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22-01-2013, 14.56.50 | #22 | ||||
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Citazione:
Mi auguro vivamente che le cose non stiano così! Anche se spesso mi verrebbe di darti ragione.. Citazione:
poiché l’interpretazione geometrica anch’essa risulta in questo contesto di lettura rappresentare entità interpretativa a parte, al pari di Beppe, Laura etc.. Penso che porsi il quesito dell’esistenza dell’ “albero in sé” sia un difetto di impostazione proprio perché l’albero è, in primo luogo, poiché testimoniato dal nostro considerarlo tale. Chiedersi se “l’oggetto in sé” può essere tale porta su di un piano di realtà ben differente dal nostro, dove ogni ‘aspetto(o cosa)’ è in quanto strettamente in qualità di ‘rapporto con’. La stessa considerazione spaziale (temporale) si esplica attraverso il suo parametro, nuovamente in qualità di rapporto. Forse allora la domanda potrebbe essere: è ciò di cui facciamo esperienza come rapporto ad essere l’Essere in questione? E’ il rapporto ad essere l‘Essere in questione? Per porre questa domanda dovremmo però considerare il ‘rapporto’ non più come una relazione fra ipotetiche (o assodate) parti ma come una ben definita ‘entità’. Un po’ come considerare il negativo di una foto, l’immagine che ne risulta è un’altra nel contrasto invertito, non so se sono riuscita a spiegarmi. D’altronde, ciò che i nostri sensi individuano come “albero” non è ad un livello differente di realtà un ben differente campo di forze? E noi? Citazione:
che fanno collassare l’ipotetica risposta in un circolo chiuso in sé stesso. Quando si parla o si ipotizza l’Essere ci si pone in un contesto dove è fondamentale tenere presente che ne discutiamo partendo obbligatoriamente dal concetto di relazione pertanto entro quello di relativo. Citazione:
E ritorniamo alla questione del definire la (nostra) coscienza (la quale registra (partorisce?) la realtà ‘sensi’) Azzardo una domanda.. Cosa ci stiamo chiedendo in realtà? Che cosa stiamo cercando di comprendere? |
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22-01-2013, 15.21.07 | #23 |
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@ Giulio
"Si può dire che c' é un campo si senso generale di chi si interessa di motociclismo che può essere variamente suddiviso in numerosissimi sottoinsiemi variamente sovrapponentisi gli uni agli altri? E quindi che ciascuno "possiede" (o parteciopa di) molti campi di senso in varia misura per l' uno o l' altro di essi? (Cerco di capire ma non riesco ad evitare un' impressione di oscurità almeno in parte persistente)". Noto che hai compreso alla perfezione il concetto di "segno" (o campo di senso): non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. O meglio: c'è ancora da capire come ogni parola che scriviamo, e prima ancora ogni pensiero che possiamo avere, si inscrivono necessariamente all'interno di un significato (segno) ben preciso. E' come avere un "insieme" (ad es. l'Essere) al cui interno ci sono dei sottoinsiemi (ad esempio quelli relativi alle varie specie viventi). All'interno del sottoinsieme "uomo" avremo altri insiemi (le "culture" umane), e all'interno dell'insieme che rappresenta la cultura occidentale avremo altri sottoinsiemi (relativi alle culture anglosassone, latina etc). Questo fino all'individuo, perchè è l'individuo stesso ad avere un proprio segno, o campo di senso, specifico. Naturalmente, questi insiemi potranno intersecarsi fra loro creando altri sottoinsiemi. E' questo che fa sì che ogni pensiero, prima ancora che ogni parola, sia "segno": ogni significato che possiamo comprendere ci viene da un significante. Ad esempio, il termine "razionalità", per me (cioè per il mio significante - diciamo per il mio retroterra culturale -, che precede il significato che io dò al termine) rappresenta quel qualcosa che si commisura in base all'efficacia