Utente bannato
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I VANGELI
(inedito)
Continuando le nelle nostre lezioni sui Vangeli, troviamo un episodio rammentato da tutti gli Evangelisti; episodio che può sembrare poco importante, mentre è molto significativo. Intendo riferirmi a queste parole:( Giov. X I V 37-38) Pietro disse : “Signore metterò la mia vita per te”. Gesù gli rispose : “ Metterai la tua vita per me, in verità ti dico che il gallo non canterà che tu mi abbia rinnegato tre volte”.
Soffermiamoci su questo dialogo e cerchiamo di trarre quell’insegnamento che esso vuol darci. Conveniamo che vi sono tante creature, fra le quali forse anche noi stessi, che fanno abbondante uso di parole e di promesse, poi, sovente, scordano tutto e non seguono il Cristo neppure nei piccoli insegnamenti.
Sia il vocabolario di ognuno povero, ma ogni parola sia adoperata perché personalmente conosciuta. È importante il non lasciarsi mai andare a facili promesse in un momento di slancio, ma sempre ricordarsi che chi molto promette molto deve mantenere. Questo perché(ecco un secondo insegnamento) e una grave impresa per l’uomo inseguire la Volontà Divina. Pietro era uno dei più fedeli discepoli, eppure, nonostante la promessa fatta, nel pericolo rinnegò, mostrando la sua debolezza.
Non si è mai forti abbastanza nel voler perfezionarsi; nella battaglia si nota il coraggio del soldato, non nella pace. Si è avvisati come fu Pietro; si cerchi di non tradire mai la Fede, perché colui che la tradisse tradirebbe se stesso.
Il terzo insegnamento che ne scaturisce va ricercato nel simbolismo cristiano: Cristo è la Verità , Pietro la Chiesa, il gallo il risveglio spirituale dell’umanità tutta. Prima di questo risveglio la Chiesa ha rinnegato la Verità, ha negato verità dette da Cristo stesso. Queste verità essa le predica, perché predica i Vangeli, eppure continua a rinnegarle. Solo quando il gallo avrà cantato, cioè l’umanità tutta avrà una coscienza spirituale, essa Chiesa si accorgerà della negazione e piangerà amaramente. Si cerchi di fare tesoro di questi insegnamenti che furono dato dal Cristo nel donare la sua Vita.
“Date a Dio quel che è di Dio e date a Cesare quel che è di Cesare”.
Mirate la bellezza di queste parole pronunciate dal Cristo, esse hanno in sé tutta una dottrina, un insegnamento al vivere terreno.
Quant’è vera quella frase per tutti voi che, per legami di famiglia o di altro genere, dovete trascorrere la vostra esistenza nella vita sociale, fra le esigenze della comunità.
Coloro che sono liberi possono ritirarsi da questa schiavitù e dare loro stessi a Dio senza altre preoccupazioni.
Essi fuggono gli uomini; fuggono dalle loro ridicole consuetudini, dalle loro vuote ricercatezze, che usano per ostentare la loro pretesa raffinatezza di modi; fuggono l’ipocrisia, legittimata perché chiamata educazione, ed infine fuggono dall’inutile vita moderna che, per la sua poca semplicità, assilla e toglie la libertà tanto necessaria allo spirito.
Certo è assai bello e giovevole potersi ritirare da tanto frastuono, ma non sempre è possibile.
Però eremita è possibile essere pur restando in mezzo a tanta folla; basta saper isolare il proprio cuore, la propria mente dai perturbamenti dell’ambiente impuro; basta, insomma, isolare il sentimento ed il pensiero dagli effetti terreni.
Così, essendo asceta in mezzo alla vita sociale, compiamo il nostro dovere verso Dio; ma v’è un altro dovere da compiere ed è il tributo a Cesare. V’è una grande virtù tanto necessaria e questa è l’obbedienza; per coloro che sono minimi nella scala evolutiva dobbiamo dare il buon esempio e fare il possibile acciocché essa trionfi. Questo perché a coloro che ancora non hanno sveglia una coscienza spirituale è assai necessaria l’obbedienza alla legge terrena che funga da veicolo alla loro tendenza a commettere falli.
