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06-02-2006, 22.32.04 | #43 | |
Ospite abituale
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La tragica oscillazione fra Anima e Io
Citazione:
Le maschere, la legione di Io, di Sé, servono solo come copertura, per pudicizia. Un’anima che soffre o che canta o che danza è sempre troppo esposta, troppo fragile, come lo sarebbero i nostri nervi privi del tessuto che li avvolge… si soffrirebbe troppo, si piangerebbe troppo. Ogni lacrima, ogni dolore che c’incontra, che ci prostra è una deflorazione, ma anche un alleggerimento di strati del nostro mutevole, cangiante, camaleontico Io che, strato dopo strato, piano piano si sfarina, si sgretola, fino a che – in una visione ricolma di speranze estatiche, d’immagini oniriche, di sogni sulfurei che evaporano all’alba - non resteranno più incrostazioni, perché soffrendo, piangendo, patendo ci saremo guardati ogni giorno più all’interno, più a fondo così tante volte da essere riusciti finanche a scorgere quella massa purpurea, glutinosa, che è quiete, quel cielo ovattato che è pace e serenità. E quando non avremo più strati di lattigine o di spesso sughero che copra e celi questa visione, perché piangendo li avremo espulsi con le nostre lacrime, li avremo sfarinati del tutto, allora sarà possibile non solo osservare, ma anche toccare questo centro che palpita… Poi, alla fine, ci si sveglierà per ritrovare quelle urla e quel buio. Toccare l’ineffabile, aprire il magico segreto scrigno che nel proprio seno accoglie e custodisce l’immagine di Dio – così sussurra certa mistica – è un anelito, una brama non troppo dissimile e distante dalle altre brame, che per certa spiritualità orientaleggiante, che fa tanto chic, è causa e determinazione del patire… <tutto è duttha> … <il duttha ha una sua radice, una sua origine> … <il duttha può essere trasceso, sconfitto, alienato> (a grandi linee, se ricordo bene). Bramare di essere liberati da una brama, è pur sempre bramare… desiderare di essere svincolati dai desideri, è pur sempre un desiderio. Per questo un mistico giunse al paradosso, all’inverosimile anelito di teorizzare il distacco più alienante, più completo: <Ignorare d’ignorarsi>, senza brame, inconsapevolmente: <La cosa più elevata e ultima alla quale l’uomo possa rinunciare, è di rinunciare a Dio per Dio>, <perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come inizio delle creature>, oppure <chi cerca Dio secondo un modo, prende il modo e lascia Dio che è nascosto sotto il modo>. Il concetto di ‘Io’ è quanto di più relativo possa esservi, infatti è facile ravvisare, nei vari contesti in cui questo ‘io’ si muove, la sua mutevolezza. Noi non siamo un ‘io’, siamo, invece, una legione di ‘io’, per quello quando ci rappresentiamo attraverso il nostro ‘io’ rassegnamo all’esterno una parvenza del nostro essere. L’io è quanto appare di noi in superficie ed è talmente instabile e volubile che è soggetto alle trasformazioni più variegate in base alle situazioni e al contesto ambientale/culturale in cui si trova volta per volta coinvolto. Esistono tantissimi ‘io’, uno per ogni diversa situazione. L’io è inferito da fattori endogeni ed esogeni, risente, infatti, del riverberare del profondo ma è fortemente coartato anche dal continuo interagire con il mondo esterno a cui si adatta, come l’acqua si adatta al contenitore che la contiene, assumendone così la forma più consona per essere da questo accettato. La lacerazione che avvertiamo fra ‘io’ (direi parvulo io) e la voce che promana dal profondo che vive in noi, è il risultato e la sintesi di due diverse pulsioni, due diversi stimoli: l’uno – l’io – tende ad amalgamare l’essere con l’ambiente e le situazioni, inferito in ciò da quel che promana dal profondo. Attinge dall’ambiente e ad esso tende a conformarsi. L’io ha necessità di sentirsi accettato. L’altro stimolo, che preme dall’interno, dal profondo intimo di ciascuno di noi, è quella volontà di vita o di potenza tanto cara ad un filosofo, che incalza affinché ci sia la totale affermazione del suo ospite a prescindere dalle ingerenze esterne. Fra queste due pulsioni non vi è armonia, vi è un costante dissidio ben difficilmente governabile o equilibrabile. E’ questo dissidio che traduce la vita individuale in tragedia, perché solo nella dialettica oppositiva fra poli antitetici si dipana la tragedia. La vita – intesa come complesso delle forme viventi e quanto le