dei mezzi prescelti in vista di un fine. Mentre presumo (presumo, poi sarai tu eventualmente a dirmi se presumo giusto...) che per te significhi in genere una procedura che prevede una "accertabilità" (in genere empirica, ma non necessariamente tale). Questo, a mio avviso, avviene perchè il tuo "significante" (il tuo retroterra culturale) è di tipo scientifico. Ma la scienza (e questo fa a cazzotti con l'"esse est percipi", che affermavi come fondamento di ogni conoscenza) assume come proprio un "oggetto", ovvero un qualcosa di non percepito dal soggetto (che accertabilità sarebbe?). Capisci? Non si tratta di avere "ragione" o banalità simili. Ma si tratta solo e sempre di risalire la catena segnica alla ricerca del significante che determina un significato piuttosto che un'altro. Naturalmente, se questi discorsi (che, fra l'altro, spiegano le difficoltà di comprensione in genere) ti annoiano basta solo dirlo. un saluto |
22-01-2013, 21.28.29 | #24 |
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@ Ulysse
Ho ripetuto, svariate volte, che personalmente preferisco il termine "segno" (a "campo di senso", o "contesto"). E questo semplicemente perchè meglio mi permette di inquadrare il discorso in termini semiotici, in quanto si parla (in maniera che io giudico filosoficamente corretta) di una relazione triadica, che è fra segno, significato e significante. Dal mio punto di vista (che è il prodotto di un particolare segno semiotico, ovvero che è il prodotto di una certa e particolare catena di significati e di significanti - il mio "retroterra culturale"), è corretto dire non: "l'albero c'è"; ma l'oggetto che all'interno di una particolare catena segnica (banalmente: quella riferita alla nostra lingua) viene chiamato "albero" c'è. La puntualizzazione è tutto fuorchè banale, e segna (segna...) la differenza fra il pensare filosoficamente e il pensare alla maniera del cosiddetto "realismo ingenuo" (che non ha ancora compreso che, come dice Sgiombo, "esse est percipi": tutto viene percepito dal soggetto). Mi sembra, inoltre, inutile continuare a sottolineare che nessuno mette in dubbio la "ex-sistentia" dell'oggetto di percezione (se non certe forme estreme di idealismo). A questo punto però, occorre che noi due ci mettiamo d'accordo una volta e per tutte. Se vogliamo discutere di questioni scientifiche (argomento nel quale la mia preparazione è molto relativa), credo che ben difficilmente troveremmo punti di disaccordo (sia chiaro che io non mi sogno neppure di mettere in discussione la validità conoscitiva della scienza). Se invece, come sembra tu faccia, volessimo estendere la validità scientifica così tanto da ricreare un nuovo dogma religioso, allora il disaccordo non potrebbe essere più totale. Tanto per cominciare, la scienza ha bisogno di assumere come proprio "oggetto" un qualcosa di ritenuto, appunto, "oggetto" (nella scienza non può valere l'"esse est percipi"). Secondariamente, la "verità" è scientifica quando è falsificabile, cioè quando viene assunto a-priori il principio per cui una nuova scoperta ne può falsificare un'altra (o altrimenti è null'altro che un dogma religioso). Tutto questo vuol dire che la verità scientifica è sì "valida"; ma lo è in maniera relativa. A tal proposito, ritengo che dovresti riflettere sul come certe indebite ed assolutistiche estensioni della scienza possano portare ad affermare autentiche assurdità, come quella circa l'"evoluzionismo culturale" (che hai sostenuto in un altro post); un concetto metafisico che, tra l'altro, è stato usato dalle peggiori teorie della conservazione politica. Insomma: bisogna a mio avviso stare attenti ad usare il termine "metafisica" in modo conscio, o si finisce per assumerlo inconsciamente... Sull'Essere (a puro titolo di curiosità, perchè non posso ridurre in poche righe un concetto di così grande complessità): "Essere" è solo una parola (semioticamente: solo il prodotto finale di una certa e particolare catena di significati e significanti). Molto più interessante è semmai il pensare all'inizio "assoluto" da cui poi si origina la catena di significanti e significati: all'"oggetto" nella sua più pura oggettività (con la consapevolezza dell'impossibilità di fare questo, visto che già il pensare è "segno"; che già il dire "oggetto" è interpretare - quindi "filtrare", per così dire, l'oggetto attraverso il soggetto). La filosofia, nella sua più alta espressione, è appunto il disquisire DELLA relatività delle cose (e si disquisisce della relatività appunto solo in relazione all'assolutezza): la filosofia non ha, a differenza della scienza, bisogno di porsi un "oggetto" come se esso fosse, appunto, un oggetto. Questo perchè essa non ha bisogno di cercare nessuna "validità", non essendo utile come la scienza. un saluto |
23-01-2013, 14.50.55 | #25 |
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@ Gyta
Citazione di Sgiombo: certamente i diversi insiemi di sensazioni materiali denominati e indicati (tutti) come “quell’ albero” non sono sicuramente la stessa cosa, essendo reali ciascuno in una diversa coscienza; al momento, nell’ ipotesi considerata, in numero di quattro: nostra (1), di Beppe (2), di Laura (3), di Attila (4): credere che siano “la stessa cosa" significherebbe credere che 1 + 1 + 1 + 1 = 1; ovvero: 1 = 4 (sic!). per restare all’ esempio dell' albero nel giardino che ciascun senziente -per lo meno umano, in grado di “ragionare”- nella propria coscienza prende la lunghezza di quel ramo e la riporta lungo il tronco -tutto ciò sono tre o quattro distinti accadimento nell’ ambito di tre o quattro diverse coscienze!- per quattro volte Risposta di Gyta: “Temo” che la situazione sia proprio (in riferimento al tuo primo esempio) che la realtà albero sia “4”, anzi “5” poiché l’interpretazione geometrica anch’essa risulta in questo contesto di lettura rappresentare entità interpretativa a parte, al pari di Beppe, Laura etc.. Penso che porsi il quesito dell’esistenza dell’ “albero in sé” sia un difetto di impostazione proprio perché l’albero è, in primo luogo, poiché testimoniato dal nostro considerarlo tale. Chiedersi se “l’oggetto in sé” può essere tale porta su di un piano di realtà ben differente dal nostro, dove ogni ‘aspetto(o cosa)’ è in quanto strettamente in qualità di ‘rapporto con’. La stessa considerazione spaziale (temporale) si esplica attraverso il suo parametro, nuovamente in qualità di rapporto. Forse allora la domanda potrebbe essere: è ciò di cui facciamo esperienza come rapporto ad essere l’Essere in questione? E’ il rapporto ad essere l‘Essere in questione? Per porre questa domanda dovremmo però considerare il ‘rapporto’ non più come una relazione fra ipotetiche (o assodate) parti ma come una ben definita ‘entità’. Un po’ come considerare il negativo di una foto, l’immagine che ne risulta è un’altra nel contrasto invertito, non so se sono riuscita a spiegarmi. D’altronde, ciò che i nostri sensi individuano come “albero” non è ad un livello differente di realtà un ben differente campo di forze? E noi? Ulteriore replica di Sgiombo: Rispondo per la parte che mi riguarda a questo intervento che –a mio avviso un po’ stranamente- commenta quattro citazioni di tre diversi frequentatori del forum che mi sembrano essere più in disaccordo che in accordo fra loro. Nell’ esempio dell’ albero sostenevo che ci sono quattro insiemi di sensazioni fenomeniche, una per ciascun osservatore ipotizzato. La successiva ipotizzata misurazione (rapporto fra lunghezza di un certo ramo e lunghezza del tronco) è secondo me un‘ ulteriore insieme di sensazioni che si aggiunge o segue nel tempo (eventualmente, non necessariamente) quella della semplice visione dell’ albero, pur esso in ciascuna esperienza cosciente capace di linguaggio e ragionamento matematico (quindi al massimo in tre