ATTENZIONE Forum in modalità solo lettura Nuovo forum di Riflessioni.it >>> LOGOS |
16-01-2013, 09.21.40 | #5 | |
Ospite abituale
Data registrazione: 30-01-2011
Messaggi: 747
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Citazione:
Sono tentato anch'io di condividere questo punto di vista. Se si cerca di definire la coscienza con la teoria connessionista si arriva all'idea di un sistema matematico che produce cambiamenti di grado che avvengono raggiunte determinate soglie quantitative di attivazione. Ad esempio esisterebbe una soglia di attivazione della paura, chiamiamola P, che corrisponderebbe ad un certo livello di tensione del sistema nervoso, pressione sanguigna, ecc. Raggiunta la soglia P scatta il meccanismo della paura, e così per tutte le altre emozioni o sensazioni che a seconda del loro perdurare nel nostro animo possono diventare poi umori o sentimenti. Ma queste soglie di attivazione sono anch'esse suscettibili delle nostre elaborazioni mentali, come si vede nel caso del biofeedback, non so dire fino a quale punto. In ogni caso la coscienza è vista come un fenomeno passivo, nel senso che una volta che il nostro organismo fa scattare la soglia di attivazione di una certa emozione, la coscienza non può più nulla, deve solo accettare e subire passivamente il cambiamento emozionale. Tutto questo in barba al filosofo che crede di essere il legislatore del proprio pensiero e del proprio stato d'animo. Non ho molte speranze di essere stato chiaro, nell'improbabile caso affermativo inizierebbe un discorso interessante: quanto siamo padroni del nostro stato d'animo? |
|
16-01-2013, 18.08.03 | #6 |
Ospite abituale
Data registrazione: 26-11-2008
Messaggi: 1,234
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ CVC
Penso che allorché si hanno sensazioni si può essere certi di averle (si possono interpretare malamente, si possono fare affermazioni sbagliate e false su di esse, ma se ci si limita ad affermare la loro esistenza (il loro accadere in quanto tali, in quanto sensazioni) non ci si può sbagliare (per definizione: se accadono sensazioni e si predica l’ accadere di sensazioni, allora si predica veracemente). Su tutto il resto che si può credere non è possibile a mio avviso superare il dubbio scettico; cioè di qualsiasi altra cosa che non sia sensazione in atto in quanto tale non si può predicare la realtà essendo assolutamente sicuri di essere nel vero (si potrebbe essere nel falso): già predicare l’ esistenza reale di sensazioni non più in atto ma pregresse, in quanto ricordate, è esposto al rischio di errore, di falsità (la memoria può ingannare). Lo stesso dicasi della credenza nella concatenazione causale per lo meno nell’ ambito della “res extensa” (il mondo fenomenico costituito dall’ insieme delle sensazioni materiali naturali), come genialmente rilevato da David Hume. Malgrado questo personalmente credo sia nella concatenazione causale degli eventi fisici (ovvero nel divenire ordinato secondo leggi universali e costanti della natura materiale) e in generale credo “criticamente” nella memoria, sapendo che può ingannare ma che in linea di massima è possibile smascherare e correggere i suoi inganni (altrimenti non potrei fare nulla di sensato nella vita); mi rendo comunque conto del carattere indimostrato, fideistico di tutte le mie credenze che non siano quelle dell’ esistenza delle sensazioni presentemente in atto. Non conosco la teoria connessionista della coscienza, ma (se ho ben capito afferma questo, o per lo meno anche questo) credo che ogni certo determinato stato di coscienza sia coesistente ad (non: che sia la stessa cosa di!) un certo determinato stato funzionale del cervello (come stanno sempre più efficacemente dimostrando le neuroscienze); e che poiché il divenire degli stati funzionali del cervello segue regole ben precise e deterministiche, essendo