accoglie - è la manifestazione più eclatante di questa tragedia. La vita è un processo che implica tanto l’eros, pulsione volta alla preservazione di se stessa, quanto la necessità della morte, ineluttabile evento che è funzionale alla vita stessa. Fintanto che questi due ‘moventi’, ‘matrici’, elementi fluiscono senza intersecare l’esistenza dell’uomo, o meglio, nel loro fluire ciclico naturale non determinano l’insorgenza di un senso o significato tragico. Ben diverso è il loro fluire quando la nostra esistenza ne viene coinvolta. Il senso tragico non è insito nella vita intesa come ciclico fluire naturale, ma è relativo proprio alla percezione e commozione che di questa ha l’essere umano. L’uomo tende verso la vita, ma nel proprio vivere si approssima sempre più alla morte, evento che paventa: “l’uomo non muore per essersi ammalato, ma gli capita di ammalarsi perché deve morire” (U. Galimberti). Ciò non significa semplicemente che morire è naturale, ma esprime il concetto che la morte è immanente alla vita. La vita prospera solo grazie alla possibilità che vi sia la morte. Forse la vita sarà eterna proprio perché la morte lo è anch’essa. Noi percepiamo questa realtà immanente nella vita stessa, ma incliniamo a favore della preservazione della nostra vita, declinando il concetto della morte (della nostra morte). Tendiamo a differire il più possibile il momento in cui l’evento ci coglierà, nella consapevolezza che vivendo ci approssimiamo all’ineluttabile evento. Ciò determina in noi l’insorgenza di un profondo dissidio che è lo scaturigine del senso tragico della vita stessa. Per questo motivo, irriducibile ed irredimibile, la vita è percepita come evento tragico. Per ovviare o quantomeno lenire la sensazione d’angoscia che da ciò si germina, la cultura ha dato vita e luce a tantissime filosofie che fungono da calmierante, ma ogni qualvolta si pensa con semplicità e senza infingimenti all’ineluttabile necessità di successione ciclica dei due ‘moventi’ naturali (immanenza di vita e morte), il dissidio si rigenera. E’ questa l’angoscia dell’Origine, direi che sia anche il vero peccato Originale dell’intera genia umana. Bye |
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07-02-2006, 07.48.37 | #44 |
Ospite abituale
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plaudo ancora una volta e mi permetto dal mio piccolo a suggerire : ma non potrebbe tale angoscia divenire gioia?
non potrebbe e non è diventata per tanti consapevolezza di eternità di pace ed armonia? se lo scopo della vita è preservarla e mantenerla non basta vivere per questo per essere felici? soprattutto non dà felicità vivere per mantenere e preservare non solo la propria, ma la vita altrui? E questo grande scopo non è Amore allo stato puro? (chi ama veramente se non chi dà la propria vita per l'altrui? egli viene considerato santo, eroe, essere sovrumano) e non è forse in questo donoche Dio continua a vivere in noi e per noi e noi continuiamo a vivere in lui? I genitori che danno la vita ad una creatura per un atto d'amore e continuano ad amarla e sostenerla e tuttavia sanno che essa è creatura libera e indipendente perchè questo è lo scopo! non sono forse essi esempio di dono d'amore? Il medico(quello che cura i malati per vederli sani e pieni di vita) e quindi il medico con la M non dà la sua vita a questo scopo, rischiando a volte di ammalarsi e morire? Eppure io penso che tutto ciò avviene solo qui nelmondo del relativo, dove tocca a noi scoprire cosa è l'amore. Nel mondo dell'Assoluto non occorrerà più tutto questo e non servirà più la morte. |
07-02-2006, 10.05.39 | #45 |
Ospite abituale
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L’Io maiuscolo io lo chiamerei ‘Rappresentazione’. L’Io, il Sé, il tanto esaltato Io o Sé, altro non è che un rimbalzo in-essenziale di quanto promana dal nostro intimo, dal fondo dell’Anima. E’ la nostra persona in maschera, che raffigura in impropria ed inattendibile similitudine la nostra ineffabile essenza. E’ il rilascio vaporoso dell’occulto che ci abita. L’Io è la maschera che la nostra anima ineffabile indossa per non mostrarsi nuda alla vista del prossimo, alla penetrazione ingiuriosa dell’occhio altrui, ed anche alla nostra visione, che sarebbe spettrale. Ma di questo è oramai consapevole anche la scienza che presuntuosamente si occupa proprio del profondo, di dargli voce e renderlo palese al suo abitato abitatore: la psicoanalisi.