esperienze coscienti, quelle dei tre osservatori umani adulti e non in quella del gatto che non è in grado di fare un tale ragionamento). Non capisco i tuoi ragionamenti successivi (da “Penso che porsi il quesito” in poi). La mia convinzione è che per l’ appunto l’ albero -che considero come esempio di tutti gli oggetti materiali osservabili- non è altro che un insieme di sensazioni, reale fintanto che queste accadono; e che se qualcosa di reale esiste anche allorché esse non accadono, tale da spiegare la relativa costanza di esse (il fatto che sempre se ci si mette “nel posto giusto” e si guarda “nella giusta direzione” si vede l’ albero, cioè accadono, vengono ad esistere le sensazioni fenomeniche che lo costituiscono), questo “qualcosa” non può essere identificato (pena una patente contraddizione) con tale insieme di sensazioni ma deve essere un entità congetturabile (a la Kant: noumeno) anziché sensibile, apparente (a la Kant: fenomeno). |
23-01-2013, 15.07.06 | #26 |
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0xdeadbeef:
Noto che hai compreso alla perfezione il concetto di "segno" (o campo di senso): non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. O meglio: c'è ancora da capire come ogni parola che scriviamo, e prima ancora ogni pensiero che possiamo avere, si inscrivono necessariamente all'interno di un significato (segno) ben preciso. E' come avere un "insieme" (ad es. l'Essere) al cui interno ci sono dei sottoinsiemi (ad esempio quelli relativi alle varie specie viventi). All'interno del sottoinsieme "uomo" avremo altri insiemi (le "culture" umane), e all'interno dell'insieme che rappresenta la cultura occidentale avremo altri sottoinsiemi (relativi alle culture anglosassone, latina etc). Questo fino all'individuo, perchè è l'individuo stesso ad avere un proprio segno, o campo di senso, specifico. Naturalmente, questi insiemi potranno intersecarsi fra loro creando altri sottoinsiemi. E' questo che fa sì che ogni pensiero, prima ancora che ogni parola, sia "segno": ogni significato che possiamo comprendere ci viene da un significante. Ad esempio, il termine "razionalità", per me (cioè per il mio significante - diciamo per il mio retroterra culturale -, che precede il significato che io dò al termine) rappresenta quel qualcosa che si commisura in base all'efficacia dei mezzi prescelti in vista di un fine. Mentre presumo (presumo, poi sarai tu eventualmente a dirmi se presumo giusto...) che per te significhi in genere una procedura che prevede una "accertabilità" (in genere empirica, ma non necessariamente tale). Questo, a mio avviso, avviene perchè il tuo "significante" (il tuo retroterra culturale) è di tipo scientifico. Ma la scienza (e questo fa a cazzotti con l'"esse est percipi", che affermavi come fondamento di ogni conoscenza) assume come proprio un "oggetto", ovvero un qualcosa di non percepito dal soggetto (che accertabilità sarebbe?). Capisci? Non si tratta di avere "ragione" o banalità simili. Ma si tratta solo e sempre di risalire la catena segnica alla ricerca del significante che determina un significato piuttosto che un'altro. Naturalmente, se questi discorsi (che, fra l'altro, spiegano le difficoltà di comprensione in genere) ti annoiano basta solo dirlo. un saluto Sgiombo: Innanzitutto questi discorsi non mi annoiano (almeno per ora; in futuro non so), infatti ho concluso il mio precedente intervento esortandoti ad avere pazienza e cercare di insistere nel cercare di farmi capire le tue convinzioni malgrado le evidenti difficoltà. Ovviamente il primo dei due che perderà la pazienza lo comunicherà serenamente e pacatamente all’ altro (e ai restanti frequentatori del forum), che -credo- non ne farà un dramma e non si offenderà per questo. Devo confessare che mi sembri un po’ troppo ottimista nel ritenere che ho compreso alla perfezione il concetto di "segno"; mi rimangono dei dubbi e un