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15-05-2012, 08.26.26 | #124 |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Paul11, sbagio o anche tu non vedi la necessità della vita all'interno del sistema "severiniano" (che è però quello più in voga tra i deterministi)?
La libertà non è un concetto ontolologico o scientifico appartiene alla filosofia morale e politica. Non hai assolutamente chiaro i diversi piani di esplorazione che il pensiero umano ha effettuato in riguardo al sapere umano. Studiati un pò di giusnaturalismo a cominciare da Kant e Hobbes almeno fino a Rousseu. Come se la libertà non fosse il fatto che tu ti esprimi, che pensi , che scrivi e hai un'opinione ,cosa sarebbe allora questo: un neurone indeterministico nello spazio di Hilbert? La libertà non è solo fare la crocetta sulla scheda elettorale è il fatto di poter scegliere da una universalità di possibilità Ma questo era diretto a me? Ciao! |
15-05-2012, 22.12.29 | #125 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Sì, ma forse tu ti riferivi ad altri, e quindi mi sa che c'è stato un qui pro quo, non so a questo punto. Comunque sia , sì non c'è "molta" vita nella teoria severiniana. L'essere è troppo dipendente dall'eternità e il "movimento" è dettato dagli enti che noi richiamo a manifestarsi. Io distinguo l'essere dagli enti , perchè l'ontologia parte dalla prima constatazione: "cogito ergo sum", "io penso" e l'appercezione trascendentale, ecc. Deve esserci inizialmente un asserto di verità per costruire tutte le relazioni e non la verità nell'eterno e fare dell'essere un semplice ente come tutte le cose, perchè comunque sia anche Severino è un essere umano che se intende oggettivare la sua soggettività, può benissimo fare e la fa pure bene. Ma Max Weber ,fondatore della siociologia diceva che è impossibile non soggettivare , perchè siamo comunque noi gli agenti del pensiero, qualunque pensiero. Ne consegue che l'esistere dell'essere , se vogliamo l'esserci di Heidegger , la vita perde il significato fondamentale , diventa oggetto e non soggetto e agente di volontà. Tutte le proprietà e gli attributi dell'essere perdono il significato appunto di volontà e quindi anche di libertà. Lo ripeto dipende da come e quali principi costitutuivi vengono costruite le teorie; se si pone fondamentale l'eternità o il divenire prima dell' essere , quest'ultimo ne diventa dipendente: dagli eterni o dal divenire, dalle culture, dalla tecnica,ecc. Semplicemente perchè l'uomo, l'essere perde la sua centralità e diventa schiavo di ciò che lui stesso cerca di definire nella sua storia intesa come conoscenza. Rispetto comunque la teoria di Severino, non posso dire che non sia vera perchè la costruzione logica è fondata, ho troppo stima per lui e il modo in cui insegna. Ma è la nostra storia come umanità, le nostre qualità evolutive se si vuole, i nostri atomi quantistici se si vuole che diventano conoscenza , coscienza, pensiero, riflessione. Noi siamo esseri che trasformiamo, che modifichiamo il corso degli eventi, che decidiamo dove andare e cosa e come fare. E' proprio l'essere uomo che mi toglie il dubbio della determinatezza dell'universo al di là del principio d'indeterminazione di Heisenberg. Comunque se ho ben capito stai cercando di legare l'ontologia e la scienza naturale, la fisica, per cercare un'armonizzazione fra determinismo e indeterminismo, così come il passaggio fra mondo inorganico e organizzaione biologica che porta alla nostra umana organizzazione con le nostre qualità di pensiero. E' molto interessante e la seguo anch'io con interesse. |
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16-05-2012, 12.21.19 | #126 | ||
Ospite abituale
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
La libertà che “appartiene alla filosofia morale e politica”, appartiene dunque alla sfera umana. Ma questo senso, se è vero che l’uomo è pensato come una parte di tutto l’essere, è parziale e fondato sul senso più ampio della libertà dell’essere. E’ di quest’ultimo che si discuteva nelle ultime pagine di post di questo thread. A tal proposito sono da studiare tutte quelle pagine della storia della filosofia che si occupano del senso della contingenza che riguardano appunto l’essere in quanto essere. A cominciare da Aristotele e il suo divenire come passaggio dalla potenza all’atto e passando per coloro che non ritengono l’esistenza un certo tipo di predicato. Citazione:
Ma se quello che ho spiegato è che non può essere affermato nulla se non sulla base della coscienza, significa che non ci può essere alcun ente se non c’è anche la coscienza. Quindi non ci può essere una realtà che preceda la coscienza perché è contraddittoria. Ogni realtà esiste solo se esiste la coscienza, perché altrimenti ci ritroviamo nei guai del realismo che presuppone l’indifferenza che ci sia o meno una coscienza, e quindi che emerga ad un certo punto dell’evoluzione, o al principio, o mai nel caso sia solo un abbaglio. Se c’è qualcosa, allora, in qualsiasi modo venga pensato il qualcosa, esso appare. Questa verità non è negoziabile in quanto fenomenologicamente (cioè di fatto) qualcosa “ci” appare, e logicamente (cioè di diritto) anche se fosse nascosto, apparirebbe la sua assenza per ciò che ho già spiegato riguardo al significato dell’assenza. Infatti, solo il nulla per definizione non può apparire (fermo restando che quell’essere che pone la contraddittorietà del nulla, ovvero quello per il quale si dice al solito che “anche il nulla è”, esiste e appare) invece l’essere (qualsiasi essere) appare sempre in qualche modo. (Come già ricordato, la scienza, il senso comune, ma anche varie filosofie, identificano invece l’assenza al nulla perché non hanno occhi che per la presenza, non perché constatino o dimostrino che l’essere è nulla quando è assente.) Se non bastasse, cerco di mettere in ordine i pensieri attraverso questa sequenza analitica. L’essere è (qualsiasi cosa è), e non può non essere. L’essere appare (qualsiasi cosa appare) in qualche modo, e non può non apparire perché anche la sua assenza è un (certo tipo di) apparire. Quest’apparire è il luogo originario in cui si manifestano (appaiono) le cose e quindi in cui si manifesta ogni ulteriore ambito di manifestazione delle cose. Quest’originario luogo dell’apparire delle cose è storicamente interpretato dapprima come altro da quello specifico apparire della coscienza (cioè in cui consiste la coscienza), e poi identificato ad esso. Anche l’identificazione avviene per gradi: dapprima (da Cartesio a Fichte) si pensa che l’apparire delle cose che appare alla coscienza sia un apparire distorto perché la soggettività della coscienza si sovrappone e altera il vero apparire delle cose (cioè l’apparire delle cose in sé), poi (da Schelling a Croce e Gentile) si pensa che la cosa in sé è contraddittoria (e quindi non esiste, e quindi non c’è altro fuori della coscienza) e non rimane che concludere che il vero apparire delle cose da un lato sia l’apparire alla coscienza e dall’altro sia quest’apparire se e quando le cose esistono nella coscienza (con l’apparire delle cose che è quindi propriamente prodotto dalla coscienza stessa perché quello assegnato dalla coscienza è l’unico legittimo), ed infine (con Severino) si pensa sia che quando le cose non sono nella coscienza si produca la contraddizione di un essere che è nulla, sia che un apparire delle cose prodotto dalla coscienza non sia un apparire che appartiene originariamente alle cose (e che quindi si sovrapponga loro illegittimamente), concludendo che la coscienza è sì lo stesso apparire delle cose, ma lo stesso loro apparire originario, che dunque non vincola necessariamente l’apparire delle cose al loro trovarsi nella coscienza, appunto perchè non è prodotto da quest'ultima. Cercare di “confermare” una teoria scientifica (ad esempio l’indeterminismo della meccanica quantistica) mediante una teoria filosofica, è una contraddizione in termini, sia perché dovremmo astrarre qualcosa da un contesto (e quindi non sarebbe più la stessa cosa) per calarla in un altro, sia perché una teoria scientifica è il prodotto di convinzioni che per quanto possano far uso della razionalità nell’applicare se stesse, si guardano bene dal sottoporre alla stessa razionalità i loro fondamenti. Dei fondamenti che sono filosofici non tanto in quanto di fatto gli scienziati li lascino alle discussioni dei filosofi, e nemmeno perché appartengono storicamente alla filosofia (cioè se ne siano occupati forme storiche della filosofia), ma perché appartengono ad un ambito che precede la scienza stessa. D’altronde, anche se volessimo rimanere all’interno della scienza, dovremmo considerare che la scienza pensa sempre l’ipoteticità delle sue teorie anche se venissero “provate” un milione di volte. E quindi pensa implicitamente sempre la necessità che quelle sue teorie tramontino. E quindi ancora sarebbe impossibile confrontare quelle teorie probabilistiche con teorie necessarie della filosofia. Tutto ciò rimane naturalmente valido anche se non sapessi mostrare nello specifico che l’indeterminismo della meccanica quantistica è