Le maschere, la legione di Io, di Sé, servono solo come copertura, per pudicizia. Un’anima che soffre o che canta o che danza è sempre troppo esposta, troppo fragile, come lo sarebbero i nostri nervi privi del tessuto che li avvolge… si soffrirebbe troppo, si piangerebbe troppo. se questa visechi è la tua definizione siamo molto lontani dalla mia. Quello di cui tu parli è EGO l'IO è altro. |
07-02-2006, 10.07.48 | #46 |
Ospite abituale
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La lacerazione che avvertiamo fra ‘io’ (direi parvulo io) e la voce che promana dal profondo che vive in noi, è il risultato e la sintesi di due diverse pulsioni, due diversi stimoli: l’uno – l’io – tende ad amalgamare l’essere con l’ambiente e le situazioni, inferito in ciò da quel che promana dal profondo. Attinge dall’ambiente e ad esso tende a conformarsi. L’io ha necessità di sentirsi accettato. L’altro stimolo, che preme dall’interno, dal profondo intimo di ciascuno di noi, è quella volontà di vita o di potenza tanto cara ad un filosofo, che incalza affinché ci sia la totale affermazione del suo ospite a prescindere dalle ingerenze esterne. Fra queste due pulsioni non vi è armonia, vi è un costante dissidio ben difficilmente governabile o equilibrabile. E’ questo dissidio che traduce la vita individuale in tragedia, perché solo nella dialettica oppositiva fra poli antitetici si dipana la tragedia. La vita – intesa come complesso delle forme viventi e quanto le accoglie - è la manifestazione più eclatante di questa tragedia.
tutti questi "io" (minuscoli) di cui parli altro non sono che camuffazioni via via più "raffinate" dell'EGO |
07-02-2006, 11.31.07 | #47 |
stella danzante
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"La nostra eredita' nozionale, connessa al modulo occidentale-cristiano dell'anima, non solo non riesce utile a illuminare le strutture culturali a noi estranee, ma costituisce addirittura un ostacolo conoscitivo"
Enciclopedia delle religioni - Alfonso Di Nola "..L'idea di sostanza spirituale in antitesi con la materia e' una concezione metafisica senza equivalente nelle culture primitive" Hartley Burr Alexander .... chi lo dice che anima e cellule ossia materia non siano la stessa cosa? (in quest'ottica io dovrei rivedere anche il mio ateismo), perche' nella mia forma mentale l'indottrinamento cristiano ha avuto i suoi effetti nefasti nello scindere il trascendente dall'immanente, un dualismo che invece non e' cosi' per tutti nelle varie aree del mondo e in tutti i tempi tanto che a voler comprendere la spiritualita' di altri popoli e' addirittura un ostacolo. Peregrinando per i sensi etimologici delle parole passando dal greco incontriamo ànemos, "vento" a sua volta discendente dal sanscrito àniti, egli soffia.L'Atman in sanscrito fa derivare la radice da respiro da dove noi deriviamo atmosfera e in tedesco atmen equivale a respirare. Respiro e' anche il riferimento dell'ebraico nefesh (נפש) indica innanzitutto la gola poi l'anima, l'essere vivente. Nel geroglifico la radice equivalente nfr che evoca "bello/buono" è rappresentata da un pittogramma che stilizza la trachea e i polmoni. Nell'islam incontriamo l'arabo nafs "anima" equivalente dell'ebraico nefesh e rûh, dall'ebraico ruah (רוה) "spirito" , secondo la dottrina classica nafs e' l'anima che regge le sensazioni e il dinamismo vitale, rûh e' lo spirito trascendente destinato all'eternita' nel caso del giusto. Nella mistica del sufismo nafs e' l'anima carnale, inferiore, rûh quella superiore fonte della morale , propria solo dell'essere umano infusa da Dio stesso in Adamo secondo il