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02-05-2012, 16.08.43 | #103 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Anche ammettendo che un oggetto possibile non possa essere predicato di esistenza o inesistenza, può essere sempre predicato di qualcosaltro di accidentale. Infatti, solo se è predicabile di qualcosa di accidentale, un oggetto può avere come può non avere un certo predicato (possibile). (E’ importante capire che la possibilità del predicato rende possibile di per sé l’oggetto, e ne costituisce la sua accidentalità.) E quindi succede che, prima ancora che esista, all’oggetto convengono due predicati opposti. Ad esempio, ad un cavallo può convenire sia il predicato accidentale “veloce” sia il predicato accidentale “lento”. I predicati “lento” e “veloce”, anche se accidentali, appartengono entrambi al significato “cavallo”, perché altrimenti quest’ultimo non potrebbe mai entrare in sintesi con nessuno dei due, dato che sarebbero predicati che non gli converrebbero. Quindi non si può eventualmente obiettare che i predicati accidentali entrano in sintesi all’oggetto solo al momento della posizione nell’esistenza: gli devono convenire già prima. Si dirà che con ciò sarebbe dimostrato al massimo l’impossibilità di predicati accidentali, e quindi di quel senso specifico della possibilità che è a loro inerente. Ma Kant e la massima parte della filosofia occidentale dicono che l’esistenza non è un predicato, e dunque rimane il caso del senso della possibilità inerente all’esistenza. Chi si prenda il piacere di leggersi la celebre sezione della Critica della ragion pura in cui Kant discute dell’argomento ontologico sulla base della non predicabilità dell’esistenza (Dialettica trascendentale, libro II, cap. III, sez. IV), troverà che quelle pagine sono particolarmente chiare e illuminanti su tutto il sottosuolo della civiltà occidentale. E quindi sono particolarmente importanti anche per tutto l’impianto kantiano, anche se compaiono dopo due terzi del ponderoso volume. In questa parte Kant afferma che un ente necessario è un ente di ragione, e che un ente di ragione non è un ente reale. Cioè la necessità non basta per stabilire se qualcosa di necessario si collochi nell’esistenza, ed è indifferente a che tale qualcosa esista o meno. Di un ente necessario si può dire che sia necessario, ma non se esista o meno. Ora, stabilito che la necessità di qualcosa non ne influenza l’esistenza, possiamo tranquillamente concludere che, pur essendo necessaria la contraddittorietà dei quadrati rotondi, ciò non dice ancora nulla se possano esistere o meno. La ragione afferma l’impossibilità dei quadrati rotondi, ma, seguendo Kant, ciò ancora non basta ad escludere che ne esistano. In questo modo, giubileranno tutti quelli che ancora non si rassegnano di trovare un attuale re di Francia in una Francia repubblicana, o che cercano il Graal leggendone in un semplice romanzo, per non parlare del grande amore della vita perché lo dice la televisione. Oltre a ciò, Kant mostra di avere così in dispregio il valore di un giudizio analitico da dire persino che se neghiamo un predicato analiticamente unito ad un soggetto, si produce una contraddizione perché il predicato è parte integrante del soggetto stesso, mentre se neghiamo sia il soggetto che il predicato va tutto bene perché non rimane più nulla che possa produrre una contraddizione. Negare l’affermazione di un giudizio necessario (e non solo la semplice sintesi necessaria tra soggetto e predicato) è uguale ad affermarla! Corollari notevoli Il primo corollario notevole che mi viene in mente è che, se la ragione dice che un ente è necessario, ma non se esiste o meno, allora dice che è necessario, ma non se esiste come necessario o meno. Ovvero, ciò che è necessario può esistere come contingente. Infatti, dato che per la ragione un ente è necessario e quindi per definizione è impossibile il suo contrario, e dato che quel che afferma la ragione non legifera sull’esistenza, è possibile