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01-03-2013, 15.44.42 | #105 |
Ospite abituale
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ Aggressor
Dunque la tua concezione è di un Essere che "è" ciò che "è" nello stesso tempo e nello stesso modo? Io credo che solo così, alla maniera di Aristotele, tu potresti affermare un Essere che "diviene". Perchè un Essere che "diviene" è, necessariamente, un Essere che è stato, è e sarà; e come pure un Essere che è ciò che è in relazione al modo, ovvero a ciò che Aristotele definisce secondo le "categorie". Tuttavia, tu affermi: "nella mia costruzione gli enti compaiono, o forse emergono e si sottraggono, ma non sono loro il soggetto che diviene, in questo modo io posso dire di essere ancora io, anche se cambio aspetto, perché non è l'aspetto il soggetto del divenire, ma l'ente che vi è dietro, cioè il noumeno o l'Essere". Ecco, questa tua affermazione mi sembrerebbe particolarmente significativa. Perchè in essa il principio aristotelico, a mio parere, si evidenzia davvero nitidamente. Se non fosse (ecco il punto cruciale...) che Aristotele chiama "sostanza" ciò che tu chiami "noumeno" (o Essere). Dice infatti Aristotele: "il divenire si dice in più sensi: accanto a ciò che diviene assolutamente c'è ciò che diviene questa o quella cosa (Fisica)". Ora, per Aristotele è la sostanza a divenire "assolutamente", mentre gli attributi categoriali di essa divengono solo in riferimento ad un soggetto, il quale appunto "diventa" questa o quest'altra cosa. Quindi sì, sei ancora tu anche se cambi aspetto; ma solo finchè (fra duecento anni) non "diverrai assolutamente" (qui ci mischio Platone, ma è per capirci meglio, visto che anche Aristotele ammette comunque una "sostanza" che diviene, cioè un Essere che diviene). Insomma, anche se le ultime due righe le dovrei spiegare meglio (non sono esattamente a quel modo), per il momento mi fermo in attesa di tue considerazioni. un saluto |
01-03-2013, 18.35.38 | #106 | ||
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Colgo parecchie affinità col mio intendere, Maral..
anche se forse il discorso svolto in modalità che io reputo decisamente rigida.. come spesso purtroppo prassi della modalità nell'argomentazione filosofica.. Pertanto propongo qualche delucidazione su quanto fotografi.. Citazione:
Sbaglio o individui come qualità dell’ Essere (espresso attraverso gli Enti) la coscienza ? In tal caso puoi essere più chiaro su cosa intendi con coscienza? E a che livello di realtà la riconosci o individui o definisci come tale? Citazione:
come puoi affermare ugualmente, perché sembra tu lo affermi, che all’Essere si contrappone comunque l’assenza di Enti? Non sono gli Enti in un certo senso le qualità attraverso cui l’Essere si manifesta e si coglie? Ed allora anche l’assenza di Enti, ovvero delle qualità che li forgiano come Enti, non è anche questa una qualità dell’Essere e non un suo confine, seppure relativamente “semantico”? Ciò che a noi appare* per forza di cose è come appare ? Oppure quella semantica pone a noi un confine illusorio? Un confine che è proiezione del nostro linguaggio nel nostro intendere. *|appare essere / appare non-essere| |
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02-03-2013, 11.47.16 | #107 |
Ospite abituale
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Maral:
E qui mi è difficile capire. Se gli enti esistono solo come totalità e non come particolarità, come possiamo parlare di una loro totalità? totalità di che? Ci resta inevitabilmente solo l'Uno compatto parmenideo Allora, quando dico che la totalità degli enti si presta ad essere identificata con l'indefinito o con l'Essere compatto parmenideo ci sarebbe da fare questa precisazione che può portare a comprendere come ciò che ti chiedi sia in un qualche senso possibile. Elaboro subito un esempio: una galassia, che è composta da molti elementi con le loro forme, da una visione interna può apparire non "compatta", da una visione esterna e totale di questa molteplicità può, invece, apparire come compatta, cioè pure semplice. Dunque ciò che è dentro la totalità, "dentro l'Essere" appare a chi vi dimora, come accade comunemente, molteplice e contingente, ma voledo rappresentare tutto insieme da una visione esterna apparirà indistinto, semplice e compatto. Ora, da un lato questo potrebbe essere pensato come un limite tutto gnoseologico, ma come ho già sostenuto questi sono per me problemi tutti ontologici. Cioè non può essere contrapposto effettivamente un infinito, ma a qualunque cosa, non per forza ad un ente che "conosce" (per quanto poi io creda che