Corano. Nell'antico Egitto abbiamo una visione ancora piu' ampia: la persona umana e' costituita da almeno 5 elementi, Ka, Ba, Akh, l'ombra e il nome ricevuto alla nascita.... Nella nostra concezione occidentale abbiamo relegato l'anima ad una forma troppo rigida, fredda ideologia, congelata che poco soddisfa invece chi voglia immergersi in quel magma incandescente che dai miti o dottrine lontani per spazio e tempo deborda polimorfo, .... e forse provando a distaccarci per un attimo dalle forme a noi note alle quali l'abbiamo relegata, forse, emerge la sua reale consistenza, immanente e non piu' fonte di sofferenza per la sua inevitabile irraggiungibile essenza alla quale per millenni l'abbiamo ridotta, qualcosa di estraneo a noi. Per sua natura, ideale, altro da noi. visechi van lag |
07-02-2006, 17.14.03 | #48 | |
Ospite abituale
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Anima (S)Natura(ta)
Citazione:
La vita credo proprio sia priva di alcuno scopo insito. La vita è un accidente che si auto-realizza prescindendo dai nostri desiderata, dalle nostre intime vocazioni e dalla nostra volontà collettiva. La vita estrinseca se stessa nel moto incessante della Natura, nel suo respiro o ansito. Vi è tantissima bellezza in ciò, ma vi è tantissimo tragico orrore, La fioritura di un fiore è un approssimarsi ineluttabile verso la putredine, Il fiore ha in sé vita, bellezza, profumi, e, in embrione, anche morte, orrore lezzo e putredine. All’apogeo della sua bellezza, quando con maggior vigoria spande d’intorno le sue fragranze, è il momento in cui il germe della putredine sopravviene, facendosi largo, sinuoso e silente, fra gli sguardi estasiati di chi lo ammira. E Dio in tutto questo, in tale magnificenza, sospeso nel ‘liminare’ fra morte e vita, indifferente scrolla le sue incommensurabili spalle. <Dio si manifesta nella meraviglia del Creato.> Il moto naturale della Natura, della Vita, dell’Anima viva e pulsante è come l’acqua del mare che incessantemente si frange su una spiaggia: avanza per, subito dopo, retrocedere, per poi riavanzare, ma senza riuscire mai a conquistare degli spazi utili, se non quando il moto del mare si tramuta in burrasca, ed accelera il proprio fluire, non più regolare, ma scomposto, disordinato, disarmonico, e si fa impeto…. Allora conquista spazi, conquista metri, occupa aree fino al giorno prima mai occupate, ma produce disastri, desolazione, fa sgorgare lacrime. Il mare contende alla terra, agli scogli, alla spiaggia quegli spazi, li strappa via, li porta con sé nel profondo, per, poi, un giorno lontano, in uno spazio lontano, restituirli in altra foggia, per ricostruire colà quel che ha distrutto in precedenza. In tutto ciò non vi è un progresso, un andare Avanti. Solo un perenne distruggere e ricostruire, un perenne mutare le forme. E ciò accade perché in questa mutevolezza la vita serpeggia e fa filtrare la propria ragione d’esserci, senza fornire un senso a questo suo vano perpetuarsi. Nella vita non c’è solo l’incanto di un tramonto… potrei mostrarne decine, bellissimi, rossi, violacei, color del ciclamino, che si spengono dietro colli o che si tuffano dentro un mare smeraldo…. Ma è proprio quando scorgi l’incanto di questo volgere al riposo del sole, che percepisci il tuo essere solo, solo nell’anima… un’anima è sempre sola…. Nessuno può fermare quegli attimi, e già senti il freddo incipiente, il buio che si fa strada… ti vedi sperduto in quell’incanto che non è offerto come un dono a noi umani, ma è solo una manifestazione imperiosa e graffiante della potenza della Natura – o di Dio, se dovesse risultare più congeniale