eternità incarnata
Data registrazione: 23-01-2005
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Oggi, col senno di poi, possiamo dirlo: se il fronte astensionista avesse chiesto di votare «no», avrebbe ottenuto comunque una vittoria, la legge 40 sarebbe comunque rimasta in vigore, ma insieme alla legge sarebbe rimasto in vita il referendum. Viceversa la scelta astensionista ha finito per sterilizzare l'efficacia di una norma costituzionale - l'art. 75, che disciplina il referendum - e ha integrato quindi gli estremi della frode alla Costituzione, nei termini di cui già parlò G. Liet-Veaux, in un saggio apparso nel 1943 sulla Revue de droit public. Questo perché è possibile rispettare la lettera della legge violentandone lo spirito, e consumando perciò una frode alla legge. Un solo esempio: l'art. 138 è la sentinella della Costituzione, perché detta una procedura aggravata per modificarne il testo e perché dunque conferisce l'attributo della rigidità alla carta costituzionale, sottraendola al dominio della maggioranza di governo. Ma se il Parlamento utilizzasse la procedura dell'art. 138 per cancellare l'art. 138 commetterebbe una frode alla Costituzione, userebbe in altre parole la difesa della Costituzione per togliere alla Costituzione ogni difesa: la lettera dell'art. 138 verrebbe formalmente rispettata, il suo spirito tradito e rovesciato.
Io ho avuto la colpa d'avere sostenuto forse per primo questa tesi, e ne ho ricevuto in cambio una quantità di contumelie. Eppure, sul piano del diritto costituzionale, questa tesi non è priva d'argomenti. In primo luogo l'argomento storico, poiché sicuramente i costituenti non concepirono il quorum per sommare contrari e indifferenti in un unico paniere. In secondo luogo l'argomento letterale, giacché l'art. 48 della Carta definisce il voto un «dovere civico», e ne garantisce altresì la segretezza, mentre dinanzi a una campagna astensionistica chi si reca alle urne viene già schedato come complice del sì. In terzo luogo l'argomento sistematico, dato che a sua volta l'art. 75 della Costituzione parla di «voti» e «votazione» al referendum, e quindi il dovere di votare s'estende pure a tale fattispecie. In quarto luogo l'argomento teleologico, poiché nello spirito della Carta il quorum funziona da termometro della serietà del referendum, serve insomma ad evitare che una legge - magari approvata a larga maggioranza in Parlamento - venga poi abrogata da una piccola frazione del corpo elettorale. Serve dunque a respingere le istanze referendarie di scarsa importanza, mentre in questo caso nessuna voce del fronte astensionista negava l'importanza della prossima consultazione elettorale. Da qui una doppia conclusione. Per i comuni cittadini, che restano ovviamente liberi di depositare o meno il proprio voto, anche se la seconda soluzione non rappresenta certo un esempio di civismo, quando non sia l'effetto di un disinteresse motivato. Per i pifferai dell'astensione, che viceversa sono responsabili d'una grave scorrettezza, specie se parlano dall'alto di un pulpito pubblico.
Successivamente abbiamo scoperto che questa tesi ha il sostegno di due norme iscritte nel nostro diritto positivo. Perché l'art. 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera afferma che chiunque sia investito di un potere, di un servizio o di una funzione pubblica, nonché «il ministro di qualsiasi culto», è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni se induce gli elettori all'astensione. E perché a sua volta l'art. 51 della legge che disciplina i referendum (la n. 352 del 1970) estende la sanzione prevista dall'articolo precedente alla propaganda astensionistica nelle consultazioni referendarie. Allora, non potendo contestare l'esistenza di questa doppia norma, è cominciata la giostra delle interpretazioni, che ha messo in risalto uno dei nostri talenti nazionali: quello dell'azzecagarbugli. Alcuni hanno sostenuto che si tratta di norme superate, come se fossero cravatte. Il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini, ha detto che i parroci non inducono ma illuminano all'astensione; ma allora tanto vale chiamare l'Enel.