contraddittorio. Rimane infatti contraddittorio il metodo scientifico che fa da contesto a quel tipo di indeterminismo, perlomeno formalmente perché non mostra nessuna necessità e di conseguenza coscientemente pensa senza necessità le teorie che produce. Non essendo la sede più opportuna a mettere in luce le contraddizioni dell’indeterminismo quantistico, vorrei almeno accennare al fatto che è vera l’importanza dell’osservatore, ma l’osservatore “quantistico” è uno strano osservatore a responsabilità limitata, perché da un lato sarebbe il fondamento di ciò che viene osservato, dall’altro non è pensato come il fondamento dell’osservabile in quanto tale (cioè di tutto il mondo che appunto viene chiamato “esterno”, cioè del luogo in cui tutte le cose appaiono) perché anche per Heisenberg, Bohr, e tutti gli altri, l’osservatore è innanzitutto una cosa tra le cose, e poi (quindi in forma derivata) un certo qualcosa che decide di ciò che è osservato, un’apertura (parziale, relativa) gettata sulle cose affinché queste appaiano. Un’ultima osservazione, purtroppo al momento per brevi cenni. Oggi la coscienza non viene più pensata come quell’”astruseria” (non a caso anche poco pratica) dell’apparire delle cose, ma, sulla scia del cognitivismo, un elaboratore di informazioni in cui un input di dati viene processato e fornisce un output. La conoscenza è un output e quindi non esisterebbe senza quel processamento, cioè senza quel divenire. Ora, a parte l’odierna bizzarra circostanza che vede immaginare un’intelligenza artificiale che è chiamata “intelligenza” (come i computer erano chiamati "cervelli" elettronici) proprio perché si prende a modello l’intelligenza (e il cervello) dell’uomo, mentre dall’altro si indaga l’intelligenza umana prendendo a modello un calcolatore, e a parte che non si dà divenire senza immutabilità (non si danno varianti senza costanti), quell’eleboratore è in ogni caso affermato perché appare (perché è cosciente) e dunque l’apparire (la coscienza) è la condizione senza la quale di quell’eleboratore (quella coscienza interpretata cognitivisticamente) non potremmo sapere nulla. Saluti. |
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17-05-2012, 18.34.15 | #127 | |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Mi premeva dire qualcosa anche sull’identificazione che fai di relazione e coscienza perché vi insisti molto e perché permette di sciogliere vari dubbi. Mi sembra che tu intenda questo: quando A è in relazione a B e viceversa, questa relazione si configura come l’aver coscienza di A da parte di B, e l’aver coscienza di B da parte di A. Ogni ente è una coscienza e la coscienza è la semplice relazione tra due enti, uno dei quali appare nell’altro e l’altro nell’uno, così come un oggetto appare in un soggetto. Ora, se teniamo conto che la coscienza è il luogo originario della possibilità di apparire delle cose, esso non può configurarsi come la semplice relazione tra due enti, perché è innanzitutto la struttura (la sintassi) che permette alle cose di avere il loro senso necessario. La coscienza è cioè il complesso delle relazioni tra le sue determinazioni che costituisce la struttura della verità. La verità è presente interamente in ogni coscienza anche se prevalentemente è occultata dal linguaggio, che invece preferisce (cioè è destinato a preferire di) testimoniare l’isolamento dei significati delle cose dalla verità. La coscienza (cioè la verità, il luogo originario dell’apparire delle cose) è una struttura di infinite determinazioni (e quindi di infinite relazioni) perlomeno in quanto, essendo in relazione a tutte le cose, contiene le infinite relazioni che intrattiene con ognuno degli enti dell’infinita totalità dell’essere (infinite relazioni perlopiù non decifrate dal linguaggio che appunto preferisce altro). Fermo restando che la coscienza è una dimensione finita rispetto a tale totalità. Infatti, il finito si definisce rispetto a ciò che lo oltrepassa e l’infinito rispetto a ciò che esso oltrepassa. La coscienza è finita rispetto alla totalità assoluta degli enti, ed è infinita rispetto ai contenuti che appaiono in essa. E fermo restando ancora l’infinita differenza qualitativa tra il senso autentico e necessario dell’infinito e il senso ipotetico dell’infinito matematico e della gerarchia cantoriana degli infiniti. |
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18-05-2012, 17.33.19 | #128 |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Grazie Il Seve; le tue risposte in generale, ma soprattutto quest'ultima, sono state di grande interesse.