l’idea di Dio. Anche l’arte, le meravigliose manifestazioni di una Natura abbagliante, il suono di un piano, il sorriso di un bambino, un amore che non sia solo sesso, ma un contatto di anime che si compenetrano nell’atto sessuale, sono altri giochi della vita… t’incantano per non perderti mai definitivamente… ma quanti non si sono arrestati, non sono arretrati di fronte all’orrore del vuoto che c’è dietro queste meraviglie? Forse si tratta solo d’un astruso intellettualismo, o di mera fantasticheria o narcisismo letterario, o auto-afflizione, di vane complicanze autogerminative aliene all’esperienza della vita. Oppure no, forse veramente non siamo noi a complicarci la vita, noi siamo la complicazione che la vita usa per insinuarsi in noi. E’ la nostra vocazione, il nostro daimon. Esso ci spinge in un verso, la vita esige ben altro. Questa è la lacerazione di fondo che percepisco come un vento cosmico appena accennato. Eppure, nella sua indeterminatezza, nel suo flebile volo, lo sento come un affanno che sfianca. Non so bene se noi nasciamo con questa propensione verso la complicazione, e così ci allontaniamo da noi stessi, o se, invece, è un processo quasi naturale, insito nella vita stessa. Non è mai facile convivere con se stessi, con le proprie uggie, con le proprie noie, si cerca sempre ciò che non si crede di avere. Siamo ammalati di un eccesso di benessere, abbiamo troppo tempo per sognare cose diverse da quelle che abbiamo. Non siamo mai soddisfatti dei rapporti con gli altri: quando sono superficiali annoiano a morte, quando sono molto intensi, spesso feriscono… ma che razza di bestie siamo? Siamo l’una e l’altra cosa insieme, e siamo proprio nessuna delle due cose… non siamo corpo e non siamo anima, sentiamo questo soffio che ci spira fra i capelli e lo percepiamo come un eco del profondo. Quando non lo avvertiamo più, soffriamo per il nostro essere aridi, ma nel mentre soffriamo di questa nostra aridità interiore ci accorgiamo che forse qualcosa di vivo e vitale è in noi che ci suggerisce che vi è qualcosa che pulsa. Si tratta forse di molteplici universi che ci vivono dentro. I molteplici universi che ci appartengono, cui apparteniamo, assomigliano troppo all’uomo naturale, a questa portentosa meraviglia caleidoscopica, multiforme e segretamente innamorata di se stessa. I molteplici universi sono l’amore e l’odio, il pianto e la gioia infinita, essere corpo e sentire quel baluginio che proviene dall’intimo, essere luce ed essere ombra al tempo stesso, essere liberi nelle scelte e nell’esistenza, ed avvertire che agiamo così perché un demian ci inclina verso una vocazione non del tutto a noi nota. I molteplici universi sono quel Kaos che ci ammalia ed affascina, che ci tormenta e gratifica, che ci ama e un po’ ci detesta. Siamo profondamente umani, e devo dire che è meraviglioso essere profondamente umani e limitati: esseri soli con se stessi che cercano altri soli con se stessi. Ciao La Via(ndante) - un sorriso bacioso (senza emoticon) Ultima modifica di visechi : 07-02-2006 alle ore 17.19.19. |
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07-02-2006, 17.32.02 | #49 |
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Non è mai facile convivere con se stessi, con le proprie uggie, con le proprie noie, si cerca sempre ciò che non si crede di avere. Siamo ammalati di un eccesso di benessere, abbiamo troppo tempo per sognare cose diverse da quelle che abbiamo. Non siamo mai soddisfatti dei rapporti con gli altri: quando sono superficiali annoiano a morte, quando sono molto intensi, spesso feriscono… ma che razza di bestie siamo?
