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09-02-2013, 20.48.05 | #63 |
Ospite abituale
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Il mio discorso evade il nichilismo nel momento in cui questa ambiguità non viene lasciata al caso, ma diventa dominio della libertà (intesa nel modo in cui ho spiegato). è solo che ci tengo a non apparre come un nichilista x)
Devo poi ammettere che il mio primo approccio con la filosofia è stato fondamentalmente ricercato in relazione con la scienza. Comunque, col tempo, ho capito sempre più chiaramente che le due materie non sono davvero seprate. Tra l'altro è Aristotele stesso a parlare armonicamente di filosofia e di fisiologia (fisica); infatti se l'ambiguità esiste, essa deve avere un correlato nel campo di senso scientifico e così, credo, debba essere per molti altri concetti. La metafisica mi piace proprio perché i suoi concetti così universali si prestano ad essere adeguati in ogni campo del sapere. Inoltre: In altre parole Aristotele completa il progetto di parricidio che Platone aveva lasciato a metà, progetto che però io penso, in accordo con Severino, non si realizzi sul piano logico in quanto produce un'autocontraddizione essendo gli essenti definiti come tali (e quindi in concreta essenza) proprio dalla totalità dei loro predicati e si rivelano nel loro apparire grazie a quel campo di senso che fa ancora parte dell'essenza inalienabile di quell'ente specifico. Spero con questo di essere riuscito a spiegarmi. Io ti direi che neanche sul piano logico gli essenti sono definiti così rigorosamente come si lascia intendere di solito, poiché non esiste un sistema di significati definito e completo (riporto ancora i teoremi di incompletezza di Godel). Inoltre, ovviamente, il linguaggio porta all'approssimazione che si sa essere una astrazione; per cui, ovviamente, quando descrivo un oggetto additando proprietà so già che stò approssimando la sua realtà, che continua ad essere afferrata come ambigua e descritta come se non lo fosse (solo perché è difficile accorgesri dell'ambiguità stessa del linguaggio logico, come quella di ogni linguaggio). Per questo, forse, il divenire è davvero salvo. Queste sono riflessioni che stò facendo da poco, ma mi pare interessante cercare di unire davvero l'Essere e gli enti, senza predicare il loro incontro nel "sinolo" mentre sembrano trascendersi completamente. Saluti ! |
10-02-2013, 02.07.35 | #64 | |
Ospite abituale
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Citazione:
Mi sembra che Maral veda molto bene e molto chiaramente quando individua nella separazione dell'essenza degli essenti dai suoi attibuti il fondamento aristotelico di una contemporanea affermazione dell'Essere come necessità e del divenire. Più che altro però mi sembra che Aristotele distingua fra una "appartenenza" necessaria (in quanto riferita alla sostanza, come nella proposizione: "Tizio è uomo"), ed una accidentale, e quindi possibile (come in quella: "Tizio è giovane"). Solo che, diciamo, Aristotele individua un senso primario di questa "appartenenza" ed un senso secondario, ed il senso primario è appunto quello dell'appartenenza necessaria, in quanto essa è riferita alla sostanza. Ecco allora che l'introdurre il tempo ed il contesto di senso nel principio di non contraddizione rappresenta un introdurre elementi secondari, che quindi proprio in quanto tali non possono essere messi sul medesimo piano di quelli primari. Insomma, le cose sono due: o Aristotele mette sullo stesso piano la sostanza e gli elementi accidentali, o non può affermare a quel modo lì il principio di non contraddizione. Mi sembra palese. Poi, tanto per cominciare ad introdurre la mia tesi "finale", ti dirò che io reputo equivalenti la cosa in sè di Kant, l'Essere di Heidegger e l'Evento di cui parla la semiotica. Tutti e tre questi concetti si distinguono per una caratteristica: la loro "assenza"; "assenza" in quanto la loro "ex-sistentia" è impossibile (appunto perchè noi non siamo "altro" da essi). Però, esattamente come Socrate "seppe di non sapere", noi potremmo anche "conoscerli" sulla base della loro assenza, non trovi? un saluto a te e a Maral scusandomi di essere perennemente in ritardo con le risposte |
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10-02-2013, 19.05.22 | #65 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
Prima di tutto volevo precisare che ci stiamo muovendo su un terreno difficile e che stiamo proponendo nostre ipotesi e interpretazioni. Cioè a me interessa questa fase creativa, mi interessa di mettere in campo le mie idee (con umiltà), così posso vedere come vengono accolte e posso accogliere quelle degli altri. Inoltre devo aggiungere che c'è stato qualcuno in questo forum, nn mi ricordo chi, che mi ha aiutato a superare un paradigma in cui ero imbrigliato. Non è detto che quello in cui sono immerso adesso sia meglio del precedente, ma mi ci sono accomodato.
