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16-05-2014, 12.22.58 | #112 | |
Ospite abituale
Data registrazione: 06-04-2014
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
Citazione:
Ne sei sicuro? Mah, io penso che la filosofia di Kant non abbia bisogno di interpreti, anzi sono proprio quelli come Pierce o come lo stesso Adorno, che vogliono vedere delle cose lì dove non ci sono, come il pragmatismo o la dialettica del negativo nel criticismo kantiano. Sono commenti che lasciano un pò il tempo che trovano. Hegel polemizza soprattutto contro la pretesa romantica di cogliere immediatamente l’Assoluto, questo, per Hegel, non si coglie col sentimento, con l’intuizione SENSIBILE o con la fede, ma con uno strumento molto efficace del pensiero! Con Kant, la dialettica era stata collegata alla natura stessa della ragione, considerata come facoltà delle idee caratterizzata dal perenne contrasto tra la tensione verso l’oggetto delle idee e l’impossibilità di coglierlo, essendo la conoscenza umana limitata al fenomeno. La novità del pensiero hegeliano sta nel concepire la dialettica non come un procedimento del pensiero esterno alla realtà, ma come una legge interna e necessaria, tanto del pensiero quanto della realtà. Il cuore della dialettica è il movimento, giacchè il movimento è la natura stessa dello Spirito. La dialettica non è altro che uno sviluppo che tende al concreto mediante il superamento dell’apparenza insita in ogni opposizione, e questo superamento avviene per via astrattiva, perché è l'elemento speculativo. Bisognoso, tralaltro, per potersi realizzare, dei tre momenti logici di tesi, antitesi e sintesi. Dove vedi i sensi io non lo so, Hegel era agli antipodi di Kant. |
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16-05-2014, 23.32.48 | #113 | ||
Ospite abituale
Data registrazione: 12-01-2013
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
Citazione:
condivido largamente, anche la prospettiva armonizzante di Heidegger, che nel post precedente non avevo sottolineato (relazione io - scienza, io - mondo, in funzione dell'armonizzazione del sentimento umano, ove andrebbe spiegato il senso vasto a cui martin alludeva) Citazione:
Di kant per ora sto cercando di assimilare l'introduzione alla ragion pratica, quindi non posso ancora dire se quella di Peirce sia un suo travisamento. Sul problema del sensismo Hegeliano, si potrebbe scrivere molto, per esempio vi è tutta una tradizione di post-hegeliani dell'aria anglosassone, che lo legge sopratutto così (un filosofo scozzese sopratutto, di cui mi sfugge il nome ora). Io bada bene, non sto dicendo che il sensismo sia più importante dell'astrazione, dico solo che è il punto di partenza. Come infatti tu potresti descrivere una posizione di tesi senza una analisi fenomenica (prima di quella logica intendo)? E d'altronde se è vero che Kant rimane in una dimensione spazio-tempo definita, non dimentichiamoci anzitutto dei sui universali e del concetto sintetico della matematica, che a me paiono assai astratti. Come dici tu il movimento è importante per Hegel, ma credo lo sia anche per Kant, questo avendo letto l'introduzione del CRPR: infatti per giustificare quello che (dai manuali) sarà la sua etica, egli specifica che non esiste una critica pura della ragione pratica, ma un movimento che dalla pratica, che è pratica della facoltà di libertà, tramite una concatenazione di eventi (qui uso termini miei) risale alla necessaria credenza di un mondo noumenico (che altro non sarebbe che Dio, come anche Leibcnit concordava). Secondo me ci sono insomma molti punti di contatto fra i 2, anche perchè ricordiamo che alcuni commentatori fanno rientrare Kant come precursore quando non anche primo degli idealisti. Poi capisco che in questo crogiolo di posizioni, tu difenda il primato dell'astrattismo hegeliano da quello pragmatico kantiano, sono entrambe un pò forti come posizioni, ma ci stanno. Non concordo sul loro carattere di opposizione però. |
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17-05-2014, 06.43.10 | #114 |
Ospite
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Messaggi: 67
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
@Sgiombo, Maral e Davide:
E' vero concordo sul fatto che non basta pensare d'aver un origine necessaria all'esistenza ed al pensiero per far sì che si esca razionalmente dal solipsismo. Ma il solipsista è colui che rifiuta la propria identità (forse per la cattiva integrazione psicologica nella sua vita che vede negativamente) e che si serve dell'immaginazione, ai danni della ragione, per elaborare la sua visione di ciò che è ed assume il ruolo d'un dio. Poichè uno è il solipsisita "alla Matrix" che crede che la realtà sensoriale sia frutto dell'illusione e che la sua coscienza trascenda quella realtà, l'altro è quello che crede di essere una realtà, dove lui è dio e non ha origine, che guarda come da un oblò rotto e appannato il mondo che viviamo anche noi. Figurati Sgiombo, credo che nessuno in questo forum possa esser un solipsista convinto in quanto per esserlo bisogna compiere un atto di fede irrazionale, la realtà non ci da nessun motivo per pensare razionalmente ad una cosa simile, quindi il problema di come uscirne non sussiste, è solo un cavillo metafisico creato dall'uomo ed il modo migliore per confutarne uno è chiedergli tramite quali dati è giunto ad esserlo; non potrà che rispondere con un atto di fede a cui non appartiene ragione. Perciò se non c'è chiarezza nel modo di divenirlo non si pone nemmeno il problema di come uscirne o confutarlo, alla stessa maniera nella quale non si possa dimostrare l'insesistenza d'un animale fantastico immaginato per chi è convinto della sua esistenza. A Levinas e Godel scenderebbe una lacrima nel sentir parlare un solipsista che non è altro che un individualista caduto sotto di sè e questa figura trova il suo spazio e fascino nella lettaratura fantascientifica-psichedelica alla Dick. Ed anche se pensassi che questa realtà è un piano più denso dell'esistenza dalla quale trascende un'anima (parte di dio inteso come unità ) in una dimensione differente che soggiace le altre non vedo come potrei postulare l'inesistenza di questa realtà, ne noterei invece le differenze. Alla domanda: E se avessimo preso una droga in un'altra realtà e questo fosse tutto un viaggio? Risponderei che è il congiutivo quello che lo frega e che l'affermazione che precede la domanda è inadeguata. Rientrando nel discorso originato da Davide, concludo, che secondo me, percepito e percezione sono indissolubili e coesi e che non c'è l'uno senza l'altro, e se si volesse provare a trovare il punto di confine o di unione tra i due credo lo si trovi proprio nel noumeno, ma se ipotizzassimo l'esistenza d'un pensiero senza percepito dovremmo prima definire il rapporto tra pensiero e percezione. E se potesse originarsi un pensiero senza percepito sarà esso privo di percezione(eccetto che di se stesso?). |
17-05-2014, 10.05.14 | #115 | |
Moderatore
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
Citazione:
Ritorno su questa interessante questione a cui mi sembrava di avere risposto, ma non ritrovo la mia risposta, dunque forse me la sarò sognata o avrò risposto in una realtà parallela Leggo la domanda in questi termini: Chi è il vero autore delle trame, se l'io è il finto autore, ossia il personaggio che lo interpreta nella narrazione? C'è o non c'è un autore oppure è la trama autrice di se stessa? Seguendo il filo severiniano mi pare di poter affermare che per questo filosofo l'autore delle trame (ma forse non sarebbe opportuno chiamarlo autore, visto che in esso non vi è volontà soggettiva di narrare, ma piuttosto il punto necessario da cui scaturisce ogni trama) è evidentemente la contraddizione C, la contraddizione che sussiste tra l'immediato logico universale del pnc e quello fenomenologico del suo immediato manifestarsi parziale. Questa contraddizione è ciò che sviluppa all'infinito una trama dialettica in cui appare una volontà che progressivamente si identifica come io, ossia come un punto di riferimento sempre più fondamentale per il senso della narrazione stessa. L'apparire di questa volontà mi sembra possa considerarsi aspetto fenomenologico della stessa contraddizione C, ossia della necessità del suo continuo superamento che continuamente superandola la ripropone (e qui si può anche tentare un accostamento con la teoria degli infiniti infiniti di Cantor, tenendo però presente che ci stiamo muovendo su un piano dialettico e non logico formale, dunque non matematico, non insiemistico). Ma a questa volontà, che possiamo definire con Severino "Volontà del Destino" si contrappone a sua volta l'aspetto (in essa implicito) della "Volontà di Potenza" per la quale la trama viene intesa come un sorgere dal nulla che tramonta nel nulla e questo è possibile in virtù di una recisione attuata nell'ambito stesso della contraddizione C, ossia nella scissione tra l'immediato logico e l'immediato fenomenologico , i quali, presi nel loro reciproco isolamento, astratti dal loro rapporto dialettico, non possono in definitiva apparire che come un essere nulla, un essere assoluta contraddizione. L'apparire del divenire dal nulla al nulla è quindi l'apparire della volontà di una radicale scissione che definitivamente sembra poter risolvere il momento dialettico arrivando a concludere ogni trama. E' come la pretesa del personaggio della narrazione in cui l'autore si sta raffigurando di uccidere l'autore vero, che non è un Dio o altro apparente riparo per evitare l'omicidio, ma è il momento dialetticamente contraddittorio fondante di ogni apparire. Ma volendo uccidere l'autore a mezzo del suo squartamento in parti isolate il personaggio stesso vuole in definitiva diventare nulla, non può che rivelarsi a se stesso come un essere nulla. |