Siamo l’una e l’altra cosa insieme, e siamo proprio nessuna delle due cose… non siamo corpo e non siamo anima, sentiamo questo soffio che ci spira fra i capelli e lo percepiamo come un eco del profondo. Quando non lo avvertiamo più, soffriamo per il nostro essere aridi, ma nel mentre soffriamo di questa nostra aridità interiore ci accorgiamo che forse qualcosa di vivo e vitale è in noi che ci suggerisce che vi è qualcosa che pulsa. tutto quanto dici rappresenta una "fase" in cui ci si sente "lontani" dall'IO (padre padre perchè mi hai abbandonato?) e che è un'abile mossa dell'EGO. equilibrio... ciao |
07-02-2006, 23.22.30 | #50 | |
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Anima ed Ego (fraintendimenti)
Citazione:
L’Ego! Quante volte nei tuoi interventi, siano essi repliche o incipit, leggo questo termine. Lo utilizzi in moltissime occasione, opponendolo alle argomentazioni altrui. Quasi si trattasse di una “defensa”, un ipse dixit, una barriera invalicabile qualsiasi possibilità di argomentare ulteriormente ed altrimenti rispetto alla tua opinione. Ho avuto modo di constatare che più volte lo utilizzi in maniera decontestualizzata, cioè alieno dal contesto, altre volte, condito in salsa rosa, lo propini come una sorta di condimento buono per tutte le pietanze… quasi un intermezzo che, forse, dovrebbe concedere un asilo inespugnabile al tuo argomentare. Ho avuto la sensazione, più d’una volta, che forse intorno a questo termine… anzi, concetto, ovvero elemento costitutivo dell’animale uomo, vi sia un po’ di fraintendimento. Onde evitare di snaturare completamente questo thread, a cui tengo (forse si è notato), evito di dilungarmi in tediose descrizioni o dissertazioni circa l’Ego – sarei in grado di fornirti variegati punti di vista circa questa ‘essenza ( ? ) -, e mi limito, per risparmiare i miei neuroni, a copia/incollarti il parere di uno studioso dell’Ego, avendo cura di evidenziare alcuni passaggi secondo me salienti per renderti edotto circa il fraintendimento cui – sempre secondo me – saresti incorso, e tralasciando le parti dell’intervista non significative per l’economia dell’argomento e del suo contesto. Mi limiterò ad inframmezzare l’intervento del dotto studioso di C.G.Jung con miei personalissimi commenti (fra parentesi quadre). L’Ego cosa è? James Hollis, Ph. D., è direttore esecutivo dello Jung Educational Center di Houston, nel Texas. Formatosi come analista junghiano a Zurigo, in Svizzera, è autore di otto libri e più di quaranta articoli su Jung. Terapista attivo, viaggia tenendo conferenze a studenti e colleghi sulle teorie junghiane dello sviluppo umano e su quello che chiama “il punto d’incontro tra l’anima e la psiche”. Amy Edelstein: Cos’è l’ego, secondo Jung? James Hollis: L’ego, così come è stato definito da Jung, è il complesso centrale della consapevolezza. […] Jung considerava essenziale per la consapevolezza la formazione dell’ego [illuminante, non credi?]. La consapevolezza implica la divisione tra soggetto e oggetto: per diventare conscio, devo conoscere ciò che non sono. Ho bisogno di percepire ciò che è là come opposto a ciò che è qui. Inoltre, egli vedeva l’ego come un elemento necessario dell’intenzionalità, della concentrazione e della risolutezza. […] L’ego, in quanto complesso, è estremamente malleabile e “occupabile”. Quando viene occupato dai contenuti dell’inconscio, quando è sotto il controllo di altri complessi, diventa insicuro, manipolato ecc. Vedi, ciò che spesso chiamiamo ego è in realtà l’ego posseduto da uno o più complessi, per esempio il complesso dei soldi, del potere, del sesso, dell’aggressività. Tali complessi non sono la natura essenziale di un individuo, ma hanno il potere di usurpare o possedere l’ego. [ma guarda tu… pare che dica l’opposto di quanto da te asserito] Amy Edelstein: Secondo la concezione di Jung, l’ego è un elemento della personalità positivo, negativo o neutrale? James Hollis: Come ho già detto, l’ego è una formazione necessaria per lo sviluppo dell’identità, della consapevolezza, dell’intenzionalità e della risolutezza: elementi tutti positivi. L’ego in sé non è un problema. Ma quando è posseduto