0xdeadbeef: Più che altro però mi sembra che Aristotele distingua fra una "appartenenza" necessaria (in quanto riferita alla sostanza, come nella proposizione: "Tizio è uomo"), ed una accidentale, e quindi possibile (come in quella: "Tizio è giovane"). Non riesco a capire dove trovi la necessità di "Tizio è uomo", cioè se la frase "Tizio è giovane" rivela una "appartenenza" accidentale, trovo questa accidentalità anche nella prima affermazione. Se prendiamo Aristotele alla lettera quello che dici è esatto, però, secondo me, non possiamo incastrarci nel suo linguaggio se vogliamo sviluppare una tesi all' "avanguardia". Quello che voglio dire è che essere un "uomo", secondo le mie credenze (che ho già confrontato con voi, e abbiamo trovato un accordo in questo) è già qualcosa di contingente e particolare, cioè sarei portato a parlare di una sola "sostanza" (un substrato) che poi assume conformazioni particolari che chiamiamo attributi. Una appartenenza necessaria potrebbe essere <<X è>>, nel senso che "Tizio esiste", per esempio. Poi, direi io, questo Tizio non sarà mai presente a nessuno né a se stesso né sarà per se stesso qualcosa di assolutamente definito rimanendo fondamentalmente un esistente in divenire (=>attalizzazione, manifestazione o realizzazione della sua ambigiutà; ambigiutà trattata come caratteristica primaria=> tempo pensato come caratteristica fondamentale di definizione o esser-ci). 0xdeadbeef: Poi, tanto per cominciare ad introdurre la mia tesi "finale", ti dirò che io reputo equivalenti la cosa in sè di Kant, l'Essere di Heidegger e l'Evento di cui parla la semiotica. Tutti e tre questi concetti si distinguono per una caratteristica: la loro "assenza"; "assenza" in quanto la loro "ex-sistentia" è impossibile (appunto perchè noi non siamo "altro" da essi). Però, esattamente come Socrate "seppe di non sapere", noi potremmo anche "conoscerli" sulla base della loro assenza, non trovi? Mi piacerebbe riuscire a convenire su altri punti prima di toccare questo, altrimenti non so come risponderti o argomentare. Per esempio ho detto che in quanto posti in partecipazione con l'Essere gli enti non possono essere del tutto determinati né affermarsi univocamente come "altro" dagli altri enti (l'ambiguità), infatti abbiamo detto che essi sono-per-l'altro o sono-con-l'altro. Già così l'ex-sistentia degli altri enti sarebbe impossibile come quella dell'Essere che predichi (e comunque sarei daccordo su questo). Però se riuscissimo a conoscere l'Essere, noi lo avremmo identificato, e così diverrebbe un ente, in quanto particolare . Per ora questo riesco a commentare.. Fammi sapere! Cordiali saluti PS: Mi piacerebbe sottoporvi a questa domanda: Se le proprietà delle forme emergono da un campo di senso o comunque da un contesto, possono poi essere ascritte ad un ente, e magari, come fa il principio di identità degli indiscernibili, identificare un ente come un agglomerato di proprietà? A me pare che questo "possedere proprietà" da parte di qualcuno o qualcosa sia una sorta di illusione, il meteorite non possiede la sua velocità, la velocità emerge da un contesto ecc. Per questo stò dicendo pure che qesti enti non sono così separati o definiti come sembrano, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, per poter continuare poi il discorso di base. Ultima modifica di Aggressor : 11-02-2013 alle ore 09.12.21. |
11-02-2013, 22.46.18 | #66 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
@ Aggressor