Ora ho inquadrato molto meglio ciò che intendi e che hai esposto con paziente chiarezza. Ovviamente non mi asterrò da commenti, anche se sono felice di constatare che condivido quasi tutto Non condivido il parere riguardo la scienza. Cioè, secondo me, quello che può essere detto di sensato, se lo è davvero (e non deve essere per forza la verità, ma anche un'approssimazione), può influenzare il campo di ricerca scientifico, e credo che questo sia già accaduto (molti scienziati importanti sono stati e sono filosofi). Ma non voglio perdere troppo tempo ad argomentare questa posizione (non voglio rendere il post troppo pesante); dirò soltanto che se anche i 2 piani di ricerca fossero diversi, quello filosofico aspira a considerare il fondamento di tutto ciò che esiste e che banalmente i suoi "principi" avranno, con ciò, un'influenza sugli altri piani conoscitivi. Tu hai detto che ciò che esiste è il contenuto delle coscienze, cioè, per usare parole tue, che non ci può essere una realtà che preceda la coscienza perché è contraddittoria; ma se quel contenuto si realizzasse necessariamente con una sorta di indeterminazione potrei trovare plausibile che la scienza si trovi di fronte a certi problemi. Mi sembra che tu intenda questo: quando A è in relazione a B e viceversa, questa relazione si configura come l’aver coscienza di A da parte di B, e l’aver coscienza di B da parte di A. Ogni ente è una coscienza e la coscienza è la semplice relazione tra due enti, uno dei quali appare nell’altro e l’altro nell’uno, così come un oggetto appare in un soggetto. Ora, se teniamo conto che la coscienza è il luogo originario della possibilità di apparire delle cose, esso non può configurarsi come la semplice relazione tra due enti, perché è innanzitutto la struttura (la sintassi) che permette alle cose di avere il loro senso necessario Non intendo la coscienza in questi termini ed ora chiarisco. Tu dici che A entra in relazione con B; infatti supponi che la conoscenza sia un output e che non esisterebbe senza un processamento sull'imput. Invece io credo questo, che A e B non esistano al di fuori dell'imput, cioè che sia la coscienza a darci la "sensazione" che esitano un A e un B. Uno dei motivi è che A e B sarebbero un nulla al di fuori di una coscienza in cui apparire. Un po'come il discorso del Sole, anche il Sole, prima di apparire a me, era già "visto" da qualcuno. In più cosa è una legge, uno schema, o la sintassi, prima di venire applicata? Quello che volgio dire è pure che in qualche senso questo processamento o la sua sintassi non sarebbero nulla al di fuori dell'applicazione. Io credo soprattutto che una cosa per sé stessa non abbia un modo d'esse e che le determinazioni si ottengono separandosi da qualcos'altro e non per sé. Per questo la coscienza sarebbe la richiesta di una relazione che non è mai del tutto compiuta, forse perché realizzandosi determina i termini di paragone in un modo che non potrà essere mai compiuto se quelli per sé stessi non hanno un contenuto. Non ho capito bene perché prima sostieni che nulla "è" prima del suo apparire nella coscienza, e poi che c'è un qualcosa, una sorta di regolamento che precede la coscienza e lo gestisce, come pure un A e un B; questi A e B cosa sarebbero se non già qualcosa di percepito? E poi il punto fondamentale che mi interessa: se la coscienza è il reale e se non può esistere una coscienza totale degli essenti (per motivi che sappiamo bene entrambi), allora non esiste il tutto "dato", e con ciò, in un certo senso che voglio anche comprendere meglio, non esiste una Verità esterna, cioè non è detto che ciò che riceviamo da fuori sia dapprima determinato. Qui il discorso diviene ancora più complesso, non fosse altro perché ci stiamo avvicinando a un discorso sull'essere e forse potremmo trovare divergente su questi punti. Allora voglio dirti giusto un'altra cosa e interrompo. Uno dei problemi più dibatutti ultimamente è la questione dei vari linguaggi, riguardo soprattutto quelli scientifici che pretendono di portare una conoscenza della realtà, perché si dice che un linguaggio qualsiasi è dapprima uno stabilire degli "assiomi", come delle regole di base o una sintassi per capirci, e che queste basi sono contingenti. Ma l'Essere non può realizzarsi in un tipo particolare di "sintassi", altrimenti possiederebbe un modo d'essere o una forma (difatti una specifica sintassi può essere distinta da un'altra, il che vuol dire che possiede una soggettività) e con ciò non sarebbe neanche più l'Assoluto. |