3. Ora, qui nessuno auspicava la galera per i 25.000 parroci che hanno trasformato l'omelia in arringa. Probabilmente quelle due norme sono troppo aspre, troppo severe. Probabilmente andavano applicate al ribasso, con prudenza, con moderazione. Ma il fatto che esse non abbiano ricevuto viceversa alcuna applicazione, il fatto che la stessa legalità costituzionale sia stata ferita almeno sei volte durante l'arco di questa vicenda referendaria, la dice lunga sul grado di salute del nostro Stato di diritto. Diciamolo: in Italia la vera rivoluzione sarebbe applicare la legge. E la rivoluzione più dirompente sarebbe applicare la Costituzione, quella Costituzione che è stata tradita mentre era ancora in fasce. Perché il seme di tutta la nostra storia successiva - l'«embrione» della società italiana - sta lì, in quel Natale del 1947. Quando la Costituente concluse i suoi lavori, e quando immediatamente una speranza di riscatto percorse l'Italia frustrata dalla dittatura e dalla guerra persa. Sicché i contadini, di fronte a soprusi vecchi e nuovi, per la prima volta alzarono la testa. «Mo' ci sta scrittu n'ta legge», dicevano, e per un momento lo Stato italiano - quello Stato «più lontano del cielo» di cui racconta Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli - parve vicino, amico. Per un momento Roma non fu più un luogo astratto e remoto, un nome nella carta geografica, ma il centro da cui partiva la rinascita: una rinascita economica, sociale, e per una volta anche giuridica.
Ma dopo quella speranza fu tradita, e allora scoppiarono rivolte contadine, e occupazioni di terre, e repressioni poliziesche. Quando la riforma agraria, anticipata dai decreti Gullo del 1944 e poi solennemente iscritta nel testo della Costituzione, fu invece boicottata dal Governo, i contadini calabresi presero possesso delle terre abbandonate, in cortei festosi di donne e di bambini col grembiulino e il fiocco che agitavano bandiere tricolori, e sfilavano sotto un suono di campane. Il ministro dell'Interno, Mario Scelba, reagì spedendo i celerini armati di mitraglia: la strage di Melissa. E da quel momento nelle campagne meridionali cominciò a risuonare il grido: «viva la Costituzione, viva l'Italia». Come un secolo prima, né più né meno. Perché anche nel 1848 i contadini poveri avevano cercato di riappropriarsi delle terre che consideravano usurpate dai "baroni"; ed anche allora invocavano l'autorità della Costituzione. Ma nel 1949 c'era di più: adesso la loro lotta poggiava su un preciso fondamento normativo. C'era, o quantomeno avrebbe dovuto esserci, una nuova legalità, un nuovo ordine costituzionale. C'era l'art. 42 della carta repubblicana, che impone allo Stato di determinare «i limiti» della proprietà privata, «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti»; c'era l'art. 44, che prescrive «obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata», nonché, di nuovo, «limiti alla sua estensione». Ecco perché questi articoli i contadini li conoscevano a memoria, e se li ripetevano ogni giorno; dopo i fatti di Melissa, le colonne di braccianti che marciavano sulle terre inalberavano sempre, ben in alto sulle loro aste, il testo recente della Costituzione.
Noi, oggi, dobbiamo ancora riscattarci da questo tradimento. Ma per riuscirci dobbiamo innanzitutto riscattare la nostra Costituzione, la nostra legalità costituzionale. Sarebbe, questa sì, una rivoluzione. Che cosa si può immaginare di più rivoluzionario rispetto all'applicazione dell'art. 53, che impone a tutti di pagare le tasse, e di pagarle in proporzione al proprio reddito? O rispetto all'applicazione dell'art. 4, che assicura a tutti il diritto al lavoro? O all'applicazione dell'art. 27, che garantisce pene dignitose ai detenuti, quando le nostre carceri sono ormai al collasso? O ancora rispetto all'applicazione dell'art. 49, secondo cui i partiti "concorrono" a determinare la politica nazionale, e non ne sono i padroni, come vuole la partitocrazia al potere? O infine all'applicazione dell'art. 87, che regola i poteri del capo dello Stato? Per gli italiani, la vera grazia sarebbe proprio questa: il rispetto della legge, il rispetto della Costituzione.
(21/06/2005)
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