Dice Aristotele: "abbiamo scienza delle cose particolari solo quando conosciamo l'essenza necessaria di esse". Nella proposizione "Tizio è uomo" (a proposito, intendila solo come un esempio, e considera che il mio non specificare è stato un errore), Aristotele intende-rebbe che al soggetto "Tizio" si connette l'essenza "uomo". Allo stesso modo, nella proposizione "Tizio è giovane" Aristotele intende-rebbe che al soggetto "Tizio" si connette la qualità particolare di "giovane". Dice Aristotele: "l'inerenza (connessione) necessaria è quella dell'essenza necessaria, mentre il semplice inerire o l'inerire possibile è riferimento alla cosa di una qualità, o quantità". Ora, a me questo concetto aristotelico è sempre parso nebuloso: come, infatti, non pensare che dire "animale" sia più essenziale, per così dire, che dire "uomo"? In proposito Aristotele dice: "l'essenza sostanziale appartiene alle cose di cui c'è definizione. E non c'è definizione quando c'è un termine che si riferisce a qualcosa". Insomma, mi verrebbe da pensare che "uomo" sia categoria primaria ben più di "giovane" (e dire "Tizio è giovane si riferisce senz'altro, come specificazione particolare, al termine "uomo"), e questo anche considerando che, da un capo all'altro della "Metafisica", Aristotele definisce il termine "uomo" come "sostanza". Ma, come ben affermi, lasciamo perdere il "segno" aristotelico (anche in omaggio a G.d'Ockam, il quale direbbe: "Tizio non ha in sè l'umanità"...) e concentriamoci sul "noi". C'è una cosa, nel tuo discorso, che non mi è chiara. Quando dici: "Tizio esiste" intendi con ciò che, siccome Tizio esiste effettivamente, non esiste la possibilità che egli non possa esistere? Perchè questo è il punto (ed a questo proposito ti dicevo di Hegel e di Kant): se si pensa, come Hegel, che un qualcosa è necessariamente o se si pensa, come Kant, che questo "essere" sia solo una possibilità. Non cambia nulla, ai termini del mio discorso, usare il verbo "metafisico" essere o il verbo "esistenziale" esistere: si deve dire se tale "stato" lo si intende come necessario o come possibile. Perchè, a mio modo di vedere, l'"esistenzialità" è un qualcosa che già Platone ha decretato come irrevocabile con il suo parricidio (a meno di non voler seguire Severino sulla strada dell'immobilità assoluta dell'Essere), ma quel che è, da allora, emerso è uno "spostamento" del problema appunto sulla necessità o sulla possibilità dell'Essere (o dell'esistere che dir si voglia; non che sia la stessa cosa, per carità, ma fino a questo punto del discorso - cioè almeno fino ad Heidegger - possiamo assimilare i due verbi). Spero di essermi spiegato, perchè certo, come anche tu dici è un terreno (molto) difficile. un saluto |
12-02-2013, 09.08.50 | #67 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
0xdeadbeef:
C'è una cosa, nel tuo discorso, che non mi è chiara. Quando dici: "Tizio esiste" intendi con ciò che, siccome Tizio esiste effettivamente, non esiste la possibilità che egli non possa esistere? Perchè questo è il punto (ed a questo proposito ti dicevo di Hegel e di Kant): se si pensa, come Hegel, che un qualcosa è necessariamente o se si pensa, come Kant, che questo "essere" sia solo una possibilità. Non cambia nulla, ai termini del mio discorso, usare il verbo "metafisico" essere o il verbo "esistenziale" esistere: si deve dire se tale "stato" lo si intende come necessario o come possibile. Perchè, a mio modo di vedere, l'"esistenzialità" è un qualcosa che già Platone ha decretato come irrevocabile con il suo parricidio (a meno di non voler seguire Severino sulla strada dell'immobilità assoluta dell'Essere), ma quel che è, da allora, emerso è uno "spostamento" del problema appunto sulla necessità o sulla possibilità dell'Essere (o dell'esistere che dir si voglia; non che sia la stessa cosa, per carità, ma fino a questo punto del discorso - cioè almeno fino ad Heidegger - possiamo assimilare i due verbi). Come ti dicevo su questo argomento mi sono cimentato per una tesi, che mi ha occupato pure parecchio tempo. Il motivo per cui ti vengo a dire che "Tizio esiste" rivela una appartenenza necessaria è proprio il fatto che le sue caratteristiche particolari (avrei dovuto sostituire "tizio" con "qualcosa" o "x", nel senso di metterci una variabile di quantificazione alla Russell) secondo me non influiscono sull'esistenza di qualcosa. Abbiamo detto che un ente è "definito" grazie al suo rapporto con l'altro; proprio in