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31-01-2013, 02.53.44 | #41 | ||
Ospite abituale
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Riferimento: Kant: chi sei?
Citazione:
Quella che chiami sciocca saccenza: è la classica fallacia dell'"uomo di paglia". Affermare che io abbia detto cosa tu debba credere, è un diversivo per confondere le acque della discussione. Una fallacia in cui sei incappato più di una volta! Ho affermato che ritenere Kant un non credente o un ateo è uno sfondone filosofico culturale che pretendevi, per giunta, di spacciare come insegnamento. Dopodiché hai cominciato a cincischiare sul significato dei termini con distinzioni sofistiche e risibili, come fai anche in questo post. Vuoi declinare il credere come calcolo probabilistico? Nello stesso modo si può declinare la speranza e la fede: il risultato non cambia. Sostenere che speranza e fede siano, nel loro significato essenziale, diversi, è frutto di una mancanza di riflessione su questo tema. Forse tu deleghi al verbo credere la capacità di esprimere ogni sfumatura e articolazione della tua condizione ma questo il verbo credere non può farlo. Citazione:
Questa parte del post è una altra cosa: tu parli della tua situazione personale e dei tuoi sofferti stati d'animo per i quali ho empatia. Se vorrai avere un dialogo su questi temi sarò onorato di averlo attraverso mp perché non voglio pubblicamente esprimere i miei sentimenti di fede, cosa che è contraria allo spirito di questo forum o perlomeno così lo interpreto. Voglio dire solo che il Dio dei filosofi non parla al cuore ma alla ragione e questo limite lo capisco perfettamente. Ti invierò comunque un mp. |
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31-01-2013, 21.20.16 | #45 |
Ospite abituale
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Riferimento: Kant: chi sei?
@ Giorgiosan
Non ho capito se, per te, il problema è di "esistenza" o di "conoscenza" (ovviamente mi riferisco alla "cosa in sè"). Per me, l'oggetto (o "cosa in sè", o "noumeno", se non fosse che il termine "noumeno" si riferisce all'atto della conoscenza intellettiva pura, quindi è a mio avviso preferibile non usarlo) "ex-siste", cioè "c'è" al di fuori del soggetto conoscente. Solo che, ovviamente, non è conoscibile al di fuori di esso. E dunque ti ripeto: "se l'osservato dipende dall'osservatore, cioè se la conoscenza dell'oggetto è relativa all'interpretazione che ne dà il soggetto, allora il "noumeno" è, logicamente, l'oggetto nella sua "purezza"; scevro cioè dall'interpretazione che ne dà il soggetto". Il che mi porta a rinnovarti la domanda: dov'è il punto debole che affermi nella teorizzazione del noumeno? A me sembra chiarissimo che Kant parli di "esistenza". Quindi quali "prove filosofiche dell'esistenza dei noumeni"? La prova "provata" è materiale, e riguarda la necessaria "ex-sistentia" di ciò che interpretiamo (altrimenti come potremmo interpretare un qualcosa che non "ex-siste"?) Sul fatto poi che io citi altri filosofi nel tentativo di interpretare ciò che voleva dire Kant: ma perchè lo trovi così strano? Quando, ad esempio, nell'"Analitica" Kant parla della problematicità del noumenon, cosa potrebbe voler dire con ciò? Per me (cioè per la mia pratica discorsiva, direbbero i semiologi) voleva dire che anche la parola "noumeno" è un qualcosa di già interpretato; un qualcosa che dunque non può non porsi come "fenomeno". L'impossibilità anche solo di pensare (come in Peirce) qualcosa al di fuori dell'interpretazione (del "segno") rende l'idea del noumeno null'altro che un fenomeno: ritieni impossibile che Kant abbia pensato in un tal modo (e pur non "nominando" in tal modo)? Levinas, per definire ciò che "ex-siste" al di fuori del soggetto interpretante usa il criptico termine di "il y'a" (il c'è), portando come esempio di un qualcosa che "c'è" anche senza il soggetto che interpreta quello che chiama "ronzio cosmico" (quel "fischio" che si ode nel silenzio più totale). Insomma: la problematicità del noumenon è insita, prima ancora che nel "nomos", nello stesso pensare. Perchè il pensare già implica un "divenire" fenomenico del nomenon. un saluto |
01-02-2013, 08.53.26 | #46 |
Ospite abituale
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Riferimento: Kant: chi sei?
