e' eminentemente attiva, eminentemente actuosa, eminentemente agisce ma con una attivita che non e' frutto d'un pensiero, che non e' frutto di un piacere che mi attrae, ma che e' frutto di una pienezza che viene da dentro ed e' frutto dell'amore. Quindi la contemplazione non e' nemmeno la sintesi tra la teoria e la pratica, e quella esperienza anteriore, previa alla dicotomia prassi e teoria. La contemplazione non e' soltanto guardare il mondo delle idee, non e' guardare con l'occhio interno, e' molto di piu': e' trasformazione. Se non siamo capaci di mostrare la nostra risurrezione non c'e' contemplazione, non c'e' trasformazione, siamo ancora nella vita mezzo morti. La risurrezione e' nostra, e adesso, e' precisamente questa gioia che e' frutto diretto della contemplazione, che ci da' l'umilta' necessaria (non voglio il premio, il riguardo, l'ambizione, la vanita', il sorriso dell'altro, il grande successo), per buttarci la' dove dobbiamo stare e fare quello che trasformandoci noi, trasforma anche la realta'. |
07-06-2007, 10.36.23 | #170 | |
Sii cio' che Sei....
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Riferimento: L'occhio da chi trae la propria essenza..?
Citazione:
C'e' un cuore ipocrita e uno vero. Quello ipocrita e' schiavo dei suoi desideri, delle sue pulsioni, delle sue passioni e a causa di questa ossessione, in cui e' schiavo degli oggetti del suo desiderio genera anche all'opposto tutto cio' che non e' desiderabile, come la sofferenza. Come un bambino viziato vorrebbe sempre godere e non si accorge che invece il piacere non e' altro che dolore. Un cuore vero vede oltre questa meschina condizione e abbandona il vizio. Quando questo accade trova la pace....e al posto del piacere: la Gioia....senza oggetto. In quella pace non e' affatto anestetizzato al dolore, anzi lo sente 10.000.000.000.000.000 di volte di piu', ma ha la forza e il coraggio di portarlo senza lamentarsi...perche' ha scoperto che il dolore non e' cio' che pensava che fosse. Quando a Nisargadatta che stava morendo di Cancro qualcuno chiese: senti dolore? Lui rispose: c'e' dolore. Ben diversa dalla sopportazione e' l'accettazione, la capacita' di accogliere l'altro, se stessi e la vita intera. Da Simeone il nuovo Teologo: Nelle prime pagine delle Regole Ampie, Basilio parla di una "naturale propensione e forza (rope kai dynamis)" posta in noi. Dynamis ha il significato di "potenza" come capacità di effettuare, è anche lo Spirito, il potere divino che si manifesta come operazione-energia (energeia può venire usato come suo sinonimo), si personifica nelle potenze cosmiche, gli angeli, e permette all'uomo di operare miracoli. Rispondendo alle domande dei suoi monaci, Basilio chiarisce la natura di queste forze utilizzando il linguaggio dei filosofi antichi, e spiega che nel cuore abbiamo dei germi (logoi spermatikoi), che sono scintille (spintheres), cioè dei semi di luce-fuoco. Egli riprende un'idea della filosofia stoica, sviluppata e precisata da Filone Alessandrino: il Verbo Supremo (Logos endiathetos) è presente "germinalmente" nell'intimo di ogni cosa (Logos prophorikos); in ogni uomo, essendo immagine di Dio, sono presenti i semi di tutte le cose: il suo cuore-anima è un microcosmo. Quando l'uomo, grazie alla contemplazione, entra nel proprio cuore, vi trova le ragioni di tutti gli esseri. Conosce così il progetto divino su ogni creatura e diventa partecipe della Sapienza eterna, ben diversa dal sapere scientifico, sempre provvisorio e approssimativo. Basilio spiega che la dynamis di cui questi semi sono dotati è una potenza idonea all'adempimento dei diversi comandamenti. Dunque è il medesimo Logos che si è manifestato nella creazione, che si è rivelato nelle Sacre Scritture, che è presente nel cuore di ogni uomo. La legge inscritta nella natura, la voce della coscienza e i precetti della Scrittura esprimono tutti la stessa Parola divina. "Tutto anela a Dio", perché in ogni essere c'è un seme, una parola del Verbo, che è un impegno ad amare Dio in un modo specifico. L'uomo, che contiene i semi di tutto il cosmo, è chiamato a diventare voce di tutto il creato, tramite una vita di preghiera. Ma l'uomo è libero e può vogere gli impulsi del proprio cuore in direzione diversa; allora le potenze dei vari semi-scintille presenti nel cuore, invece di diventare il fuoco di un'anima innamorata che sprigiona luce, diventano il fuoco delle passioni, peggiore di quello della Geenna. Se il naturale amore per il prossimo può pervertirsi nel desiderio di usare gli altri per il proprio godimento, è anche vero che una forte passione erotica può venire trasformata in un grande desiderio di fare felici gli altri. Allo stesso modo, la spinta alla competitività può scadere nella smania di primeggiare, ma può anche diventare un potente impulso a perfezionarsi . E' sempre la stessa energia, che può venire sviluppata o pervertita, dando luogo a potenze di natura angelica o di natura demoniaca. In questo modo, con le scelte che facciamo, popoliamo il nostro cuore di virtù o di passioni, di angeli o di diavoli, lo trasformiamo nel nostro paradiso o nel nostro inferno. |
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