senso di incertezza ed oscurità. Viceversa mi sembra che tu abbia capito davvero alla perfezione che cosa io intenda per “razionalità” (che io esprimerei con parole leggermente diverse ma dal significato sostanzialmente identico: il credere al minor numero possibile di cose indimostrate compatibile con una vita pratica “normale”, nella consapevolezza che sono indimostrate. Secondo me essere razionalisti fino in fondo significherebbe essere assolutamente scettici, ma non sono disposto a -non mi sento, irrazionalmente, di- precludermi una vita attiva, la quale presuppone inevitabilmente credenze; dunque rinuncio a un razionalismo assoluto per un atteggiamento semplicemente “ragionevole”). Devo però dire che ho frequentato il liceo classico, che aborro lo scientismo positivistico spregiatore della filosofia (che ritengo una forma di irrazionalismo), e che mi piace considerarmi (non ridere per la presunzione) un filosofo (diversa cosa dall’ essere un professore di filosofia), che fa il medico radiologo per campare e poter filosofare, un po’ come (fatte le debite, enormi proporzioni: non sono un megalomane!) Spinoza faceva l’ ottico. Quindi non so se il mio retroterra possa dirsi “scientifico”; d’ altra parte il mio lavoro si colloca -interessantissimamente- all’ intersezione fra scienze esatte e cosiddette scienze umane. Anche se di fatto gli scienziati generalmente -non essendo, se non raramente, buoni filosofi- seguono il fallace senso comune che confonde fenomeni e noumeno e pretende contraddittoriamente che gli oggetti sensibili esistano anche quando non esistono, la conoscenza scientifica mi sembra perfettamente conciliabile con l’ “esse est percipi”. Basta solo ammettere la (indimostrabile) intersoggettività dell’ insieme delle percezioni materiali naturali, che intendo come perfetta corrispondenza (in particolare per quanto riguarda la possibilità di rilevarvi rapporti quantitativi esprimibili mediante numeri, e contrariamente a quanto accade alle percezioni interne o mentali) fra tutte le sue diverse e separate realizzazioni in ciascuna delle diverse esperienze coscienti, umane e animali, che ammetto esistere (indimostrabilmente; alla lettera: “per fede”; e che per la cronaca non credo affatto siano da identificare con i rispettivi cervelli, né con il loro funzionamento, né che ne “emergano” o vi “sopravvengano”, qualsiasi cosa questi oscuri e vaghi concetti possano significare). Oxdeadbeef (a Ulysse): Tanto per cominciare, la scienza ha bisogno di assumere come proprio "oggetto" un qualcosa di ritenuto, appunto, "oggetto" (nella scienza non può valere l'"esse est percipi"). Secondariamente, la "verità" è scientifica quando è falsificabile, cioè quando viene assunto a-priori il principio per cui una nuova scoperta ne può falsificare un'altra (o altrimenti è null'altro che un dogma religioso). Tutto questo vuol dire che la verità scientifica è sì "valida"; ma lo è in maniera relativa. A tal proposito, ritengo che dovresti riflettere sul come certe indebite ed assolutistiche estensioni della scienza possano portare ad affermare autentiche assurdità. [omissis] Insomma: bisogna a mio avviso stare attenti ad usare il termine "metafisica" in modo conscio, o si finisce per assumerlo inconsciamente... Sgiombo: Sottoscrivo interamente, salvo la precisazione di cui sopra circa "esse est percipi" e conoscenza scientifica (beh, vedi che su qualcosa di non secondario ci intendiamo e addirittura concordiamo. Un motivo in più -spero- per valutare anche da parte tua che valga la pena di continuare gli sforzi di comprensione reciproca su quanto ci appare difficilmente comunicabile; senza pretendere di riuscirci ed essendo disposti ad accettare serenamente un' eventuale interruzione unilaterale degli sforzi stessi, da qualunque dei due venisse). A presto! |
23-01-2013, 20.07.04 | #27 | ||
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Citazione:
Il linguaggio matematico non tiene esattamente conto di chi misura, seppure sia l’uomo ad usarlo, ma del rapporto fra l’oggetto esaminato ed un altro elevato a modello, in questo caso immagino il semplice metro, visto che citi lunghezze. Per cui, sempre secondo il mio intendere, i linguaggi, se così vogliamo chiamarli, sono 5 : quello matematico che prescinde i quattro individui (seppure da loro usato ma non presieduto) e i quattro individui stessi (intesi ognuno come sintesi di un personale linguaggio: personale e differente poiché simili nelle facoltà di visione ma non identici nel risultato globale percettivo. ) Citazione:
Mentre la mia riflessione mirava invece a fare emergere una differente visione d’insieme che al di là dell’insieme delle sensazioni/percezioni e dell’entità che apparentemente le suscita, porti a considerare le due ipotizzate controparti (l’osservatore e l’albero) al pari di un negativo di una foto dove l’entità reale consterebbe nella relazione stessa, eletta ad assoluto; relazione che non è come appare risultanza di due entità reali e distinte ma per l’appunto relative ad un sistema dove la relazione definisce l’identità. Il reale (=l'entità cercata) in tal caso coinciderebbe col sistema che a sua volta non sarebbe che una delle (infinite) modalità attraverso cui l’entità primordiale si esprime. Non chiedermi solo "esattamente, come..?”.. |
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23-01-2013, 22.27.39 | #28 |
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@ Giulio
Mi sembra impossibile che uno che, come te, sostiene che l'"oggetto" non è mai in sè, ma è interpretato dal soggetto (esse est percipi) non riesca a penetrare i concetti di segno, significante e significato (comincio a sospettare che la colpa sia la mia...). Cos'altro può voler dire "interpretare", se non cercare di risalire al significato di qualcosa? Ad esempio, Aristotele dice che: "la lingua è interprete dei pensieri" (in questo caso, il significante è il pensiero - che è a sua volta "segno", o significante, in quanto anche un pensiero si inscrive in un particolare "insieme segnico", quale può essere una certa cultura-; mentre il significato è quello che la lingua dice, ma quello che la lingua dice sarà a sua volta significante per colui che ascolta ciò che "quella" lingua dice, e così via). Ora, pensa a quanti significanti e a quanti significati si sono succeduti nei millenni solo quando affermiamo la proposizione: "l'oggetto non è mai in sè, ma è interpretato dal soggetto". Pensa quante lingue e quanti pensieri ci sono "dietro" una frase che risulta perfettamente comprensibile all'interno del nostro ("nostro" di filosofi, dici molto bene) insieme segnico; mentre risulta totalmente incomprensibile al di fuori di esso. Non c'è nulla di metafisico nella semiotica, renditene conto (Umberto Eco, che personalmente ammiro molto, arriva provocatoriamente ad affermare: "la verità? E' ciò che si dice" - che magnifico argomento per un post...). Anch'io credo che la scienza sia perfettamente conciliabile con l'"esse est percepi", ma non per i motivi da te addotti (l'intersoggettività può dare "validità", ma non "verità"). Io penso che la scienza sia uno strumento magnifico; ma è appunto uno "strumento" (tranne quando diventa anche "scopo", come nello scientismo). La filosofia, in quanto disciplina in-utile, non paga lo stesso prezzo che è costretta a pagare la scienza (questo "prezzo" è la sua utilità). Essa può permettersi un lusso che la scienza non può permettersi: può cercare di dirimere la dicotomia assoluto-relativo; può perlomeno provare a parlarne. La scienza no, essa deve accontentarsi di una verità che è necessariamente relativa (come la stessa teoria della relatività ha scientificamente, e quindi ricorsivamente, provato). Ma una verità relativa non è una verità: è appunto una "validità"; e la validità, anche se