Risposta a Giorgiosan
Rifacendosi al mio primo esempio: beh mi è capitato spesso di vedere sbagliare il tg, non mi pare un atteggiamento così tanto fideista quello di continuare a sperare in una giornata di sole! comunque, vorrei farti notare che se uno può anche sperare da fideista, senza basi razionali, è perché forse effettivamente la speranza ha basi ( anche ) irrazionali. Ho ammesso che alla base di sperare e credere ci sia una meccanica comune, che è quella di ammissione di possibilità ( parlando fuori dalla fantasia ). Per farti un esempio diverso e più centrato... Mondiali di calcio, ottavi di finale, Italia sesta. Molti miei amici si augurerebbero la sua vittoria, anche se non è certo la favorita. Se questo "sperare" si basa pure su un'implicita ammissione di possibilità, non è sufficiente a dire che essi "credano" che l'italia vincerà, pur sperando nella possibilità che rimane che ciò si verifichi. Cioè sperano per preferenza, ma credono per probabilità; hai ragione a dire che la speranza "fantasticante" è essenzialmente un'illusione mal riposta, ma ho usato l'espediente per tentare di isolare la "speranza" come "aspirazione" o "preferenza" dal mondo del calcolo razionale che ti dice quale cosa è più facile che accada. Prendiamo un altro caso - il gratta e vinci - credi tu che chi ne compri uno non sia perché spera di vincere ? avverte la possibilità che ciò sia possibile e se ne lascia elettrizzare. Se ne hai mai comprato uno ( io, di mio, ne avrò grattati due nella vita, ma ricordo la sensazione ) sai che la gratificazione sta proprio nell'eccitazione lasciata da quella possibilità - che di certo è la cosa più lontana dalla certezza o dalla probabilità statistica del verificarsi dell'evento, sennò la gente affollerebbe notte e giorno tabacchini... Giorgiosan, tu mi chiedi di non tentar un'arrampicata sugli specchi per non perdere tempo comune... nulla sarebbe più giusto, se purtroppo io non dovessi pensare lo stesso di te in questo frangente - ti manca uno dei termini della questione: "probabilità" lo hai digerito.... credere si basa unicamente su questo: speranza ha a che fare in primis con la mia volontà.... secondo con le possibilità. La probabilità non c'entra nulla, a meno che non si voglia fare pure delle proprie preferenze un adattamento razionale al corso degli eventi, e dunque ai mondiali smettere di tifare l'Italia per passare alla Germania quando questa segna... dopotutto abbiamo ragione di credere, a questo punto, che sia la favorita, giusto ? Pur ammesso che la speranza abbisogna di una certa forza di fede, cioè di sapere credere, per essere agita, continuo a scorgere una differenza notevole di significato. La fede è necessaria a qualsiasi azione ad ogni modo, non solo a sperare. Anche per camminare ho bisogno di fede ( in me ), così per lavorare, etc. Ho bisogno di credere che il mio fine sia almeno realizzabile. Ma non è questa realizzabilità da sola a farmi scegliere quel fine rispetto ad un altro, bensì una mia preferenza personale che seppur si debba confrontare anche con un calcolo razionale di probabilità, nasce prima di tutto da un desiderio personale, che con tale razionalità ha poco a che vedere, ma piuttosto col "volere". Allineare speranza e credenza mi sembra molto un'opzione impersonale, atta a trovare la via più facile per vivere... non è una brutta idea, ma di qua sono gusti.. |
01-02-2013, 14.34.01 | #47 |
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Riferimento: Kant: chi sei?
