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02-11-2014, 19.19.17 | #52 |
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
x maral
Allora riprendo in mano il 3d dopo 4 mesi. Penso di aver capito quale è il tuo problema, anzi non capisco come mai non l'avevo visto subito. Il problema non sta tanto nei termini di relazione fenomenologica, quanto nel particolare modo tuo di considerare il fenomeno. Mi è ovvio ora che per te la fenomenologia sia semplicemente il divenire. Non è come ipotizza SinceroPan un problema di continuum spazio-temporale, ma di giustificazione di un ente che si dà come divenire. Il tuo errore massimo è quello di individuare il divenire in una sorta di relazione uno-tutto, che consiste in un oggetto (il libro e la pellicola). Il punto è che la pagina e il fotogramma non garantiscono alcun libro o alcuna pellicola, non trovi? è il famoso errore logico della petitio principii. Per quanto riguarda invece il rapporto ente - enti ossia della proliferazione degli enti ci aveva già pensato Boole all'epoca. In effetti nella sua semplicità è quasi disarmante. Risolve anche il mio problema in maniera definitiva, ossia come fa a stare a sè stante il PDNC? Il problema è facilmente risolvibile ammettendo che il PDNC non è originario. L'altro elemento a cui nessuno nel 3d ha pensato è il principio del terzo escluso, ossia ciò che garantisce il PNDC, ovvero l'esistenza dell'altro. La proliferazione degli enti allora come si dimostra? è semplice c'è qualcosa di originario che lo garantisce come prodotto dei due principi. ossia la formula ente= (1-PDNC) (1-PDTE) il prodotto degli enti che si danno come differenza rispetto all'UNITA'. come si può ben capire non esiste un ente pari a 0 e cioè nullificato. si spiega inoltre come è possibile che lo stesso ente siano enti, e cioè l'ente è il prodotto che eternamente si dispiega come sottrazione dell'unità del soggetto e degli oggetti. ossia il soggetto e l'oggetto sono entrambi intendibili solo a partire da una sotrazione all'unità. la gloria per severino è chiaramente la sotrazione dell'unità fatta dall'oggetto, ossia la sua imprevedibilità (e meglio ancora circolarità sebbene immagino all'infinito). il re è chiaramente la sotrazione del soggetto, ossia il punto di vista particolare del dispiegamento infinito dei "terzi" . (la determinazione negata spinoziana direi quasi non è la stessa cosa? almeno da un certo punto di vista, devo ancora leggerlo ) se noi invece come fai tu maral intendiamo l'ente come un ennesimo pdnc, cadremmo in una serie di aporie, senza fine. il pndc originario come farebbe a essere al contempo pndc degli enti senza contraddirsi tramite il terzo escluso infatti? infatti o è originario o vi sono solo enti. risolto!! ps- tra l'altro la sottrazione dall'unità spiegherebbe anche cosa intendeva Severino per dialettica, non era la dialettica hegeliano uno-tutto, ma quella heidegeriana originario-tutto-molti. ps- ovviamente se cambiamo l'uno con infinito il problema non cambierebbe: cadremmo nell'errore dell'incommensurabilità e invece come dicevo già in altri momenti, noi puntualmente esistiamo. ps- è ovvio che le fisiche subatomiche si riferiscono a un prodotto diverso, ossia non più unitario, ma il soggetto si dà anzitutto sempre come visione, e la visione dipende sempre da un terzo escluso. non pensare al terzo escluso come fanno gli scettici i mentalisti e i relativisti, nonchè le male-politiche, è la cosa grave che mette in chiaro questa visione unitaria. |
02-11-2014, 19.30.12 | #53 |
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
Sgiombo:
Per realtà esperienziale intendo (credo senza alcun presupposto metafisico, nemmeno sottinteso, ma solo per convenzione linguistica) l’ insieme di sensazioni o percezioni che costituiscono ciascuna esperienza (fenomenica) cosciente (quella immediatamente esperita, la “propria” di ciascuno, e le altre che si possono postulare esistere). Maral: Bà, ma se quello che dici è solo una convenzione linguistica nulla vieta di cambiarla con pari valore di verità (ossia 0), di che stiamo a discutere? Se è solo convenzione tutti hanno sempre ragione e torto allo stesso tempo. Sgiombo: Nulla (in linea di principio, ma solo la comodità pratica) vieta di