certamente considerata, non può bastare ad una disciplina (la filosofia) che cerca (in-vano; in-utilmente) la Verità: quella con la "V" maiuscola (per rispetto, sì, come il credente fa verso gli oggetti della sua fede...). Sono convinto che questo discorso non ti lascia indifferente. Perchè anche tu, sì, sei in cerca della Verità, e poco importa se, come me, sei consapevole dell'impossibilità di trovarla; se, come me, sai che cercherai invano - la filosofia è ricerca: essa, in quanto in-utile, non si soggioga a nessun "risultato". Questo l'"insieme" più grande che ci contiene: assieme. All'interno di questo, ve ne sono altri che non abbiamo in comune, ma dei quali possiamo risalire la catena dei pensieri e delle parole (per dirla con Aristotele) onde "svelarli": il filosofo non ha "fretta"... un caro saluto |
24-01-2013, 15.19.28 | #29 |
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@Mauro (Oxdeadbeef):
In realtà penso che gli oggetti di conoscenza siano (insiemi di) percezioni, non necessariamente interpretate in qualche modo; e che l’ eventuale interpretazione sia un’ ulteriore percezione o insieme di percezioni (mentale) aggiuntiva, in più rispetto alla semplice percezione dell’ oggetto interpretato (scusa l’ aggrovigliamento verbale). E che anche il soggetto delle percezioni (che è pure oggetto nel caso di quelle interiori o mentali) non sia di natura fenomenica; infatti credo (senza che possa essere dimostrato) che esista anche allorché non ha sensazioni. Quindi quando tu dici “interpretare” e io dico “percepire (nel senso dell’ esse est percipi)” credo che parliamo di due cose diverse; per questo secondo me non ci intendiamo (o per lo meno facciamo molta fatica a farlo). Per me il fatto che gli oggetti delle nostre conoscenze (le sensazioni) non siano cose in sé, esistenti indipendentemente dall’ essere percepite (anche allorché non lo sono) non significa che siano -non necessariamente- nostre interpretazioni. In particolare credo che quelle materiali siano intersoggettive, mentre le interpretazioni di esse, che sono sensazioni interiori o mentali (per esempio il predicato “esiste l’ albero”; oppure è “un pioppo”) sono soggettive. E fallibili (potrebbe essere un cipresso che confondo con un pioppo ...scandalizzando certamente uno che si occupa di bonsai; ovviamente era solo un esempio strampalato e in realtà credo di saperli distinguere). L’ argomento scienza/verità/validità è certamente molto interessante. Personalmente ho sempre creduto che uno degli scopi della filosofia sia l’ analisi critica della conoscenza in generale e anche quello della conoscenza scientifica in particolare, il cercare di capire cosa significhi conoscenza -vera- in generale e in che senso, entro quali limiti, a quali condizioni la conoscenza in generale e la conoscenza scientifica in particolare sono vere (se lo sono). A me, in quanto filosofo (dilettante) la conoscenza scientifica, a parte la curiosità per i suoi risultati “positivi” di conoscenza circa la realtà naturale, che pure non mi manca, interessa però soprattutto in quanto mi chiedo se, a quali condizioni, in che senso, entro quali limiti sia vera (in quanto uomo in generale mi servo senza problemi della sua validità o efficacia pratica; ovviamente senza problemi che non siano quelli di utilizzarla per fini moralmente accettabili e valutarne per quanto possibile e con la necessaria prudenza gli effetti, anche quelli “collaterali”, prossimi e remoti nello spazio, immediati e futuri nel tempo). Dopo una fugace conoscenza in un altro forum ci stiamo scoprendo molto diversi come retroterra culturale e come convinzioni, “mentalità”; la cosa non mi dispiace perché ritengo utile e interessante ascoltare (ovviamente fin che dovessi stancarmi o accorgermi che mi sottrae troppo tempo che preferirei utilizzare per altri interessi; spero non troppo presto) chi si colloca in altri campi di senso (ho detto giusto?) per niente banali; qualcosa ci accomuna comunque: innanzitutto la passione per bicicletta, ma anche -ne sono sicuro- la stima reciproca. A presto! |