O voi che vivete nella società umana, che con essa dividete il tempo e lo spazio, che con essa avete dei rapporti, sapete perché dovete ubbidire sia all’ordine divino che a quello civile.
“A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha” dice il Cristo. Fra questa verità e quella espressa in altra occasione: “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, pare vi sia un contrasto. Per comprendere che l’una Verità integra l’altra dobbiamo rifarci della parabola dei talenti.
Ognuno ha un posto nel piano d’evoluzione della razza alla quale appartiene e, siccome l’evoluzione del singolo è tanto legata a quella della collettività che è determinante e conseguente l’evoluzione collettiva, il primo dovere del singolo è quello di migliorare se stesso.
I talenti, dati secondo la capacità, rappresentano l’evoluzione conseguita e la conseguente libertà d’arbitrio goduta. La prima di queste dà la facoltà, siano esse intellettuali che d’altro genere, la seconda la possibilità di farne uso più o meno saggio. Se, per indolenza o per timore, non adempite ai doveri che dovete nei riguardi del vostro prossimo, di voi stessi, della collettività, questo significa non collaborare al grande piano dell’evoluzione della razza. Quali siete, tali rimanete.
La legge d’evoluzione non ammette retrocessioni; così osate quanto per voi è osabile. Non dovete cristallizzarvi, atrofizzarvi, ma rimanete attivi, osare con quello che vi è stato dato affinché osiate. Che cosa avete timore di perdere: l’onore? La stima altrui? La gloria? Non siete poveri di spirito se avete timori di questo genere.
Perché i poveri di spirito, miei cari, non sono gli abulici, gli inerti, i timorosi, coloro che si abbandonano alla prima contrarietà, gli sfiduciati nelle proprie possibilità. I poveri di spirito sono quelli la cui fede, la cui ideologia, sia essa politica che sociale, non impedisce loro di comprendere, di apprezzare, di accettare quanto fuoriesce dal conosciuto, dall’apprezzato, dall’accettato.
Sono quelli che non conoscono limitazioni volute dal fanatico e convenzionale appartenere ad una setta, ad una corrente, suddivisione, siano esse religiose o politiche o d’altro genere.
I poveri di spirito sono i puri, i semplici, sono quelli che non seguono l’arrivismo dettato dall’ambizione, sono quelli che non mietono, non battono e non raccolgono in granai, quelli che percossi su una guancia offrono l’altra, sono insomma i veri Cristiani. Infatti l’atteggiamento passivo nei riguardi di colui che colpisce con odio era insegnato dal Cristo.
I Cristiani non sapevano più che cosa voleva dire occhio per occhio dente per dente, non rivendicavano più l’onore colpito; per questo furono definiti poveri di spirito, cioè vigliacchi, secondo il modo di esprimersi d’allora.
A seguito di ciò che Cristo disse: “Beati i poveri di spirito, perché di loro è il Regno dei Cieli”, ben conoscendo quale beneficio sia, per il singolo e per la collettività, sottrarsi o comunque non perpetuare la corrente dell’odio che altri mettono in movimento.
Egli dette a queste parole ben altro significato che viltà, lo stesso da noi usato. Perché Cristo, miei fratelli, non ha mai insegnato ad essere timorosi, ad essere degli abulici, degli inerti, dei seguaci pieni di lamento. Come poteva Lui che cacciò i mercanti dal Tempio, Lui che sfidò, condannandone l’ipocrisia, i sacerdoti ed i Re?
Ma, direte voi, Cristo ha detto: “Venite a me, o voi tutti che siete affaticati”. Sì, Cristo abbraccia tutti i timorosi per infondere loro coraggio, gli inattivi per renderli attivi, tutti per rinnovellare, tutti per evolvere.
Oggi si dice che Roma cominciò a decadere con l’affermarsi del Cristianesimo, perché questo inibisce la volontà dell’uomo. Non è vero. Roma perse la sua potenza perché dalle colonie i romani ebbero agi che li resero fiacchi e pigri.
Così fratelli, amate restare attivi, non fate come il timoroso nella parabola dei talenti, osate quanto per voi è osabile e con quanto vi è stato dato affinché osiate, ma siate poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli.
inedito C.F.77 (incontri)
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