che ad esistere sia proprio il contrario di quell’ente necessario (e in generale il contrario di qualsiasi ente). In questo modo, giubileranno tutti gli amici della libertà. Il secondo corollario notevole che mi viene in mente è che se la ragione non determina l’esistenza o meno di qualcosa, allora non può determinarsi come ragione pratica e quindi non determina la nostra vita. Ma se la ragione non determina l’esistenza, la prassi umana non può fondarsi su di essa, e non le rimane che fondarsi sulla pura fede. Una fede cieca, non ragionevole. In qualche modo, Kant ci aveva giusto fondando tutta la morale sulla buona fede, cioè la convinzione di fare ciò che è razionale fare. Che è daccapo una fede, perché se fosse razionale non avremmo alcuna libertà, quindi alcuna moralità, e non ci porremmo nemmeno il problema se esista un orientamento della vita da parte della ragione. Concludo con tre note di post scriptum. La prima è che, se è vero che i predicati accidentali convengono all’oggetto già prima di esistere, questo non trasforma i predicati accidentali in necessari, perché rimane sempre che un predicato accidentale possa non comparire nell’oggetto esistente così come invece devono comparire sempre tutti i predicati necessari. Ma come ho tentato di spiegare, ogni accidentalità è all’origine destituita di fondamento. La seconda nota è che ho lasciato da parte gli argomenti severiniani di critica alla negazione di predicabilità dell’esistenza da parte di Kant, e che girano tutti intorno alla circostanza che se ad un ente (qualsiasi ente) si nega l’esistenza come predicato (analitico), si deve concludere (1) che quando un ente non esiste accade la contraddittorietà di un ente (cioè un essere) che è nulla (cioè non essere), e (2) che quando l’esistenza non conviene analiticamente ad un ente, con quest’ultimo entra in sintesi ciò che non gli conviene (Emanuele Severino, La filosofia futura, parte sesta). La terza nota è che ho liberamente sorvolato sul fatto che per “esistenza” Kant non intenda esistenza nel mondo esterno, ma esistenza nell’esperienza soggettiva. La cosa in sé (il mondo esterno nella sua globalità) infatti esiste, ma è inconoscibile, e di qualcosa che esiste nell’esperienza non si può dire che abbia un corrispettivo, ancorché sconosciuto, nel mondo esterno. Non si può dire ad esempio che il mondo esterno sia anch’esso suddiviso in parti, e nemmeno che sia nel tempo. Fuorché che esista, è impossibile per Kant dirne altro e dissiparne l’opacità. |
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05-05-2012, 14.00.58 | #104 |
Ospite abituale
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Va bene, ma secondo questi discorsi una cosa di cui si parla può esistere o non esistere. Kant a parte, ogni volta che penso o parlo di qualcosa quel qualcosa esiste nella nostra testa e anche quando penso a qualcosa che esiste anche fuori dalla mia testa questa rappresentazione ha una realtà nel cervello.
Ora ti dirò in che senso l'esistenza non può essere un attributo secondo me: l'esistenza è il substrato di ogni ente, ogni ente è in un certo modo, e dunque questo subtrato comune tra tutti gli enti non ha un modo d'essere, ma semplicemente permette agli enti di averlo. Poiché non possiede un peculiare modo d'essere l'esistenza non è un aggettivo, non lo additi agli oggetti conferendogli con ciò una caratteristica, poichè esso è l'idea stessa di caratteristica; non è una peculiarità, è l'idea di peculiarità, la possibilità di una soggettività, di un modo d'essere. Ora, anche quando dico "Luigi è basso e luigi è alto", rispetto all'assoluto non mi contraddico, perché le caratteristiche particolari degli enti non possono porsi nel modo dell'opposizione assoluta ma solo relativa al sistema di riferimento (le cose esistenti, infatti, hanno sempre in comune l'esistenza o l'essere, quindi non possono essere assolutamente opposte). Solo per quanto riguarda la soggettività (particolare punto di riferimento) ha senso parlare di