parlare un'altra lingua (o più in generale un altro linguaggio) per dire le stesse cose ed intendersi (purché siano chiare e da tutti rispettate le regole lessicali, grammaticali e sintattiche del linguaggio impiegato) sul vero e sul falso. Sgiombo: Non vedo quali presupposti metafisici preesistenti (che, se sono metafisici, non possono essere esperiti perché trascendono l’ esperienza sensibile stessa) debbano essere necessari per intenderla (né come si possano dimostrare). Maral: I presupposti metafisici si valutano sul piano logico di non contraddittorietà ad essi intrinseca (dunque in riferimento tautologico), non sul piano esperenziale. Se ad esempio presuppongo che A è A e non B, non posso arrivare a concludere che a un certo punto A è B, per un motivo logico intrinseco al presupposto di identità che esprime la tautologia di A. Sgiombo: La logica (e in particolare, fra gli altri, il pr. di identità) è ovvia e necessaria premessa di qualsiasi discorso corretto e sensato (non necessariamente vero; fra i molti altri dei discorsi di metafisica). Ma ad essi non conferisce alcun contenuto “positivo”, alcuna informazione. Sgiombo: non colgo la differenza fra: a) appellarsi alla realtà esperenziale per valutare pregi e limiti delle metafisiche a rifletterli per quello che sono; e b) vedere come la realtà esperenziale appare alla luce di diversi postulati metafisici per capirne gli effetti e valutarne le difficoltà logiche. Maral: Bè, sono molto diverse. In a) valuti le metafisiche sulla base di un piano esperenziale che assumi come indiscutibile riferimento reale, nel secondo ti limiti a considerare come varia il significato dell'esperienza a seconda della prospettiva metafisica con cui la consideri, assumendo a riferimento la coerenza logica intrinseca implicita di quella metafisica. Nel primo caso c'è un punto di riferimento esterno alla metafisica che consideri (dunque arbitrario), nel secondo è tutto interno con riferimento al solo principio di non contraddizione (esattamente come in matematica si procede con le dimostrazioni per assurdo che non fanno riferimento ad alcuna esperienza esterna alla matematica stessa). Sgiombo: Valutare le metafisiche sulla base di un piano esperienziale assunto come indiscutibile riferimento reale mi sembra del tutto corretto (la metafisica deve rispondere di ciò che é reale, quindi, se é reale come é reale un piano esperienziale, per lo meno anche (se non solo) di quello. Limitarti a considerare come varia il significato dell'esperienza a seconda della prospettiva metafisica con cui la si considera, assumendo a riferimento la coerenza logica intrinseca implicita di quella metafisica mi sembra semplicemente controllare la correttezza logica della prospettiva metafisica stessa senza in alcun modo considerarne (la verità o meno de-) i contenuti. Possono essere e per lo più sono logicamente corrette anche delle prospettive metafisiche false; e la logica non può minimamente decidere della verità o falsità di esse (delle prospettive metafisiche logicamente corrette). Sgiombo: Per dire cha A diventa B non C’ è nessun bisogno di ammettere illogicamente, autocontraddittoriamente che ci sia alcunun momento in cui l’anfora al mattino in negozio (A) è proprio la stessa cosa dell’anfora alla sera in casa di Lara (B): il mattino è un certo lasso di tempo, la sera un certo altro, diverso lasso di tempo Maral: Ma per dire questo tu devi assumere che l'anfora sia perfettamente separabile dagli avverbi "al mattino" e "alla sera", se non separi l'anfora dalla sua collocazione temporale infatti non puoi porne l'identità. Ma questa separazione non consiste proprio nell'assumerla astrattamente? (la qual cosa, nota bene, è perfettamente lecita, ma non lo è in termini ontologici) Sgiombo: Non vedo proprio perché mai dovrebbe essere illecita in senso ontologico (se non per il preconcetto ingiustificabile che l’ unica ontologia lecita debba per forza essere quella severiniana) Sgiombo: (a parte il fatto che lo stesso pseudoproblema –ammesso e non concesso- si riproporrebbe tale e quale -solo spostato e non risolto- a proposito dell’ “apparire”: se -per assurdo- fosse come sostieni tu a proposito dell’ ente, allora anche a proposito delle sue manifestazioni fenomeniche