19-05-2012, 11.55.17 | #129 | |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
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Sappiamo che la libertà pensata e perseguita non è assoluta, ma ha limiti. Possono essere limiti inconsci o morfogenetici, oppure che si sono sviluppati e si sviluppano nel nosto pensiero, nella nostra mente di umani...come, eventulmente, di altri viventi. Ma possono anche essere limiti non solo intrinsci di specie o di idee, ma anche limiti esterni, sensibili, percepiti, e anche concretamente fisici, costrittivi e violenti che si oppongono, impediscono e ci tolgono l'esercizio della libertà concepita, pensata e perseguita. Cio che mi pare non sia colto nelle infinite pagine che precedono è che comunque la nostra Vision è frutto della evoluzione culturale che da sempre si sviluppa, frutto a sua volta, sia della nosta personale esperienza di immersione in questa cultura che della evoluzione culturale che la specie ha perseguito nei millenni e che trasmette a ciascuno di noi in parte. Mi pare che questo faccia pensare ai più che non siamo liberi, ma sempre condizionati da culture precendenti o dal contesto sociale attuale che sempre indirizza i nostri passi. Io suppongo invece che sia proprio l'evoluzione culturale cui partecipiamo, che, in continuo, affina le nostre idee, la nostra coscienza, il nostro sapere, che ci rende intellettulamete capaci di contrastare sempre più e superare i condizionamenti sociali esterni nonche i condizionamenti degli istinti insiti in noi. E' L'evoluzione culturale che quindi ci permette di gustare, più o meno, la nostra fetta di libertà. Alla fine, pur strutturati fisicamente e psichicamente, in interazione genetica, dal mondo in cui ci troviamo e ove conduciamo la nostra vita...siamo noi che scegliamo, decidiamo e operiamo...con trend crescente...speriamo! |
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19-05-2012, 15.20.42 | #130 | |||||
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Ti do comunque qualche risposta in modo che, se l’argomento interessa, si possa riprendere in un altro thread. Certamente molti scienziati sono stati innanzitutto filosofi al tempo in cui si credeva che la scienza fosse una branca della filosofia (la filosofia della natura) e non un tipo di filosofia a se stante. Ma che la filosofia influenzi la scienza, è una tesi ambigua. Può voler dire che, come per i neopositivisti, la filosofia chiarisce i concetti dei fenomeni che la scienza scopre. Oppure che, come Popper, la filosofia influenza la formulazione di nuove teorie da sperimentare. In ogni caso si pretende che la conoscenza primaria sia quella scientifica e che la filosofia subentri in seconda battuta come ausilio, ancorché indispensabile. Ma questa non è un’altra tesi filosofica? E quindi smentisce il ruolo subordinato della filosofia. E’ la stessa situazione di Schelling che dice che l’organo proprio della filosofia è l’arte, o di Marx che dice che è l’economia, o degli psicologisti che dicono che è la psiche, o degli storicisti che dicono che è la storia, degli antropologi che dicono che è la forma culturale, o dei neuroscienziati che dicono che è il cervello, o di Schopenhauer e Nietzsche che dicono che è la volontà, o dei sociologi che dicono che è la società, o di buona parte della filosofia contemporanea che ritiene sia il linguaggio, ecc. ecc. E’ chiaro che sono tutte tesi filosofiche, ma non perché l’indagine sulla loro validità sia di pertinenza della filosofia come forma storica del sapere (cioè perché di fatto storicamente si sono appropriati i filosofi di certe questioni e quindi in futuro possa essere diversamente), ma