tutta la natura sia fatta di cose che conoscono, di conoscenza), senza che esso si presenti come qualcosa di compatto e non come una molteplicità (si potrebbe pure dire, anche se non vorrei ammettere che sia la stessa cosa, ma almeno una precisazione ulteriore: senza che gli effetti che produce questo infinito, siano nei confronti di un'altro ente gli stesse che produrrebbe un Uno compatto). In più, come hai scritto varie volte pure te Maral, neanche l'Ente è totalmente definito. Infatti la nostra visione si muove nella finitezza, cioè nella limitazione che distingue, ma questa distinzione non si realizza assolutamente, ad un punto ci si scontra con la sfocatura, l'ambiguità. Questa sfocatura, questa ambiguità concede agli enti di mostrare il legame intrinseco con gli altri (e in questa situazione si ritrova anche il linguaggio) e il legame con l'infinito presentato -già nell'esperienza pragmatica- come indistinguibilità ulteriore (indistinto è infatti l'infinito dato nell'esperienza). Per cui solo illusoriamente, solo in un'astrazione che è come una approssimazione, l'ente dimostra la sua netta distinzione con gli altri e delle proprietà che "gli appartengono" in quanto lui è quello e non altro. Ancora volevo dire qualcosa circa la distinzione tra Essere e non-Essere, poiché dici che il contenuto della parola Essere lo ritrovi nella contapposizione col non-essere. Eppure voglio essere molto esplicito sulla questione della denotazione, cioè del riferimento d'un "flatus vociis". Quando dici che l'Essere è l'opposto del non-essere sembra accettabile perché il suono o la scritta di questa parole è diversa, ma il contenuto effettivo è qualcosa di diverso. Pure la "cupola sferico-quadrangolare" è da me colta almeno come un suono, ma c'è un contenuto ditro a questo riferimento? Io immagino la sfera, la cupola, ma non queste cose poste assieme, non c'è una vero contenuto per me della "cupola sferico-quadrangolare". Poiché la forma dell'Essere e quella del non-essere coincidono (tutti e due non ne possiedono alcuna in realtà), io non trovo una differenza di contenuto tra i due. A questo punto, Maral, se vogliamo continuiamo (e penso che potremmo ben farlo), se preferisci però possiamo interrompere, per dischiudere un ulteriore dialgo a venire . Per quanto riguarda 0xdeadbeef, tu mi leggi bene tramite Aristotele. Per me si, l'Io è in qualche modo sempre uguale, mentre le sue manifestazioni sono diverse. Alla fine però mi rendo conto che forse sbaglio a dire che l'Essere diviene, cioè l'Essere è un soggetto "sempre uguale", mentre a divenire è il modo in cui appare, cioè l'Ente, che fortunatamente non coincide col soggetto, con l'Io, potrei ammettere. I predicati mutano ma non coincidono col soggetto (nella visione interna e approssimata all'Essere), con la sostanza Aristotelica, col riferimento primario. Saluti |
02-03-2013, 13.48.43 | #108 | ||
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Citazione:
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Certo, anche il Non Essere appare e appare come pura contraddizione, come Non Ente e quindi anche come Non Qualità affinché l'Essere possa apparire come Ente che ha in sé tutti gli enti (e per questo proietta oltre se stesso il Niente che non è e quindi non è un ente). Per questo assimilo il Non Essere al contorno dell'Essere, ma è un contorno ontologicamente impossibile, per quanto in esso vi sia un valore semantico preciso che è appunto quello di far sì che l'Essere appaia come quel Tutto che è, appaia il suo onnicomprensivo essere generalissimo. La radicale distinzione tra Essere e Non Essere è a mio avviso legata alla presa di coscienza linguistica astratta complessiva della realtà presa tutta insieme. Ciò che ci appare è necessariamente come appare (compreso lo stesso non essere privo di significato ontologico), la finzione sta nel voler intendere che un modo dell'apparire (un modo di prendere coscienza) sia l'unico modo concretamente possibile di essere del mondo e di noi stessi nel mondo. |
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02-03-2013, 20.11.46 | #109 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Aggressor, il paragone con un osservatore che guarda dall'esterno una galassia e la vede compatta a causa della distanza non può venire assunto per l'Essere, perché dall'Essere nessun osservatore è mai fuori essendo quell'osservatore un essente. Può al massimo far finta di esserne fuori e concepire l'Essere come un altro essente a lui alieno (altro rispetto a se stesso che però a questo punto non è, è un niente che osserva e la contraddizione mi appare palese).