@ Leibnicht
Lasciamo perdere il termine "noumeno" (come "atto" - pensato- della conoscenza intellettuale pura, o come "potenza" - pensabile- potrebbe facilmente portarci a un fraintendimento), e concentriamoci sul termine "cosa in sè". Io dico una cosa semplicissima: la "cosa in sè" è null'altro che un significato universale attribuito allE "cosE in sè". D'altronde, io credo, non è possibile parlare deI fenomenI senza riferirsi alle corrispondenti cose in sè, che costituiscono gli oggetti delle interpretazioni che ne danno i soggetti. Il concetto di "cose in sè" è presente in tutto l'Illuminismo, e nasce con Cartesio ("sarà sufficiente osservare che le percezioni dei sensi...non ci insegnano affatto che cosa tali corpi siano in sè stessi"). Kant dice che la conoscenza (la conoscenza...) umana è conoscenza di "fenomeni", giacchè solo il fenomeno è oggetto della intuizione sensibile umana (mentre, come ben sottolinei, l'intuizione intellettuale è, secondo Kant, propria di un "creatore"). Come d'altronde dicevo, nella seconda edizione della Critica della Ragion Pura Kant corregge questo punto fondamentale (tranne tornarvi, sotto certi aspetti, nell'Opus Postumum...), definendo l'io dell'appercezione pura (quindi l'io dell'intuizione intellettuale) come una funzione meramente formale, in quanto può solo "ordinare e unificare" una materia che dev'essergli "data"; cioè che egli non "crea". Quindi, a mio parere (considerando anche i prodromi della visione di Kant) la traccia logica per intendere le cose in sè esiste eccome: basta pensarle come "oggetti" (oggetti che, appunto, sono "dati" - cioè non "creati"). Che poi Kant, come dire, "indulga" ad estensioni particolari (nella metafisica) di questo concetto è una cosa che, ritengo, di secondaria importanza (rispetto agli "oggetti dati" che limitano e circoscrivono le capacità dell'uomo; che rivelano soprattutto la sua in-capacità di "crearli"). Sulla Fede: beh, che dire, ci ricordi spesso e a proposito del "contesto"... D'altronde, io non mi sono mai sognato di dire che Kant fosse "ateo"; ho invece detto che l'atteggiamento di Kant davanti alla religione è quello di chi assume la religione stessa come "problema" (e che perciò non può dirsi "credente" nel senso comune del termine - ho portato ad esempio il mio stesso caso). La scelta, pratica, di Kant per il valore religioso è fuori da ogni dubbio (ho qualche dubbio che questo possa voler dire "credere" per un luterano), ma la mia domanda è: Kant "sente" Dio? Certo, egli "sente" la legge morale, ma può questo voler dire "sentire" Dio? Comunque ammetto che si tratta di domande forse capziose, e non la tirerei tanto per le lunghe (per così dire). un saluto |
01-02-2013, 18.18.52 | #48 | |
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Riferimento: Kant: chi sei?
Citazione:
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01-02-2013, 19.18.48 | #49 | |
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Riferimento: Kant: chi sei?