perché è di pertinenza della filosofia come forma ideale del sapere (in quanto le indagini su ciò che fonda e quindi precede un sapere che non sia la filosofia, non appartengono e non sono giustificate dall’ambito di quel sapere). Ad esempio, la filosofia come prodotto storico non può essere a sua volta un prodotto storico, così come la filosofia come prodotto delle funzioni neurocognitive non può essere a sua volta un prodotto delle funzioni neurocognitive, ecc., perché altrimenti questa filosofia smentirebbe da sé ciò che afferma. Ad esempio, se affermasse appunto di essere un prodotto delle funzioni neurocognitive, allora, potendo queste funzioni produrre anche la tesi opposta, cosa succederebbe? Ma la filosofia non può in ogni caso influenzare la scienza. Innanzitutto perché la verità non può influenzare l’errore, e questi rimane ciò che è, e non cambia di una virgola proprio in forza della verità. In secondo luogo, in quanto ciò che influenza supremamente la scienza (ma si dovrebbe dire che la identifica primariamente) sono le esigenze pratiche, gli scopi, l’azione, l’implementazione, in una parola la tecnica. Non sempre sono le esigenze pratiche dell’uomo (la fame, il sesso, la guerra, il vestiario, il riparo dalla natura, gli equilibri politici, l'approvvigionamento delle risorse, la curiosità di sapere), anche e non solo perché il modo in cui l’uomo pensa se stesso cambia in continuazione, e quindi cambiano gli obiettivi che si prefigge. (Ad esempio, un giorno ritiene di identificarsi al prodotto di un Dio da servire, un altro giorno si identifica col progresso del suo popolo, un altro giorno pensa che sia innanzitutto un’individualità soggettiva che cerca la propria felicità, ecc.) Ma se non si tratta sempre delle esigenze pratiche dell’uomo, è anche e soprattutto perché l’uomo pensa sì se stesso in vari modi, ma sempre in relazione a qualche contesto che lo trascende e i cui “scopi” vantano quindi la precedenza. Citazione:
Quello che tu presupponi è il rapporto tra filosofia e scienza di secoli addietro, quando la scienza era una parte della filosofia e le sue indagini naturali erano condizionate dai principi dei “piani alti” della filosofia. Gradualmente la scienza è divenuta, rispetto alla filosofia tradizionale, una filosofia a sé, con un proprio statuto epistemologico, in parte ancora dipendente dalla filosofia tradizionale, ma nel complesso fortemente emancipata. Citazione:
Sono molto d’accordo perché, usando la forma ipotetica, dici “se quel contenuto si realizzasse necessariamente…”. Ma da un lato la scienza non può uscire dalla sua ipoteticità a meno che diventi qualcosa che non è più scienza, dall’altro un’indeterminazione necessaria è una contraddizione in termini in quanto presuppone che qualcosa (fosse anche la conoscenza della cosa invece della cosa stessa) sia necessariamente indeterminato perché, essendo necessariamente non determinato e non determinabile il predicato di una coppia di opposti che dovrebbe convenirgli, i due predicati siano necessariamente entrambi equivalenti. Citazione:
No no, io ho premesso che oggi, sulla scorta del cognitivismo, si pensa che la conoscenza sia il prodotto di un processamento di dati, e ho concluso che, dovendo essere anche il contenuto di questa tesi qualcosa di affermabile in quanto appare (cioè non potendo essere a sua volta anch’esso il prodotto di un tale processamento), l’apparire (l’esser manifesto da parte delle cose) è la forma originaria di ogni conoscenza, e cioè la coscienza stessa. Citazione:
Penso che ne abbiamo già parlato quando ti ho mostrato che necessariamente un qualcosa deve essere completamente determinato, cioè da sempre associato a tutti i predicati che gli convengono e non può acquisirne in seguito di nuovi, altrimenti al soggetto entra in sintesi qualcosa di alieno che non gli conviene. Nemmeno l’apparire empirico (cioè della singola cosa) si aggiunge alla cosa quando appare nella coscienza, né si perde da parte della cosa quando esce dall’apparire trascendentale della coscienza. |
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