contraddittorietà, allora, quando parliamo dell'universo, che è anche l'assoluto, quindi della contingenza a livello ontologico, non possiamo escluderla per il tramite del ragionamento proposto da severino della contraddittorietà degli opposti, perché rispetto al "Tutto" un oggetto può avere una certa caratteristica o un'altra o entrambe. Comunque, a parte questo, mi premeva di spiegarti perché da determinista che ero stò in qualche modo reintroducendo il concetto di contingenza nel mio vocabolario (ma devo capire se mi stò portando fuori strada) e con ciò mi interessava la tua opinione in merito. La visione determinista porta con sé il fatto che passato presente e futuro, avendo una precisa regola per ottenere le proprie forme, possono essere pensati come un Tutto (o Assoluto) già dato in cui degli osservatori interni, a causa di una visione parziale, si ritrovano a vivere lo spaziotempo. Ora, se questo Essere Assoluto è già reale, perché all'universo serve di creare qualcosa che è la conoscenza (o presa di coscienza) di sé? (cosa che può realizzarsi nel modo parziale e indeterminato per i motivi che sappiamo). Proprio per il fatto che nessuno può "creare" la nostra natura senza una motivazione valida (o necessaria) io sostengo che il reale sia ciò che la natura conosce di sé, che questa situazione del conoscere è la realtà nel senso che la natura non può prescinderne per esistere (o porsi) davvero; altrimenti, appunto, questa situazione del conoscere sarebbe contingente. Con ciò io riporto la mia dimostrazione dell'esistenza della contingenza o del caso, perché l'indeterminismo gnoseologico (l'ingnoranza) diviene indeterminismo ontologico, in quanto l'universo stesso è ignorante di sé e non solo l'uomo o gli esseri che conoscono. Poi io accosto il concetto di conoscenza (o coscienza) semplicemente a quello di processo imput-output; nel senso che, secondo me, nel momento in cui si è (visione interna) un qualsiasi oggetto che riceve un messaggio dall'esterno e che, con ciò, reagisce al suddetto stimolo, si crea una rappresentazione delle cose (e così si creano le cose, vedi Fichte "non esistono gli oggetti e poi le interazioni, ma le interazioni definiscono e creano gli oggetti", alla fine una forma è tale solo nel momento in cui viene delimitata da un'altra). Così, per esempio, non direi che un tavolo non esiste se non c'è un uomo che lo vede, perché a vederlo ci sono le particelle circostanti e quelle che formano il tavolo. (Non per niente ho creato il tread sulla questione delle entità biologiche e esseri inanimati). Ma lascia stare questi discorsi complessi coi quali cerco un'armonia tra le mie credenze; fondamentalmente mi interessa la tua opinione riguardo la contingenza della nostra condizione di esseri che conoscono, contrapposta a una natura determinata e già "reale" prima di essere conosciuta. Poi mi interessa anche il discorso dell'esistenza come attributo. Scusa la lunghezza del post, se vuoi puoi anche tirarti fuori dal dialogo, ti ho chimato in causa perché dal modo in cui parli mi sembra che il nostro modo di ragionare non sia troppo diverso e allora forse puoi capire i miei dubbi e commentare, ciao! |
06-05-2012, 11.51.36 | #105 |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Scusa, mi sono accorto di non essere stato abbastanza chiaro quando ho parlato dell'esistenza ma il fatto è questo, che se vuoi immaginare un tizio alto lo puoi fare, se vuoi immaginarti l'esistenza capisci subito che questa cosa non ha di per sé una forma, ma che la forma dell'esistenza si realizza nelle caratteristiche particolari degli oggetti che esistono, allora non è un attributo, non è una caratteristica, dicevo, ma piuttosto la potenza dell'avere una caratteristica. Come se volissimo rappresentarci la materia di per sé, al difuori degli accidenti degli oggetti materiali, mentalmente vedresti un un'iniformità, magari una palletta di un solo colore, come se ti dovessi rappresentare il nulla, immagineresti un assenza di caratteristiche.