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17-05-2014, 20.14.45 | #116 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
Citazione:
Il solipsista “praticante e convinto” non esiste di fatto fra le persone correntemente considerate “psichicamente normali”; e personalmente non mi interessa (anche perché lo trovo molto poco praticabile razionalmente e seriamente) cercare di indagare ulteriormente sui motivi e i meccanismi della patologia psichica dei (comunque di fatto rarissimi) solipsisti. D’ altra parte il solipsismo (teorico) è una tesi filosofica interessante da considerare e, come continuo a ripetere (chiedo venia!) non dimostrabile né tantomeno mostrabile essere falsa. Ritengo filosoficamente interessante rendersene conto, coltivare quel minimo dubbio teorico (senza conseguenze pratiche) circa l’ esistenza di altre cose ed altre persone oltre a sé come elemento di consapevolezza dei limiti del sapere, delle condizioni e della fondatezza (relativa, limitata) delle nostre conoscenze possibili (circa ciò che esiste). Concordo che per essere solipsisti occorra compiere un atto di fede irrazionale esattamente come per non esserlo: anche che non esista nulla oltre i dati fenomenici immediati di esperienza, esattamente come che esiste qualcosa, non è dimostrabile né tantomeno mostrabile. La posizione più conseguentemente razionalistica in proposito sarebbe (se fosse praticabile di fatto da parte di persone sane di mente) lo scetticismo, la sospensione del giudizio; la più “ragionevole” è credere che esistano altre cose e altre persone coscienti). Non concordo con le ultime considerazioni in quanto credo che a essere rigorosamente razionalisti fino in fondo non si possa escludere con certezza che ciò che viviamo sia solo un sogno o un’allucinazione (eventualmente provocato da farmaci) dal quale potremmo svegliarci da un momento all’ altro in un’ altra realtà (a sua volta passibile del medesimo dubbio in un regresso all’ infinito): credo che per essere rigorosamente razionalisti fino in fondo sia inevitabile abbracciare lo scetticismo (ma per essere “ragionevoli” no). |
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18-05-2014, 00.09.12 | #117 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Come è possibile un pensiero metafisico?
Citazione:
Quello che tu hai delineato è esattemente l'esito dell'abbozzo kantiano del soggetto trascendentale: come si accorse Fichte, eliminando il noumeno stesso, inteso come concetto negativo, soggetto e oggetto, finito e infinito, essere e pensiero, o come scrivi tu, pensiero e percepito, sarebbero diventati un'unica realtà, quella procedente dell'io assoluto (fichtiano). Il rapporto tra pensiero e percezione, come l'hai definito, è stato già delineato in maniera profondamente razionale da Hegel in Fenomenologia dello spirito, dove questo rapporto è stato filmato durante tutto il suo svolgimento dialettico. Assai più spinosa è la questione dell'origine di un pensiero senza percepito, e qui la lezione idealista è stata liquidata troppo frettolosamente, secondo me: il punto di partenza di quest'ultima è il pensiero stesso, l' Idea, che solo negandosi si manifesta sensibilmente. Mentre noi, ancora oggi, stiamo chiedendoci se sia possibile pensare qualcosa di non percepito; certo che da un punto di vista empirico, questo punto di partenza è inammissibile, ma il bello di Hegel è che l'ha dedotto induttivamente (non potrei esprimere diversamente la stessa visione hegeliana, poiché in questa visione deduzione e induzione vengono superate dall'elemento speculativo). In altre parole, il finito, il percepito, per Hegel è necessario per lo sviluppo dell'Assoluto, perché è un momento indispensabile nel processo dialettico dello spirito da coscienza ingenua ad autocoscienza, dove il percepito, non è più (solo) tale, ma (anche) soggetto, ovvero pensiero, per usare la tua terminologia. Per me, è una soluzione estremamente razionale, ma ce ne potrebbero essere altre, ovvio. Le critiche più feroci all'hegelismo si sono abbattute sulla sua visione ottimistica della storia, ma la razionalità del suo sistema è indiscutibile, secondo me; io mi permetto di dire, che sia sbagliata la determinazione storica della realtà, ovvero la determinazione reale della storia (che in questo contesto è la stessa cosa), quando quest'ultima avrebbe potuto essere intesa come il dispiegarsi della ragione stessa, cioè nella sua immediatezza, e non come il "luogo" ove si svolge il dispiegarsi della ragione, perché così facendo, tu (Hegel) doti la storia di una realtà ontologica che invero non ha. Ma, a quel punto, avrebbe dovuto intitolare il suo scritto, Fenomenologia della storia. Altra storia. |
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