25-01-2013, 15.09.42 | #30 |
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@ Giulio
Ma se definissimo il termine "percezione" nel suo significato più generico, e cioè nel senso di un venire a contatto con un oggetto, non credi che questo venire a contatto implichi già una attività conoscitiva? E non credi, di conseguenza, che questa attività conoscitiva sia già una interpretazione (interpretazione che, ripeto, io non lego necessariamente alla parola)? Quando affermi: "in realtà penso che...", come in apertura di risposta, non stai forse interpretando secondo il tuo campo di senso (potremmo anche chiamarlo "retroterra culturale e psicologico") una certa percezione, che hai, secondo la quale gli oggetti di conoscenza sono insiemi di percezioni che non necessariamente sono interpretati? Insomma: è possibile secondo te percepire senza interpretare (io non lo credo possibile)? Perchè questo mi sembra il punto. Io non nego l'"ex-sistenza" (cioè l'"esserci" dell'oggetto fuori dal soggetto che lo percepisce, o lo interpreta) dell'oggetto: nego che l'oggetto sia conoscibile al di fuori dell'interpretazione. Il problema, in altre parole, è di conoscenza, non di esistenza. Se io "vedo" un pioppo (pianta non adatta per fare un bonsai...), questo significa che lo "percepisco"; ma la percezione attraverso l'organo visivo altro non è che "conoscenza"; altrimenti come potrei dire: "vedo un albero" oppure: "vedo un pioppo"? Insomma: secondo me percezione, conoscenza e interpretazione coincidono (tant'è che il gatto dei tuoi vicini percepisce, quindi conosce, e interpreta l'oggetto che noi chiamiamo "albero" vattelapesca come). Sul rapporto fra scienza e filosofia mi piace riassumere sinteticamente quello che disse Cassirer, e cioè che Kant aveva visto molto lungo quando affermava l'"io penso" come unità originaria dell'appercezione. Per troppi secoli la scienza ha creduto di parlare di "fatti"; di "oggetti" e di leggi "universalmente valide" (che vuol dire "vere"). Poi la scoperta della relatività, con il suo mostrare l'"osservato" come dipendente dall'osservatore, ha scientificamente (e quindi "ricorsivamente") dimostrato che questa validità "universale" era solo un articolo di fede. Senonchè, e nonostante questo, la scienza ha continuato ad imperversare COME un articolo di fede, tanto che oggi assistiamo ancora ad una scienza intesa non come "mezzo", come utile e valido "strumento", ma come quell' elemento in grado di determinare sia i mezzi che i fini (questo discorso è quello sulla "tecnica"). Prendi, ad esempio, la "scienza" economica (ci si dimentica sempre, e colpevolmente, di specificare che l'attributo "scienza" è riferito ad una metodologia, cioè che si sta parlando di una scienza "sociale", non di una scienza "esatta"). Suddetta "scienza" ci riempie la testa con il termine "riforme", tanto che ormai questo termine è diventato luogo comune anche nell'ambito politico (anzi: nell'ambito della "scienza" politica...). L'essere "riformisti" è diventato sinonimo di essere "moderni", ove con quest'ultimo termine si intenda il superamento dei "vecchi" schemi politici, che a detta degli "scienziati" economici pretenderebbero assurdamente di indicare, loro, le finalità cui ci si dovrebbe indirizzare. Le finalità invece, secondo la "scienza" economica, devono essere stabilite dalla "scienza" stessa: ecco perchè del termine "riforme" non occorre specificare il contenuto (la "riforma" consiste in ciò che facilita il dispiegamento dell'efficacia della "scienza" economica). Bah, che dire? Gli avvenimenti degli ultimissimi anni qualcosina avrebbero dovuto insegnare, ma è dura disfarsi di una fede incrollabile (anche perchè con quale altra fede la sostituiamo?) un caro saluto |