In realtà è comunque sempre l'Essere che attraverso la molteplicità dei suoi modi di essere (gli Enti) insegue il riconoscimento concreto di se stesso e questo inseguimento sta proprio nel flusso eracliteo dell'Apparire. Tra l'altro l'Ente non è mai completamente definito (se non in astratto, ossia con un atto cognitivo che ne fissi dei contorni) proprio in quanto esso è costantemente partecipe dell'intero Essere che appare come questo particolare esser-ci. L'Ente, in quanto Essente non può mai essere preso staccato dall'Essere e dunque nemmeno dalla sua originaria indefinibilità Capisco comunque che Essere e Non Essere possano apparire coincidenti qualora se ne prenda in considerazione la comune indefinibilità, ma ciò che propongo è che il Non Essere sia al contrario proprio ciò che serve all'Essere per de-finirsi astrattamente, proprio come a ogni ente soggetto serve almeno un ente oggetto a cui contrapporsi per identificarsi (a me serve che ci sia tu nella tua differenza per riconoscere il mio essere io). Questa identificazione astratta dell'Essere attraverso il Non Essere, a differenza di quella che distingue un ente da un altro ente, è però una pura astrazione, perché il processo reale concreto di riconoscimento dell'Essere passa solo attraverso gli Enti e in tal senso non credo (a differenza di Severino) che esso potrà mai avere termine nella Gioia della Gloria (sempre nell'accezione severiniana di questi termini) |
03-03-2013, 16.04.59 | #110 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Maral
Aggressor, il paragone con un osservatore che guarda dall'esterno una galassia e la vede compatta a causa della distanza non può venire assunto per l'Essere, perché dall'Essere nessun osservatore è mai fuori essendo quell'osservatore un essente. Può al massimo far finta di esserne fuori e concepire l'Essere come un altro essente a lui alieno (altro rispetto a se stesso che però a questo punto non è, è un niente che osserva e la contraddizione mi appare palese). Ma è proprio questo il bello, che nessuno può vedere/esperire l'Essere, in linea con i nostri discorsi, ma se ipoteticamente questo potesse accadere, nonostante la sua specifica forma interna, esso apparirebbe come indistinto o uniforme, in quanto appunto un infinito dato nell'esperieza solo a questo può portare, non certo ad una distinguibilità, perché in questo caso vedrei finite/definite cose e non infinite. è soprattutto in questo senso, secondo me, che il molteplice coincide con l'Uno e/o con l'Essere. La definizione di coscienza che tu stesso hai dato (se l'ho compresa davvero) è anche ciò che mi porta a credere in questo discorso (avendola assunta da tempo anche io); infatti da un lato ciò che esiste e possiede una forma è sempre pure un contenuto di coscienza, ma mentre questa quantità di esperienze sussiste, in quanto totalità, non potendo essere così esperite (nella totalità), sono pure un nulla (non sono "presenti" in nessuna relazione/coscienza nella loro totalità -mentre ovviamente l'universo deve pure in qualche senso esistere-), il che mi porta a far coicidere il tutto col nulla, o con l'indefinito, in un modo che trovo interessante (considera sempre che chiamo l'Essere anche nulla, per il paragone che ho spiegato sopra e per i discorsi che abbiamo già fatto). |