dalle nostre insicurezze, quando è sotto il controllo del nostro passato, diventa per così dire nevrotico, si trasforma in un ostacolo. Quindi, il problema non è l’ego; il problema è ciò che accade all’ego. L’equilibrio perfetto – se mai potessimo raggiungerlo – sarebbe uno stato di ego aperto, in dialogo con le altre parti del mondo esteriore e interiore, in cui possiamo assorbire messaggi dalla cultura (senza necessariamente farci incorporare da quest’ultima) e anche dialogare con l’inconscio. [….] Amy Edelstein: L’ego, secondo Jung, equivale a ciò che chiamiamo io? James Hollis: In generale, “chi penso di essere” è lo stato dell’ego. […]. Amy Edelstein: Lo stato di puro ego di Jung equivale alla condizione in cui conosciamo la realtà per ciò che è? James Hollis: Sì, giusto. In questo senso non è molto diverso dal concetto zen di “non-mente”, cioè puro essere [accidenti quanto siamo distanti dalla tua distorta concezione di ego]. […] Amy Edelstein: Quali erano le idee di Jung sulla relazione tra la coscienza e l’ego? James Hollis: Prima di rispondere a questa domanda, lasciami fare un passo indietro. Vedi, per Jung la realtà sovraordinata è ciò che chiamava il Sé, che non va confuso con l’ego. Nella prima metà della vita, il nostro compito è sviluppare un ego, una consapevolezza di noi stessi abbastanza salda da permetterci di lasciare i genitori e andare nel mondo dicendo: “Assumimi, posso fare questo lavoro”, “Fidanziamoci, sono affidabile”, ecc. Se non sviluppiamo sufficientemente la consapevolezza dell’ego, restiamo bambini. Il dialogo, nella prima metà della vita, è il dialogo con il mondo. Cosa mi chiede il mondo? Invece, nella seconda metà della vita, diceva Jung, l’ego deve cominciare un dialogo con il Sé. […] Questo è un dialogo molto più interiorizzato; potremmo dire che è un dialogo religioso. […]. Quindi, alla fine, l’ego deve rispettare le richieste del Sé; ha la responsabilità etica e religiosa di dialogare con quest’ultimo, continuando però a vivere nel mondo reale. E tra i compiti dell’ego c’è anche il far fronte al possibile conflitto derivante. Amy Edelstein: Cos’è il Sé, secondo Jung? È ciò che rappresenta o ci invita a realizzare il nostro potenziale più elevato di esseri umani? James Hollis: Il Sé sarebbe la saggezza dell’organismo. La totalità dell’intenzionalità di ciò che siamo, che trascende la consapevolezza. […] Amy Edelstein: Qual è, per te, lo scopo della psicologia junghiana? Forse aiutarci a realizzare il nostro potenziale più elevato? James Hollis: Sì. Vedi, per Jung la metafora centrale era l’«individuazione», che tanto spesso viene confusa con lo sviluppo dell’ego. Invece, essa consiste nel mettere l’ego in relazione a quella realtà sovraordinata che tutti siamo. “Individuazione” vuol dire diventare ciò che vogliono gli dei, non l’ego. E può esserci una grande differenza. Quando qualcuno dice: “Sia fatta la tua volontà, non la mia”, questo è l’ego che dialoga con il Sé. Ebbene, Sé è una parola come Dio, volontariamente ambigua; non si riferisce a un’entità, ma a un mistero. Amy Edelstein: In che modo la terapia junghiana ci aiuta a coltivare quella forza di volontà necessaria a rispondere alla chiamata del Sé? James Hollis: Se non prestiamo ascolto al Sé, la conseguenza è la sintomatologia. Quando il Sé viene violato, ciò si rifletterà nelle nostre relazioni, attaccherà il corpo, sarà nei nostri sogni, produrrà stati emotivi. In altre parole, la sintomatologia è un indicatore dell’autonomia del Sé, perché sta dicendo: “Guarda, sei fuori strada”. E il fine della terapia (che si tratti di una terapia convenzionale con un terapista o di un processo individuale) è prestare attenzione a ciò che questi sintomi stanno dicendo. L’approccio junghiano alla sintomatologia non è reprimere, ma chiedere: “Cosa vuol dire? Dov’è la ferita, qual è il rimedio richiesto?”. Per esempio, il nostro scopo non è rimuovere la depressione. Quest’ultima, in realtà, è un modo per dire che non stiamo vivendo una parte essenziale della nostra vita. […] (segue) Ultima modifica di visechi : 07-02-2006 alle ore 23.24.32. |
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