in ultima analisi dovuto al procedere dei potenziali di azione negli assoni e alla trasmissione trans-sinaptica degli impulsi nervosi (eccitatori o inibitori), che è perfettamente riducibile a reazioni chimiche fra mediatori e recettori di membrana, gli stati di coscienza (comprese le volizioni “libere”; cioè non imposte da coercizioni estrinseche) accadono inevitabilmente e sarebbero in linea teorica, di principio (non in pratica, di fatto!) perfettamente prevedibili qualora si avesse una perfetta conoscenza delle corrispondenze fra stati di coscienza e stati funzionali cerebrali e del succedersi degli stati funzionali cerebrali secondo le “ordinarie” leggi fisiche e chimiche. Grazie per l' attenzione. |
16-01-2013, 21.03.41 | #7 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Caro Giulio
Ma sì, chiamiamola pure "ontologia"; visto che, come correttamente affermi, i due termini sono praticamente sinonimi. Dicevo che, a mio avviso, vi sono due fondamentali atteggiamenti cui il problema dell'Essere conduce. Uno di questi è quello che individua l'Essere nella "necessità". Per comprendere quello che intendo dire non bisogna subito pensare a Parmenide (o a Severino). Più interessante è riferirsi ad Aristotele, come dicevo, anche se penso sia Hegel a darne la formulazione più esplicita e, soprattutto, più comprensibile per persone che, come tutti noi, hanno ben presente il concetto di "coscienza" (un concetto pressochè sconosciuto a Parmenide, il quale esprime null'altro che il carattere "logico" della necessità ontologica - se l'Essere è, il non Essere non può essere). Sarebbe, ritengo, estremamente interessante analizzare quanto la concezione di Parmenide influenzi Aristotele nella formulazione del principio di non contraddizione, ma non divaghiamo troppo. Hegel, a mio parere, fa un'operazione che più chiara non potrebbe essere: fa coincidere le cose corporee e quelle incorporee nel celebre assioma "il reale è razionale e il razionale è reale". Inutile dire che con questa affermazione la "Battaglia dei Giganti" non ha proprio luogo, visto che le cose corporee "sono" le cose incorporee. Hegel dunque nega Platone e la sua distinzione fra corporeità ed incorporeità; "ritorna" a Parmenide ricostituendo un'unità indissolubile, ma lo fa "superando" la negazione parmenidea del "divenire"; anzi "fagogitandola" nella affermazione per cui l'Essere e il Nulla sono una sola entità (ciò che "è": "poichè ciò che è, è la ragione", dice Hegel). Tuttavia, io trovo che in Hegel rimanga immutata la concezione parmenidea per cui l'Essere possiede un significato primario e fondamentale (un significato cui altri significati possono essere ricondotti: in questo risiede l'essenza metafisica, o ontologica che dir si voglia). Questo significato primario e fondamentale consiste nel vedere l'Essere in ciò che è, ovvero senza possibilità alcuna che esso sia ciò che non è (la "fagocitazione" del divenire assume, in ciò, un'importanza secondaria). Insomma: per Hegel l'Essere è "necessariamente" ciò che è (un pò come in Aristotele, che nella "Metafisica" afferma "l'impossibilità dell'altrimenti"). Altrettanto (e vengo un pò ai punti cui tu sei più interessato) mi sembra faccia Spinoza, visto che sostiene la necessità con cui le cose derivano dalla sostanza divina (nel caso di Spinoza, l'Essere come significato primario e fondamentale è chiaramente individuato in Dio). Ovviamente Hume è ben distante da queste tesi di Spinoza. Per lui non esiste una "necessità" (come, aristotelicamente, impossibilità dell'altrimenti), e nelle cose che divengono può, semmai, essere colta soltanto una certa "regolarità"; una uniformità che la percezione empirica può rilevare. Siccome, in Hume, non è rilevabile un problema dell'Essere come "necessità", io credo che potremmo attribuire a Hume una concezione dell'Essere come "possibilità" (quel secondo indirizzo di cui parlavo). Ma il problema dell'Essere come possibilità non dà luogo ad una metafisica simmetricamente opposta a quella dell'Essere come necessità: non dà luogo ad alcuna metafisica (perchè non individua nell'Essere un significato primario e fondamentale). Naturalmente questo non esaurisce il problema dell'Essere, ci mancherebbe (bisogna sempre rispondere alla domanda su cosa distingue le cose corporee e quelle incorporee, visto che entrambe "sono"...). A tal proposito, e se qualcuno ne sarà interessato, bisognerà tirare in ballo prima di tutto Heidegger, il quale dice: "abbiamo oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che intendiamo con la parola "essente"? Per nulla. E' dunque necessario riproporre il problema del senso dell'Essere". Per proseguire poi con una analisi del termine "Essere" alla luce dell'ermeneutica gadameriana e della semiotica di Peirce. Ed infine Levinas, ovvero colui che io considero l'unico che, durante il novecento, abbia saputo rispondere alla "destrutturazione totale" operata dal grande Nietsche. un saluto (PS. In verità, c'è un'altra "disciplina" su cui ti metterei ben più in imbarazzo che non in questa... ) |
17-01-2013, 22.53.20 | #8 |
Ospite abituale
Data registrazione: 26-11-2008
Messaggi: 1,234
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ Mauro (Oxdeabeef)
Devo confessarti che Hegel mi è sempre stato estremamente oscuro (forse al liceo avevo un professore di filosofia che non lo amava; fatto sta che non me lo ha fatto minimamente apprezzare). La “fagocitazione” del non essere da parte dell’ essere nel divenire (ammesso che l’ abbia ben capita; ma non ne sono sicuro…), mi sembra evidente, nel senso che il divenire ha “qualcosa” dell’ essere parmenideo (immutable) e qualcosa del suo contrario, il non-essere, dal momento che significa che ciò che era non è e ciò che è non sarà, ciò che non era è e ciò che non è sarà (essere e non-essere non si identificano ovviamente, non coesistono, ma il tempo consente il loro alternarsi, l’ avvicendarsi dell’ uno all’altro). Tuttavia si può osservare che il “divenire” così inteso (come sintesi di essere e non-essere) è semplicemente mutamento in generale, in senso astrattissimo, senza alcuna ulteriore caratterizzazione. Dunque può essere tanto mutamento assoluto o integrale, caotico, disordinato, senza alcunché di costante (mutamento assolutamente indeterministico; o indeterministico in senso forte) quanto mutamento relativo o parziale, regolare, ordinato (deterministico in generale). Quest’ ultimo (il divenire ordinato) può a sua volta essere considerato una sintesi del mutamento assoluto, integrale, caotico e dell’ essere parmenideo, immutabile, fisso; infatti è caratterizzato da certi aspetti mutevoli (i casi o avvenimenti particolari e concreti) e da certi altri aspetti fissi ed immutabili (le regole generali del divenire, che sono sempre quelle e possono essere astratte dalle sue mutevoli caratteristiche particolari e concrete, consentendo la conoscenza scientifica, che è appunto innanzitutto conoscenza di queste regole o leggi generali immutabili del divenire; e consentendo conseguentemente il calcolo degli eventi particolari e concreti tanto nel passato quanto nel futuro e l’ utilizzo di mezzi -tecnici- atti a conseguire determinati fini in certe determinate circostanze). A sua volta il divenire ordinato (deterministico in generale) può essere deterministico in senso stretto o meccanicistico (calcolabilità dell’ accadere dei singoli eventi) oppure deterministico in senso debole (id est: indeterministico in senso debole), ovvero probabilistico o statistico (calcolabilità delle proporzioni nelle quali accadono eventi reciprocamente alternativi, ma in numero limitato e ben definiti -non casuali- per lo meno nell’ ambito di insiemi sufficientemente numerosi