Citazione:
La relazione di Levinas con Kant consiste nella riflessione sul male radicale, analizzare la relazione fra le due concezioni non ci darebbe alcun vantaggio nella comprensione del pensiero di Kant. E’ risaputo che Levinas parte da Heidegger, ma tematizzare questo rapporto non ci darebbe alcun vantaggio nella comprensione del pensiero di Kant. E’ chiaro che ci sono dei “fili” che partendo da Kant toccano non solo Heidegger e Levinas ma ogni filosofo contemporaneo e successivo a Kant, tale è stata l’influenza del suo pensiero. E’ un termine di riferimento a quo, un must della filosofia. D’altra parte il suo pensiero non è facile da comprendere, difficoltà della quale lo stesso Kant era consapevole tanto da produrre dei testi più facili, potremmo dire divulgativi. Lo stesso lessico presenta delle difficoltà. Ora gli accostamenti, le associazione, i parallelismi, ecc. con altre costruzioni filosofiche anche se legittimi intralciano o quanto meno complicano la lettura di Kant. Spesso poi gli accostamenti, i rapporti, i parallelismi, le associazioni sono di natura personalissima complicando ulteriormente il dialogo. ----
Riguardo al noumeno ti faccio una domanda. In che modo il noumeno modifica i nostri sensi oppure come provoca il fenomeno? Per Tempo2011 Ma chi ce lo fa fare di applicarci alla studio di Kant, viste tutte queste difficoltà e perché? Risponde Paul Valery: “ E quello fu Kant qui genuit Hegel, qui genuit Marx, qui genuit… . Amleto non sa bene che farsene di tutti questi teschi. Ma se li abbandona!… Smetterà di essere se stesso." Ultima modifica di Giorgiosan : 01-02-2013 alle ore 22.30.53. |
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01-02-2013, 21.25.45 | #50 |
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Riferimento: Kant: chi sei?
@ Giulio
Scusami tanto, ma come ritieni possibile "violare" o "rispettare" quella che dici essere una caratteristica innata (la legge morale)? Credo, fra l'altro, che chi va contro la legge morale si renda sì conto del proprio comportamento, ma solo in relazione ad un contesto culturale in cui, presumibilmente, è sempre vissuto. Eppure, questo ipotetico individuo va contro la legge morale; e vi va, a mio parere, perchè è il proprio interesse che lo porta a questo. Il "gene egoista" non va visto nella dimensione politica, o se ne perde il portato eminentemente filosofico. Quello che sto cercando di illustrarti è un concetto della moralità che può essere definito solo ed esclusivamente in due modi (come ti accennavo). Il primo modo è quello che vede nella moralità un qualcosa di "oggettivo" (la moralità come predicato della religione; della tradizione come, se fosse, ma io non credo, di una certa inclinazione biologica innata). Il secondo modo, che è proprio dell'empirismo anglosassone, vede nella moralità un agire volto a soddisfare il desiderio soggettivo. A mio parere, insomma, l'individuo di cui si parlava ha fatto un semplice calcolo, ed ha deciso che il suo desiderio fosse più forte delle inibizioni sociali e culturali della società nella quale egli vive. Sulla base di queste considerazioni, io penso che l'agire umano in relazione alla moralità derivi da un "mix" di queste due basilari visioni. E' chiaro, a mio parere, che culture nelle quali l'individuo è "emerso" in maniera particolarmente netta (penso solo a quelle anglosassoni, ma anche a quelle latine, che mi pare stiano rapidamente recuperando il terreno perduto...) avranno una visione della moralità che più indulge a ritenerla come lo strumento volto ad un "bene" soggettivo (è bene ciò che è bene per me). Anche se, ed è importante sottolinearlo, l'altra visione della moralità non è certo cancellata, ma rimane sullo sfondo, per così dire, pronta ad affiorare con più forza in particolari momenti storici. Allo stesso modo, culture (penso solo alla araba) con una forte componente di tradizionalismo e di religiosità, avranno un concetto della moralità come eminentemente "oggettivo". E poco spazio vi troverà il desiderio soggettivo (che pur non sarà, anche in questo caso, cancellato). Mi sembra che questi che ti ho descritto possano rappresentare i momenti salienti della nostra discussione. Direi quindi di lasciar perdere altre cose, che possono rappresentare motivo di fraintendimento (vedi quel discorso sulla "selezione", che con ogni ovvietà non ho mai pensato tu potessi considerare, se non come paradosso, cioè quello che io intendevo). Un caro saluto |