o apparenze si dovrebbe inevitabilmente ammettere che “c’è di sicuro un momento in cui” l’ apparenza fenomenica de- “ l’anfora al mattino in negozio (A) è proprio la stessa cosa de-“-l’ apparenza fenomenica de- “-l’anfora alla sera in casa di Lara (B)”. Maral: Questa è un'obiezione giusta che darebbe ragione al "primo Severino", che distingue enti diversi a ogni istante. Obiezione che tuttavia mi pare superabile ponendo l'accento sulla differenza tra essere e apparire: l'anfora è sempre la stessa nella successione storica e sempre comprende tutto il suo apparire che però viene ad apparire in successione a chi la considera. L'essere totale dell'anfora è dunque l'insieme di tutti i suoi apparire parziali, esattamente come un libro è l'insieme di tutte le parole che per capirle leggi una per volta e tuttavia il libro è sempre quello, dalla prima all'ultima parola. Sgiombo: Distinguere essere e apparire non serve a superare la (pretesa; ammessa e non concessa) contraddittorietà del divenire: se fosse il divenire (in generale) e non l’ essere ad essere contraddittorio, allora lo sarebbe il divenire (in particolare) dell’ apparire tanto quanto il divenire (in particolare) dell’ essere; se non lo fosse il divenire dell' apparire mi dovresti spiegare come mai allo stesso modo non potrebbe esserlo quello dell' essere. Se il divenire dell' essere fosse contraddittorio non basterebbe certo appiccicargli l' etichetta di "apparire" per renderlo coerente. Sgiombo: Considerando la stessa cosa (prescindendo dall’ ipotesi della perdita del frammento) l’ anfora che al mattino é in negozio e alla sera è a casa di Lara non mi contraddico affatto perché non identifico la sua ubicazione spaziotemporale (mi contraddirei se dicessi che l’ ubicazione dell’ anfora, che é sempre quella cosa che è, al mattino in negozio è la stessa ubicazione che alla sera a casa di Lara). Maral: Appunto, per non contraddirti devi ammettere che l'anfora sia considerabile separatamente dal quando essa è anfora. Sgiombo: Del tutto ovviamente e senza alcun problema l’ anfora è considerabile separatamente non dal quando essa è anfora (ovviamente lo é fin che esiste come tale), ma dal quando essa è in negozio e dal quando essa è a casa di Lara. Maral: Bè la filosofia del divenire se l'è chiesto a lungo, fino ad assumere quella frase come definizione del divenire (essere e non essere insieme). Sgiombo: No, scusa, questa non è la definizione della “filosofia del divenire”, bensì è la pretesa critica (del tutto infondata!) mossa dalla “filosofia della fissità” alla “filosofia del divenire” (anche ora da parte tua)! Sgiombo: Certo, ma anche in questo modo i sensi non esperiscono (non possono esperire) l’ esistenza di qualcosa che esiste ma non si vede (questa sì che sarebbe un’ autentica contravvenzione del P. dio N C!). Esperiscono l’ inesistenza di qualcosa di immaginato (o ricordato o atteso, o sperato, ecc.), comunque qualcosa che si vede (quando esiste), e non l’ esistenza di qualcosa di esistente che non si vede (= percepiscono visivamente qualcosa che non si percepisce visivamente). Maral: Ma per questo dico che tutto ciò che è deve apparire nel modo che gli è proprio e solo il niente non appare. Il punto è che non può apparire tutto immediatamente, ma per essere è tutto immediatamente fin dall'inizio, si tratta solo di aver pazienza, una pazienza infinita perché l'apparire ha un'infinità di cose da mostrare, nel frattempo ne percepiamo l'assenza (di ciò che non è ancora apparso, ma deve farlo, e di ciò che è già apparso e deve lasciare il posto a ciò che sta per apparire). Sgiombo: Non vedo alcun nesso fra l’ ovvia parzialità dell’ apparire di ciò che è (alla nostra coscienza fenomenica: mica possiamo avere una visione letteralmente divina della realtà!) e la questione del divenire o fissità della natura. |
02-11-2014, 19.52.21 | #54 |
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
Maral:
Ma nessuno ha mai detto che il divenire è la fissità immutabile, si dice solo che il divenire è l'apparire degli enti e che questo apparire è contraddittorio alla luce del principio di identità (che è tautologia) Sgiombo: Il divenire degli enti (che sia e che sia inteso come apparire o come essere) non è affatto coontraddittorio. Lo sarebbe casomai il pretendere che il divenire (dell’ essere, dell’ apparire o di quant’ alro) si identifichi con la fissità o non-divenire. Sgiombo: E’ lo stesso discorso dell’ ubicazione del vaso: accanto ad alcune caratteristiche che ne fanno “quella determinata mela” in ogni stagione in cui è esite, ve ne sono anche altre in primavera e non in autunno che ne fanno una mela acerba ed altre ancora in autunno e non in primavera che ne fanno una mela matura. Maral: E in ragione di cosa stabilisci quali siano quelle appropriate per identificare cosa è proprio questa mela concreta (e non la mela in generale che è comunque arbitraria)? Sgiombo: Il fatto che sia in primavera che in autunno si tratta di quella particolare mela appesa in quel particolare punto di quel particolare ramo di quel particolare albero e non di un’ altra mela appesa a un altro punto di quel ramo o a un altro ramo di quello o di un altro albero. Sgiombo: Per ragionare non abbiamo che le lingue. Ergo ciò che tu chiami “apparire” è tutto ciò di reale (in quanto tale: tutto ciò che é) di cui possiamo ragionare. Dovrei dedurne che di quello che chiami “essere” non è possibile parlare, ragionare: si deve (dovrebbe) tacere Maral: Semplicemente non dobbiamo considerare ciò che appare (ed esprimiamo con i nostri discorsi) come l'essere. L'essere dell'ente è tutto l'apparire (la realtà coincide con la totalità dell'apparire), ma perché questo accada ci vuole un'infinità di tempo, dunque non bisogna per fretta considerare la parzialità che ci appare come totalità anche se, come dicevo. siamo sempre tentati a farlo per comodità di volontà di potenza. Sgiombo: E allora in tutta questa "infinità di tempo" (letteralmente = per sempre; = non possiamo parlarne mai) non possiamo considerare ciò che intendi come l’ “essere dell’ ente”, non possiamo in alcun modo parlarne (malgrado le tentazioni della volontà di potenza). Sgiombo: Alcune parti di me (alcune membrane, alcune sinapsi, alcuni organuli di alcuni neuroni) sono sempre quelle di quando ero da bambino esattamente nello stesso senso in cui la nave di Teseo era sempre la nave di Teseo nei secoli in cui è esistita. Maral: Ma non in senso concreto, Anche nella nave di Teseo può esserci rimasta qualche assicella identica dopo un secolo di continue sostituzioni, ma in realtà anche queste sono cambiate, proprio perché è cambiato tutto il resto, ossia il contesto "nave di Teseo" in cui si trovano. (a meno di non voler separare l'assicella dal contesto in cui si trova, ossia di volerla considerare in senso astratto, ma anche in tal caso sarebbe duro sostenere che l'intera nave di Teseo è rimasta esattamente la stessa solo perché vi sono 2 o 3 assicelle che non sono mai state cambiate). Sgiombo: E' molto semplice: la nave di Teseo, esattamente come determinate parti dei miei neuroni, è una struttura che rimane identica nel mutare (nella continua sostituzione) delle sue parti con parti uguali in sedi uguali: tutto qui. Sgiombo: Ogni, qualsiasi cosa (del tutto indefinitamente) è esattamente quella cosa che é. Questa è una tautologia; infatti ora che l’ ho scritta e pensata (o meglio: da quando ne sono al corrente) so qualcosa di come si parla correttamente, ma non so nulla del mondo reale. "Una mela é una mela" e "un ippogrifo é un ippogrifo" sono entrambe tautologie ma non ci dicono nulla sul fatto reale che le mele esistono e gli ippogrifi non esistono: non é per il fatto che una mela é una mela che le mele esistono, poiché esattamente allo stesso modo (tautologico) anche gli ippogrifi sono ippogrifi, e però non esistono. Dunque le tautologie non sono conoscenze circa il reale, non esprimono alcunché, non dicono nulla della realtà (ontologia compresa): e infatti sul fatto che una mela sia una mela e non una pera sono perfettamente d’ accordo materialisti, idealisti, dualisti, (per riferirci a Varzi: moltiplicatori e unificatori, tridimensionalisti e quadridimensionalisti), e chi più ne ha più ne metta, non avendo le tautologie alcuna implicazione metafisica: non dicendo nulla, né di metafisica, nè di alcun altro argomento. Maral: E infatti, la tautologia non ha valenza metafisica, solo ontologica, ossia non ci dice cosa sia l'ente e in che contesto possa