Quando dicevo "Luigi è alto, luigi è basso" rispetto all'Assoluto non è una contraddizione, è perché se tu ti inserisci in un sistema di riferimento, per esempio prendi Alessandro a confronto, allora puoi stabilire chi è alto rispetto a chi, ma se prendi come punto di riferimento ogni ente dell'universo, vedrai che ci sono infiniti oggetti più alti e infiniti oggetti più bassi di Luigi, e allora potrai additargli entrambe le caratteristiche o nessuna (il che è uguale) senza cadere in contraddizione. Quelle che mi sembra interessante notare è che la contraddizione, vista così, nasce nei sistemi di riferimento e che dunque ha un senso nella soggettività (se vogliamo si potrebbe parlare di contraddizione gnoseologica, perché la conoscenza è sempre un carpire dati soggettivamente, tanto è vero che si parla sempre di credenze), mentre il suo senso crolla di fronte al Tutto quindi anche di fronte all'Essere stesso di Severino. |
06-05-2012, 12.35.29 | #106 | |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Penso d’aver capito quel che scrivi nel momento in cui colgo la coerenza e la legittimità dei tuoi dubbi, e quindi mi permetterei innanzitutto di sintetizzare brevemente la tua obiezione, non prima di valutarla come esempio di buona speculazione e volontà di rivedere le proprie idee alla luce di sempre nuove prove. Se la coscienza accogliesse una conoscenza contingente della natura, non potrebbe conoscere veramente quest’ultima. Ma la coscienza è la natura stessa sotto la forma della conoscenza di sé, quindi non può che avere una nozione univoca di ciò di cui è cosciente perché pensando la natura pensa anche se stessa. Se però esistesse una natura che si collocasse anche fuori della coscienza (ad esempio perché tutto il possibile è già destinato ed esistente), questa eccedenza renderebbe la coscienza una dimensione parziale, e quindi uno sguardo parziale sulle cose. Ora, questa parzialità pregiudicherebbe ogni conoscenza esatta, e inoltre, smentendo l’assunto che la coscienza sia la stessa natura che conosce se stessa (cioè smentendo la perfetta corrispondenza tra coscienza e natura), renderebbe coscienza e natura due enti eterogenei, due cose diverse ed incompatibili. E’ necessario quindi che la sola natura esistente sia quella presente alla coscienza senza alcuna eccedenza. Più che Fichte, questo discorso ricorda proprio Kant se trascuriamo la cosa in sè. Se togliamo la cosa in sé dal suo discorso, Kant, come fai tu, pone come sensato e necessario solo ciò che è interno alla coscienza. Infatti, per Kant anche la natura regolata dalla leggi di Newton e manifestatesi nello spazio e nel tempo, è solo quella che appunto si costituisce nella coscienza. Se ci fosse qualcosa di sensato e necessario fuori della coscienza, per definizione non potrebbe essere cosciente e non potrebbe costituire alcuna conoscenza. Comunque, per fare una breve annotazione storica, come Kant, anche Fichte crede ad un eccedenza della natura oltre la coscienza, perché è vero che il Non-Io è posto dall’Io, ed è vero che lo considera contraddittorio e da togliere, ma quel Non-Io è pensato come la cosa in sé che all’Io sfugge. Se il Non-Io fosse solo interno all’Io, sarebbe superato già da sempre mediante la semplice posizione dell’Io, e non si capirebbe perché Fichte pone il toglimento del Non-Io come un compito infinito. Ora, quello che non torna è presente nella frase che più sopra ho messo in corsivo. E precisamente non vedo perché se la coscienza è una dimensione parziale della natura, anche la conoscenza che possiede delle cose diventi parziale. La qualità (la necessità) della conoscenza non dipende dalla quantità di cose conosciute, e quindi da quanta natura la coscienza abbracci. Mi sembra che tu confonda la qualità con la quantità, pretendendo di avere una conoscenza di buona qualità se si ha una conoscenza in buona quantità. Ma, per fare una battuta, la quantità non dice nulla sulla qualità nemmeno al mercato. Il tuo discorso estensionalista (cioè basato sulla quantità) prende a modello il procedimento induttivo, dove infatti si punta ad avere il maggior numero di dati per astrarre da essi delle leggi, che però non potranno mai avere il sigillo della necessità (cioè dell’impossibilità del loro contrario), e saranno quindi solamente delle regolarità empiriche, delle mode, delle permanenze statistiche. Infatti, anche se tu possedessi l’onniscienza (la conoscenza totale), ciò che mediante l’astrazione ricaveresti come dato comune di tutte le cose sarebbe daccapo un altro dato, un’altra constatazione (diciamo una constatazione di secondo livello), cioè la constatazione di una regolarità, di una moda, ecc. Anzi, già non potresti nemmeno sapere se possiedi l’onniscienza, perché, per poter escludere che non vi sia altro da sapere, dovresti sapere necessariamente che non c’è altro oltre ciò che sai. Cosa che appunto, essendo una necessità (una legge esaustiva della totalità di tutti i casi possibili), secondo l’induttivismo dovrebbe essere basata su quell’onniscienza a sua volta basata su quella necessità. Quindi, anche se la coscienza è una parte della natura, la sua conoscenza delle cose non è una parte della conoscenza necessaria delle stesse e quindi una conoscenza non necessaria. Innanzitutto perché, per sapere che è una parte, bisognerebbe confrontarla con l’interezza della necessità che dunque dovrebbe essere presupposta e conosciuta. E in secondo luogo perché l’affermazione della parzialità della conoscenza si porrebbe essa stessa come interamente necessaria, perché se si ponesse come parziale anch’essa e dunque non necessaria, screditerebbe tutta la sua validità. Ora, dimostrato che la parzialità della coscienza all’interno della dimensione totale della natura, non implica una parzialità della qualità della conoscenza, non è più necessario concludere che non vi sia un’eccedenza della natura al di là della coscienza per evitare che la conoscenza risenta della contingenza. Anzi, il presupposto di una conoscenza contingente è proprio l’inesistenza delle cose poste al di fuori della coscienza. Infatti, se queste sono nulla, allora è nulla anche la loro necessità. E se si obiettasse che la necessità delle cose ha senso solo quando si mostrano alla coscienza, allora è la coscienza il fondamento della necessità e il conferimento della necessità alle cose è il conferimento di ciò che non appartiene loro. Invece è necessario che la necessità appartenga alle cose a prescindere dal loro mostrarsi alla coscienza, e che sia la stessa necessità della coscienza, altrimenti la coscienza non potrebbe riconoscerla e sovrapporrebbe la propria necessità eterogenea a quella delle cose. Ma la necessità può appartenere alle cose a prescindere dal loro mostrarsi alla coscienza, solo se le cose esistono già, altrimenti nessuna proprietà potrebbe convenire loro. Dove il luogo in cui esistono già, non può essere il mondo così come è pensato dal senso comune e dal sapere scientifico (quindi non è l’universo con tutto il suo passato e il suo futuro), perché un mondo del genere esiste certamente fuori della coscienza, ma non è eterno (infatti il passato e il futuro dell’universo sono sempre pensati come nulla, e nessuno si sognerebbe mai di dire che esistono semplicemente in un altro luogo). Poi chiedi perché nell’infinità dell’essere ci dovrebbe essere una sua parte come la coscienza all’interno della quale si mostri la variazione (e quindi la parzialità) dello spettacolo dell’essere. In estrema sintesi spiegherò che, se teniamo conto che la necessità delle cose è la stessa necessità della coscienza, e che le cose devono sempre mostrarsi innanzitutto nella necessità, la necessità non è altro che la coscienza. Infatti, anche se la coscienza non fosse la necessità, ma venisse considerata come una tra le cose, anch’essa dovrebbe apparire nella necessità, che dunque si configurerebbe comunque come la coscienza suprema. E’ vero che le cose non appaiono tutte in una singola coscienza, ma questo significa che ci sono più coscienze, perché nulla può apparire se non appare in (almeno) una coscienza. La variazione dello spettacolo all’interno di ogni coscienza (e quindi il tempo, il divenire) è necessaria perché da un lato ogni coscienza, essendo necessità di tutte le cose (la necessità di tutte le coscienze e di tutte le cose è la stessa), dovrebbe accogliere in sé in una sola volta tutte le cose, dall’altro, essendo ogni coscienza solo una parte della totalità, non può accogliere tutte le cose in una sola volta. Questa contraddizione non è risolta negando alla coscienza il carattere della necessità come si farebbe con ogni contraddizione formale, sia perché questa negazione si dovrebbe operare comunque sul fondamento della stessa necessità, sia perché qui la contraddizione non si produce per il motivo che la coscienza contiene troppo rispetto a quel che dice la contraddizione, ma per il motivo che ne contiene troppo poco (cioè che manifesta troppo poco del suo contenuto non potendolo manifestare tutto). Questa contraddizione è dialettica e non formale, proprio perché non si risolve negando il contenuto di ciò che essa dice, ma incrementandolo. E’ per questo che nella coscienza l’essere appare sempre nuovo, ed è per questo che, essendo la variazione un incremento, è necessario che tutto l’essere già manifesto non scompaia per sempre, ma si conservi dimenticato nella coscienza, in attesa di riapparire (definitivamente) quando sarà destinato. |
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07-05-2012, 16.16.20 | #107 |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Grazie Il Seve per la risposta, hai capito bene che kant centra almeno quanto Ficthe nella questione da me riportata, tuttavia devo dire che non hai colto ciò che intendevo. Questo non è un problema .