di casi); quest’ ultima variante probabilistica statistica è una sintesi di divenire ordinato meccanicistico e mutamento integrale, caotico, tant’ è vero che può essere considerato sia deterministico sia indeterministico in senso debole. Ma credo che determinismo non sia uguale a necessità e indeterminismo a possibilità, bensì che determinsmo significhi semplicemente conoscibilità indiretta, per calcolo (previsione o postvisione) di fatti particolari concreti a partire da altri fatti particolari e concreti e dalle leggi generali astratte del divenire (e dunque anche, in particolare, calcolo e previsione degli effetti conseguibili come fini di determinate cause impiegabili come mezzi), mentre indeterminsmo significa impossibilità di conoscenza indiretta, per calcolo (pre- e post- -visione di fatti particolari concreti a partire da altri fatti particolari concreti nell’ assenza di leggi generali astratte del mutamento). Determinismo significa non predicabilità logicamente coerente, sensata, non autocontraddittoria (non pensabilità) di più alternative nel divenire (circa i singoli eventi o circa le proporzioni di eventi reciprocamente alternativi a seconda che si tratti di determinismo forte o debole) unitamente alla predicazione dello stato di cose presenti. Indeterminsmo significa predicabilità logicamente coerente, sensata, non autocontraddittoria (pensabilità) di più alternative nel divenire unitamente alla predicazione dello stato di cose presenti. In realtà credo si possa concordare con quanto attribuisci a Parmenide, Aristotele ed Hegel, cioè che l’ essere (l’ essere reale) è necessario, non possibile; il possibile ha “diritto di cittadinanza” solo nel pensiero (possibile è ciò che è pensato, immaginato; non ciò che è reale, il quale per ciò stesso non può non essere reale). In ultima analisi “possibile” è sinonimo di “pensabile” (in modo logicamente corretto, non autocontraddittoriamente, sensatamente). Hume secondo me non afferma la possibilità ma semplicemente sospende il giudizio sulla necessità causale degli eventi; rileva che non c’ è modo di provare che il divenire naturale segua una concatenazione causale, ovvero sia relativo, ordinato, e dunque necessario anzichè possibile (non lo nega -e nemmeno lo afferma- ma ne nega solo la dimostrabilità). Per lui l’ essere (e il non-essere, fagocitati o sintetizzati nel mutare) potrebbe essere tanto necessario quanto possibile, essendo impossibile risolvere il dilemma. Quanto alla questione pensiero-materia per parte mia sono un dualista: per me sono identicamente reali (anche se la materia è conoscibile intersoggettivamente e il pensiero no (ma non per questo non è meno reale), e l’ ontologia di entrambi é per me di tipo fenomenico, apparente, sensibile: “esse est percipi”, tanto della materia quanto del pensiero. La roccia più dura e massiccia è altrettanto un insieme di sensazioni quanto il più sottile dei ragionamenti o il più delicato dei sentimenti; per questo respingo l’ epifenomenismo, che ritiene più reale la materia del pensiero, anche se lo considero la forma più intelligente e -relativamente- meno errata di materialismo in quanto, contrariamente agli altri materialismi, si rende per lo meno conto che il pensiero non è qualcosa di materiale, secreto dal cervello come il fegato secerne la bile, o emergente -?- o sopravveniente -?- al cervello. E' qualcosa d' altro, di non materiale, come necessariamente richiede la conoscenza scientifica (e dunque non interferente con il divenire materiale, il quale ultimo procederebbe esattamente così come procede di fatto anche qualora il pensiero non esistesse) Quanto all’ altra disciplina, quella delle due ruote mosse da pedali tramite catena, evidentemente, beh faccio parte di un’ altra categoria di età, ma mi difendo ancora benino. Ma tu, invce, stammi benone! |