apparire e in quale no. Ma cosa sia quello che c'è è una domanda a cui nessuna metafisica può dare risposta esaustiva, deve attendere che la sua fenomenologia sia completamente apparsa e non è attesa breve, ammesso abbia un termine, nel frattempo possiamo anche accontentarci, ma sapendo che ci accontentiamo. Sgiombo: La tautologia non ha valenza né metafisica né ontologica ma unicamente logica. Per la verità tenderei a non distinguere fra metafisica e ontologia: la teoria di ciò che é reale per me é inevitabilmente anche anche la teoria della natura ultima, autentica delle cose (che sono realmente) esistenti. Comunque l’ ontologia può essere in qualsivoglia modo (per esempio contenente o meno ippogrifi), e così pure la metafisica (la vera natura di certi enti può essere o meno in parte cavallina e in parte aquilina) che comunque, in ogni e qualsiasi caso ciò che è è ciò che è (per esempio gli ippogrifi sono ippogrifi esattamente come le mele sono mele, quale che sia la loro metafisica e quale che sia l' ontologia: che sia -come é- comprendente mele e non ippogrifi -se non come meri concetti senza riferimento reale- o che sia -come non é- comprendente oltre a mele anche ippogrifi come reale riferimento del concetto). |
02-11-2014, 20.04.04 | #55 | |
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
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03-11-2014, 02.23.58 | #56 | |
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l'ontologia sgiombo è una logica del reale, esattamente come invertendo i termini diverrebbe una logica ontologica.(sennò appunto sarebbero veri i grifoni etc...) il tuo problema non è l'ente ma l'esistenza o meno degli enti. all'università stiamo discutendo di questo argomento secondo diverse ottiche :o come de-costruzione del linguaggio scettico, o secondo i concetti di sufficiente e necessario. come sai per berkley è sufficiente che l'ente (che per distinguerlo dovremmo chiamare gli enti) sia una percezione diretta della mente. ma non è necessario, in quanto una simile visione, produrrebbe un mondo spezzettato fatto di infiniti qui e ora, ossia di infinite visioni parziali, a cui sufficientemente (e/o fideisticamente) porterebbero una visione astratta, ma non necessariamente ad una visione completa della cosa. quando noi vediamo i binari da vicino paralleli e in lontananza convergere, per berkley si tratterebbe esattamente di quei binari che in lontananza convergono, eppure razionalemte l'uomo è ancora in grado di misurare, di pensare liberamente che quei binari saranno ancora paralleli. e così è. la visione di berkley è quella geniale di un uomo pratico, vero, ma ha il grosso limite che impedisce ogni forma di pensiero libero dalle esperienze del qui e ora. In definitiva sto ancora con Berkley, nel senso che ogni immagine è esattamente quella immagine, ma per uscire dal solipsismo che come al solito richiami, bisogna ammetere come necessaria una matematizzazione del Mondo. Questo giusto per far capire che l'ente di cui state discutendo non è lo stesso ente della questione. |
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03-11-2014, 11.30.36 | #57 | ||||
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
green&grey, sicuramente mi trovo in una condizione di arrugginimento filosofico e molto del tuo discorso mi sfugge e temo di male interpretare, dunque abbi pazienza, ci rifletterò ancora sopra e nel frattempo spero tu possa aiutarmi a comprendere meglio. Qui comunque le mie attuali considerazioni e perplessità:
Citazione:
In questo senso la giustificazione dell'apparire diveniente dell'ente (perché solo come diveniente esso concretamente appare) è già data. Il problema che però a questo punto resta aperto è cos'è questo ente che appare mutando? Severino dice un eterno, ma cos'è questo eterno riferito al suo apparire? L'intera linea di tutti i suoi apparire o un singolo punto dell'apparire di cui questa linea è solo astratta e indebita estrapolazione? Citazione:
In questa inclusione il PDNC e il PDTE sono manifestazione del principio di identità e generano la fenomenologia del molteplice. Ma anche così la questione non è risolta: questa identità originaria quale entità potrà mai determinare? Un eterno istante di tante storie che in questo istante si intrecciano (ma così breve e insignificante da non poter nemmeno apparire come per noi) o una eterna storia di tanti singoli istanti che sono aspetti del suo infinito apparire? Citazione:
Io penso che l'originaria unità è espressa dal PDI (ed è il PDI che già garantisce che l'ente è ente e quindi non niente e quindi il PDNC e quindi o ente o niente secondo il PDTE che riporta al PDI per cui l'ente è ente), non occorre altro per l'unità. La sottrazione dall'unità del soggetto e degli oggetti è nell'unità stessa che a mezzo di essa si differenzia per tornare continuamente a se stessa per cui l'originario è (conformemente a quanto ritiene Severino) lo stesso punto di arrivo. Citazione:
In conclusione mi pare che il PDTE, proprio risolvendo la contraddizione indicata dal PDNC che ha aperto la ferita nel PDI riconduca a quell'unità identitaria ontologica che ancora dovrà scindersi e può essere che l'intendere l'ente come punto istantaneo o come storia che infinitamente si dispiega per dar conto del proprio senso non sia che un intenderlo fenomenologicamente come momento di sottrazione dall'unità che trova origine nel PDI o come momento di addizione delle molteplicità che trovano origine nel PDTE (unità di un A che ritrova il non A come negazione di se stessa in se stessa inclusa e dunque ancora la espelle dandole significato oggettivo). A questo punto ci si potrebbe spingere a dire che se il PDNC introduce la contraddizione negandola, il PDTE include il terzo (l'unità di relazione tra le due alternative) escludendolo |
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03-11-2014, 12.22.05 | #58 | |
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Non so cosa possa significare l' espressione "logica del reale". Ma la logica é l' insieme dlle regole del corretto parlare (e pensare linguisticamente): Del reale non dice proprio nulla, ma solo di come si parla correttamente (del reale stesso o meno). Quello dell' esistenza o meno degli enti (e di quali enti) non é il "mio" problema ma il problema dell' ontologia. Per Berkeley la realtà degli oggetti (o "contenuti") materiali delle sensazioni si esaurisce nel (non eccede il) loro apparire sensibile. Non riesco proprio a capire cosa significhino le parole "ma non è necessario, in quanto una simile visione, produrrebbe un mondo spezzettato fatto di infiniti qui e ora, ossia di infinite visioni parziali, a cui sufficientemente (e/o fideisticamente) porterebbero una visione astratta, ma non necessariamente ad una visione completa della cosa". Non vedo come la distinzione fra aspetto immediato degli oggetti sensibili fenomenici e conoscenza più fondata (o addirittura scientifica) di essi (come nel caso dei binari che sembrano convergere e non convergono) possa porre alcun problema a Berkeley: semplicemente camminando lungo i binari ci si accorge che non convergono ma la loro apparente convergenza é dovuta a ragioni prospettiche (in ogni caso tanto dei binari visti erroneamente convergere quanto verificati -visti "meglio"- essere paralleli l' essere é essere percepiti e nient' altro). Berkeley e la sua visione non impediscono la memoria né la previsione del futuro, nè le più disparate forme di fantasia; oltre che di induzione fondata sul passato e sul futuro a partire dall' esperienza del presente: il fatto che esse est percipi non nega il divenire ordinato delle sensazioni. Per uscire al solipsismo si deve come minimo ammettere che esistano altre esperienze fenomeniche coscienti oltre alla "propria" direttamente esperita; la matematizzazione del mondo (fenomenico materiale) non lo impedisce, ma a rigore non é necessaria. Quale questione? Ultima modifica di sgiombo : 03-11-2014 alle ore 16.31.00. |
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03-11-2014, 16.23.46 | #59 | |||||||
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
Citazione:
seguendo l'impostazione di Boole, mi sembra che l'ente non sia mai raggiungibile se non nel percorso (il prodotto) stesso del soggetto che si sottrae all'ente stesso, e l'oggetto che a sua volta si sottrae all'ente stesso. ossia immaginando questa linea di apparizioni, o punti di apparizione, l'ente si presenta come sottratto. in questo caso l'entre si sottrae sia al principio di contraddizione che di conseguenza al terzo escluso. Più tardi però accenni al problema dell'uguale, che ritorna, in effetti questo è una complicazione a cui dovrei pensare. Nel senso che questo uguale è lo stesso ente che sembra dissiparsi come sotrazione all'uno, oppure si riferisce agli enti che si ripresentano uguali? Nel primo caso la risposta è facile, nel secondo la cosa mi si complica Citazione:
Bisognerebbe però richiamare almeno quale sia questa narrazione, Severino mi sembra indichi la tecnica no? Esposta così è una complicazione poco comprensibile, infatti le narrazioni possono essere infinite e così la narrazione anche se fosse l'ente a significarla sarebbe comunque fuori dalla nostra portata. Invece se decidiamo quale narrazione, ossia la chiave per intendere a quale significato fa riferimento l'ente, possiamo almeno decidere sulla strada logica da intendere: diciamo probabilmente la dialettica (della tecnica)? Citazione:
Viene usata in differenti ambiti, ma nel nostro, non mi sembra particolarmente utile considerarla come mera matematizzazione. Forse i suoi corollari possono interessarci più in là. Citazione:
No così non dimostri niente! infatti anche il niente è uguale al niente. E invece rimane sempre qualcosa, qui forse divergiamo lievemente: per me l'ontologia dell'ente non corrisponde a una identità, ma a qualcosa di diverso, che l'uomo non può intendere. infatti qualsiasi cosa si sottrae all'unità poi non potrà mai tornare unità. E infin dei conti l'unità appartiene solo al nostro mondo (boole ipotizza anche altre dimensioni, e logiche che appartengono a mondi a noi sconosciuti, tipo ente= (2-x) (2-y) ), nel senso che l'ente è garante come qualcosa che permane come sfondo alle varie sottrazioni modali degli infiniti mondi, a noi e a lui però interessa questo!) Dunque l'unità è da intendersi proprio come sottrazione (spinoza: ogni determinazione è una negazione) e non come l'ente. vale a dire che l'ente non è l'1, e nemmeno il 2 etc... A me sembra che questa intuizione ottocentesca booliana spiega molte cose. Citazione:
okkei vedi sopra sulle nostre distinzioni, è chiaro che a te si presenta un problema in più, che per me invece è risolto. Citazione:
sì infatti qui concordiamo entrambi, e cioè sulla gloria come punto di arrivo che è già da sempre dato. Citazione:
Sì con la distinzione che per me l'identità ontologica non deve scindersi ancora, in quanto è solo la modalità di presentarsi a noi dell'ente. invece direi che hai de-scritto meravigliosamente questo processo dialettico tra pdnc e pdte, rimane a questo punto il problema del significato, a cui la referenza degli infiniti significati e significanti di questo processo dovrebbe tendere in nome dell'ente. qua si va a dritte vele sul problema degli universali e del nominalismo suo compagno. (back to the dark age! il medioevo...beh forse non furono così oscure quelle epoche) |
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03-11-2014, 16.36.51 | #60 | |
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Riferimento: Il problema della realtà fenomenologica dell’ente in chiave severiniana
Citazione:
Colpa mia che sono una bestia....scusa il problema di Berkley è che la sua teoria è necessaria ma non sufficiente. La questione che dibattevamo in classe era se per Berkley fosse sufficiente affidarsi solo ai sensi, e la risposta è stata sì. Nel senso che in lui non troviamo sufficienti motivazioni per portare l'attenzione sulla ragione. (uno potrebbe starsene tranquillamente a guardare l'orizzonte e non scoprire mai che i binari alll'orizzonte non si incontrano mai...invece con l'astrazione, con le ipotesi l'uomo poi va sempre a verificare le sue teorie. Non so... sembra quasi che stiamo dando a Berkley una connotazione quasi morale) Non che lui la escludesse comunque (la ragione). Perdono di nuovo. Siccome il compito è quello di arrivare al grande salvatore cioè Husserl, stiamo cercando una teoria necessaria e sufficiente: non so ancora che tipo di motivazioni darà, però anche a me pare che la matematizzazione non sia necessaria, ma forse sufficiente se mixata con le regole di berkley. (sintesi passive husserliane?) |
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