Ora riscriverò il quesito, ma metto subito in chiaro che non mi pongo un problema riguardo la contingenza dei contenuti della conoscenza (quindi il problema di una conoscenza fallace, sempre da rinnovare), questo lo do per necessario, perché noi siamo interni ad un sistema e non possiamo comprenderlo tutto (qui la parola comprendere cade a pennello con tutte le sue sfumature). Il vero quesito riguarda la contingenza della conoscenza stessa all'interno di un sistema che potrebbe essere reale anche senza di essa. Guardamo kant ad esempio, i suoi principi a priori, il suo "innatismo" non è come quello di Cartesio, secondo cui Dio avrebbe immesso in noi alcune conoscenze; i principi a priori di Kant valgono per una conoscenza possibile in sé e con ciò li si ascrive a qualsiasi ente che conosce (diciamo che solo chi è conoscente può "rendersi conto" cioè "sapere", conoscere). Con ciò voglio solo che tu capisca di cosa parlo e allora faccio un esempio ancora più diretto: mettiamo che i fisici riescano a descrivere le interazioni che avvengono tra la materia in modo preciso, tanto che si possa dire: "ecco, l'universo si è formato ed evoluto meccanicamente tramite queste regole", a cosa servirebbe la coscienza dentro a questa descrizione della realtà? Non potrebbe esistere solo la materia che interagisce senza il precetto cosciente? Una possibile risposta al quesito potrebbe essere: "ma la coscienza emerge da quelle interazioni". Ok, ma mentre quelle interazioni si danno per necessarie -diciamo che sia io che te crediamo che l'universo non poteva non esistere e allora ci dovevano essere quelle interazioni fatte in quel modo- l'emergere della coscienza appare del tutto contingente all'interno del sistema, è una cosa che emerge così, senza scopo...? Forse ora puoi comprendere meglio la soluzione che stò vagliando per questo problema ed è qui che entra Ficthe; perché è vero che il non-Io è ciò che è sconosciuto all'Io, però il piano noumenico per Ficthe era una cavolata, e perché era così falso quel piano? Lo era perché il noumeno è qualcosa di per sé già posto, reale, anche se incomprensibile (non per niente sai bene che per kant è quello il fondamento della libertà, assolutamente inconcepibile per la ragione teoretica, ed è anche ciò da cui derivano tutte le cose). Quello che inizio a credere è che un oggetto di per sé non è solo inconoscibile ma non c'è, e che non esistono prima gli oggetti e poi le relazioni, ma che sia la relazione a distinguere ciò che prima non era che una sola cosa o un nulla. Ma lasciamo stare di inoltrarci in certe questioni ancora più complesse, mi piacerebbe sapere se prima avevi capito bene e sono stato io a non comprendere le tue risposte (ma non credo perché ho letto attentamente), o se è vero il contrario -in questo caso puoi rispondere ovviamente centrando il quesito, grazie ancora, ciao! |
08-05-2012, 20.32.14 | #108 | ||
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Non potrebbe esistere solo la materia, perché (l’interpretazione in cui consiste) la materia deve pur apparire, altrimenti sarebbe nascosta. E’ necessario che ci sia un luogo in cui appaia. Nella prospettiva della scienza e del senso comune accade che la dimensione originaria in cui le cose appaiono non è la coscienza, ma viene chiamata “mondo esterno” o universo, e poi all’interno dell’evoluzione di questa dimensione viene pensato il sorgere di un’ulteriore dimensione chiamata “coscienza”. Secondo questo modulo, la coscienza è una dimensione derivata, e quindi non può avere una visione trasparente della manifestazione delle cose, perché il suo sguardo è intorbidato dalla relatività del suo punto di vista. Sono d’accordo con te che è una situazione insostenibile, perché se fosse così, e fossimo noi quella coscienza, allora ciò che stiamo affermando sarebbe altrettanto relativo. La soluzione è quindi, come supponi, che ciò che va attribuito di originario al “mondo esterno” andrebbe attribuito alla nostra coscienza, che dunque è essa che contiene lo spazio infinito e i millenni del tempo e non viceversa. Si tratta inoltre di capire che quelle regole che citavi secondo le quali “l'universo si è formato ed evoluto meccanicamente”, al netto del contesto scientifico che dà loro quello specifico significato “realistico”, sono proprio la coscienza stessa dell’universo. Infatti, è innanzitutto all’interno della sintassi da esse costituita che l’universo può apparire ed essere quel che è. Quindi è impossibile che la coscienza delle cose non esista o che sia apparsa solo ad un certo momento dopo una fase si assenza. Citazione:
E questo infatti si deve dire se, come stai facendo, si vuole ripercorrere lo sviluppo storico che porta dalla credenza kantiana nella cosa in sé, al riconoscimento della contraddittorietà di quest’ultima ad opera dell’idealismo. Con la differenza che per Fichte, la cosa in sé è contraddittoria (un passo avanti rispetto a Kant), ma esiste ancora (ed è questa sua esistenza il fondamento perché la conoscenza abbia ancora un futuro davanti a sé e il compito di togliere la cosa in sé sia infinito), mentre per Schelling e Hegel la contraddittorietà implica l’inesistenza della cosa in sé. Va bene quando dici che “non esistono prima gli oggetti e poi le relazioni, ma che sia la relazione [tra coscienza ed oggetto] a distinguere ciò che prima non era che una sola cosa o un nulla”. Ma questo stabilisce che ogni ente deve essere affermato sul fondamento della coscienza e non può prescindere da questo fondamento, e non stabilisce ancora che non esistano enti al di fuori di quelli che si manifestano nella coscienza. L’idealismo, dichiarando inesistente la cosa in sé sul fondamento della contraddittorietà di un ente che è affermato senza esserne coscienti, fa il tuo stesso errore di pensare che togliendo la cosa in sé non rimanga più nulla fuori della coscienza. In questo modo crede di riguadagnare nuovamente l’accesso all’essere da parte del pensiero perché tutto l’essere possibile non è altro che quello manifesto alla coscienza e di cui la coscienza ha quindi pieno possesso. Invece tolta la cosa in sé, fuori della coscienza appare finalmente tutto un mondo che né il realismo né l’idealismo hanno mai potuto vedere. Infatti, l’equivoco dell’idealismo (che pure è una filosofia che fa un passo avanti rispetto al realismo) è pensare che il campo della cosa in sé esautori ogni possibile senso di ciò che non appare alla coscienza, quando invece la cosa in sé è solo quel modo specifico di pensare l’”esterno” che scaturisce dalla presupposizione che l’essere non sia trasparente al pensiero perché l’essere è reale mentre il pensiero è mentale. Una volta istituito il pregiudizio dell’eterogeneità tra essere e pensiero, da Cartesio a Hegel si è andati alla ricerca di qualcosa che facesse da ponte tra i due. Ma se il dato (ingiusto) di partenza è l’eterogeneità, ogni ponte è “posticcio”, “fittizio”, ed infatti questo ponte, partendo dal mentale, non può mai avere la sicurezza che esca dalla sua dimensione di partenza per arrivare fuori. Perché questo ponte non è altro che mentale anch’esso. Kant ha buon gioco nel far fuori l’argomento ontologico dicendo che pur nell’intenzione di voler provare qualcosa di esterno alla coscienza, rimane pur sempre un ragionamento. L’idealismo quindi non elimina ogni senso possibile di ciò che non appare alla coscienza, elimina solo quel senso specifico originato dal presupposto che l’essere non sia trasparente al pensiero, trovandosi però ancora invischiato in un problema non da poco. Il problema è che l’idealismo riguadagna l’accesso al pensiero in maniera mediata, cioè ancora sul fondamento di un ragionamento che faccia da ponte tra l’essere e il pensiero. Questa volta però non si tratta di arrivare impossibilmente alla cosa in sé, ma si tratta di arrivare allo stesso essere della coscienza. Quindi non può più valere l’obiezione di Kant, perché non si sta più tentando di uscire dal mentale. La mediazione consiste nel riguadagnare l’accesso al pensiero, ma attraverso la considerazione che la cosa in sé è impossibile. Quindi, il pensiero parte da sé, passa