questo senso ciò che lui fondamentalmente è rimane "una esistenza", mentre la sua specificità non gli appartiene ma è dovuta al contesto. "X all'interno dell'atmosfera terrestre è così e così", "X (lo stesso soggetto di prima) messo nel sole è cosà e cosà". Capisci cosa intendo? Per questo ti ho posto quella domanda: le proprietà, le caratteristiche formali, ineriscono ai "soggetti" o non ineriscono a nessuno come i contenuti fenomenici? (Il rosso non appartiene al fiore ma emerge dalla sintesi tra me e il fiore). Secondo me la definizione, le proprietà non appartengono a qualcuno, mentre il substrato di "esistenza" permane. Io posso essere molto diverso a seconda di chi mi conosce o a secondo del luogo in cui dimoro; se non si accetta questa posizione si entrerà nella turba delle definizioni del principio di identità. Quando posso dire che Tizio è ancora tizio? Dove finisce il tavolo? Ecc. Ma questi discorsi, mai conclusi, perdono il loro valore con la nostra tesi dell'essere-per-l'altro, ovviamente compresa in tutta la sua portata, perché ciò vul dire che la prioprietà non mi appartiene, ma appartiene all'intero contesto e non a quell'Ente (prima di essere inserito nel contesto quell'Ente cosa era? Come era?). Poi, in realtà, non potendo negare l'esistenza a nessuno, non ha senso nemmeno attribuirla; ciò che si attribuisce sono le proprietà contingenti, tra cui "essere un uomo", così il non-essere e l'Essere si fondono sempre di più. Dimmi un po' cosa ne pensi, saluti |
12-02-2013, 09.13.39 | #68 |
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti
E, meglio, la domanda fondamentale sarebbe questa: come è fatto un ente al di fuori di ogni contesto? Se si ammette che sia fatto in un certo modo, allora l'oggettività esiste, e quando ci riferiamo all'esistenza di un oggetto ci dovremmo riferire all'esistenza di queste caratteristiche obbiettive ce egli ha in ogni caso; ma se non è così, allora gli enti non sono "oggetti con certe proprietà, ognuno le sue" ma delle pure possibilità, sono l'Essere che poi si determina in modo diverso nei vari contesti.
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13-02-2013, 21.29.55 | #70 | |
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Citazione:
Ma se tu affermi l'Essere (ciò che è; l'esistente) come necessario sei costretto ad affermare che necessari sono anche i modi con cui esso si manifesta,non credi? Voglio dire, la tua affermazione assume l'Essere nella sua massima estensione ontologica nella stessa maniera con cui Aristotele assume la "sostanza" (di cui afferma l'appartenenza necessaria). E questo, sempre in maniera molto "aristotelica", mentre distingui i "modi d'essere" allo stesso modo cui Aristotele affermava le categorie qualitative, o quantitative (di cui affermava l'appartenenza accidentale, cioè possibile). Senonchè, come dicevamo (adesso non ricordo bene la tua posizione precisa in materia), Aristotele per salvaguardare il divenire mette, nel principio di non contraddizione, sullo stesso piano l'appartenenza necessaria relativa alla sostanza e l'appartenenza accidentale. E questo pur se lo stesso Aristotele parla di un "senso primario" per ciò che riguarda la sostanza e di un "senso secondario" riferito alle categorie qualitative. Voglio ancora dire, se assumiamo l'Essere come "significato primario e fondamentale cui gli altri significati possono essere ricondotti" (come da definizione di inizio post, che è quella anche di Aristotele), allora ciò vuol dire che affermare la necessità dell'Essere "deve" coincidere con l'affermare la necessità dei suoi modi particolari (appunto pena il cadere nella medesima contraddizione di Aristotele, che rilevavamo). Ecco perchè, a mio parere, è coerente parlare di un Essere che, in quanto significato primario, non può che assumere "interamente" (quindi anche nei suoi modi) la modalità della necessità o quella della possibilità. un saluto |
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