17-01-2013, 23.34.36 | #9 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ Sgiombo (Giulio)
Fammi capire bene una cosa (sulle altre che hai scritto). Secondo te gli "oggetti" esistono indipendentemente dalla coscienza o non esistono proprio? Mi spiego meglio: tu e i tuoi vicini di casa (oltre al loro gatto, e il particolare è importante più di quanto non si creda...) vedete un albero che esiste indipendentemente da voi o siete voi che lo "producete"? Immagino che tu mi risponda con: no, noi non lo "produciamo", ma lo "interpretiamo", cioè interpretiamo un oggetto (il "qualcosa" di Hume) che chiamiamo "albero" e di cui sappiamo etc etc. Il gatto (ecco la sua importanza...) interpreterà quel "qualcosa"; quell'"oggetto"; vattelapesca come (certamente non lo chiamerà albero, nè di esso saprà le cose che sapete tu ed i vicini; ma magari ne saprà altre che voi ignorate...). Questo discorso è di fondamentale importanza proprio per quel che riguarda l'Essere, e se avrai la pazienza di seguirmi nell'argomento te ne mostrerò le "strabilianti" (per me lo sono) connessioni (pur se questa sarebbe stata la penultima "puntata", diciamo: quella in cui prendere in considerazione la semiotica di Peirce. Una sola cosa ti chiedo, se puoi: facciamo questo ragionamento in forma dialogica, cioè con risposte possibilmente contenute (vale anche per me, che spesso esagero - vedi l'ultimissima risposta che ti ho dato). E' molto più interessante (anche se la pubblicazione dei post con la moderazione la rende più difficile, ma d'altronde la moderazione è una scelta, a mio avviso, condivisibile). ciao |
18-01-2013, 14.30.21 | #10 |
Ospite abituale
Data registrazione: 14-12-2012
Messaggi: 381
|
Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ Giulio (alias Sgiombo)
Allora, vediamo un pò di focalizzare alcuni concetti-chiave, e di trovare un "terreno comune" di discussione (la cosa è di importanza capitale, e spesso la si trascura. Pensiamo, tanto per esemplificare, al "terreno comune" come a quel qualcosa su cui tu, i tuoi vicini e...il gatto trovate un accordo nonostante le diverse imterpretazioni). Quando affermo il termine "Essere" affermo un qualcosa che non deve essere visto necessariamente in termini metafisici. L'Essere, per come io lo interpreto, è un qualcosa di così generico (direi proprio il massimo della genericità, ma ci arriverò...) che "comprende" praticamente tutto; la metafisica come l'empirismo. Onde poterne parlare (mica è così facile anche il solo parlarne; pensa che Heidegger lo scriveva cancellato da una croce....), io ti propongo di definirlo come "significato primario e fondamentale, cui tutti gli altri significati possono essere ricondotti". Da questo punto di vista, la sospensione del giudizio da parte di Hume lo colloca nel senso dell'Essere come "possibilità" (la possibilità è, in radice, possibilità che sia e/o che non sia), in quanto lascia aperta la porta a qualunque ipotesi (anche alla necessità, quando l'Essere come necessità non fa altrettanto - vedi in Hegel). Come ti accennavo, una concezione dell'Essere come "possibilità" non dà luogo ad alcuna metafisica (ed infatti in Hume non c'è accenno di metafisica). Adesso vediamo di "saldare" le due discussioni che si sono sviluppate da questo post. Ritieni che ci possa essere un significato primario e fondamentale al quale le diverse interpretazioni (tua, dei tuoi vicini e del gatto, cioè tutti i significati) dell'albero possano essere ricondotte? Tieni presente che con il termine "significato" io intendo la dimensione semantica del procedimento segnico, ovvero il riferimento del "pensato" (un segno non è necessariamente solo un segno linguistico) al suo oggetto. Ritieni, in altre parole, raggiungibile una così "pura" oggettività di quel qualcosa che chiami "albero" tanto da "mettere d'accordo" (diciamola così...) persino il gatto? un saluto |