per la negazione della cosa in sé, e giunge all’essere presente alla coscienza. Però il problema di ogni mediazione tra essere e pensiero è che riproduce l’eterogeneità tra i due in modo così problematico da richiedere ulteriori infinite mediazioni. Infatti, se chiedessi se la mediazione operata appartenga al pensiero o all’essere, qualsiasi risposta dia richiede subito un’ulteriore mediazione tra la prima mediazione e il pensiero, o tra la prima mediazione e l’essere. Il presupposto originario che nega la trasparenza dell’essere al pensiero, va quindi negato: il pensiero è pensiero dell’essere già all’origine, e così l’essere è l’essere del pensiero. Cioè quel che ci appare non è una rappresentazione, ma proprio la cosa stessa così come essa si presenta trasparentemente al pensiero. Anche se l’ente non appare in una sola volta in tutti i suoi aspetti, non significa che appaia altro, o una versione deformata. Oppure, se attraverso la conoscenza di maggiori suoi aspetti ci sembra diventare altro da quel che ne capivamo precedentemente, questo non significa che si sia presentato prima o dopo come altro, ma che o prima o dopo si è fatta una lettura errata. Ciò che è sperimentato è sempre verace, così come lo è il pensiero necessario che si mostra tale. |
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08-05-2012, 20.34.18 | #109 | |||
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Se questo discorso implica che gli accidenti entrano in sintesi con un ente solo quando l’ente esiste e non quando è ancora possibile, penso di aver già risposto quando nell’altro post dicevo Citazione:
Sulla stessa linea troviamo Kant, il quale istituisce il principio di determinazione completa che dice che ogni ente possibile è già sempre determinato nel possedere uno dei due opposti di tutte le infinite coppie possibili di predicati opposti. Nelle parole di una delle definizioni di Kant: Citazione:
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09-05-2012, 15.15.27 | #110 | |
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Riferimento: Definire il concetto di libertà
Citazione:
Considerare la coscienza una "dimensione derivata" mi è nuova, ma non mi dispiace poi così tanto. Quel che non comprendo maggiormente non è tanto il concetto di dimensione, ma di "derivato". Facciamo un passettino indietro e ri-consideriamo il concetto di dimensione. Può una dimensione essere derivata? E se la risposta fosse si, da cosa deriverebbe? Ammettiamo di avere un carrello (poniamo un esempio pratico), esso corre su un binario. Il binario è la dimensione sul quale il carrello si muove. Potrei forse affermare che il binario sia derivato dal carrello? Cioè posso affermare che la dimensione è la conseguenza del carrello? Faccio queste disquisizioni sulle dimensioni poichè non mi è chiaro (soprattutto cosa pensiate voi) se delle dimensione (una tra le 4 conosciute o tutte e quattro) si possa conoscere la derivazione. Voi che parlate tanto di Kant, bene per lui lo spazio è un apriori. Le dimensioni sono un nostro (secondo Kant) sistema di riconoscimento degli oggetti e quindi del mondo esterno. Cioè non sono un sistema fisico realmente esistente, ma la loro esistenza deriverebbe dall'esistenza del nostro sistema di riconoscimento delle forme. Tutto sommato a me va anche bene, forse non convincerebbe totalmente un fisico, ma di quel che pensano loro potrebbe anche non interessarci. Però volevo mettervi in guardia che se facciamo derivare le dimensioni dal nostro sistema di riconoscimento, e la coscienza fosse la forma di riconoscimento per eccellenza, essa non può "derivare" da qualcos'altro sempre che non si supponga (e si dimostri) che il binario (come era l'esempio) sul quale si muove il carrello, derivi dal carrello stesso. Ovvero che il binario sia una conseguenza del carrello (se ci vogliamo complicare la vita, basta poi aumentare i binari su tre o anche quattro dimensioni... e dimostrare che la teoria delle derivazioni continuerebbe ad essere valida). |
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