Ospite abituale
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Karma è ....azione - Per Buddhisti in erba
E' affermato che il Buddhismo nega l’esistenza dell’anima e che pertanto la salvezza, l'estinzione (sanscrito: nirvanam, pali; nibhanam) si risolve nel nulla.
Le cose non sarebbero apparse così complicate, se si fosse partiti fin dall'inizio sulla base degli antichi testi canonici. Se non aves-simo conosciuto inizialmente le leggende, ricche di particolari fantastici, dell'ultimo pe-riodo, non avremmo certamente messo in dubbio, come è avvenuto in precedenza, la Storicità della persona del Buddha, ne avremmo visto l'elemento mitologico nei resocon-ti sulla sua vita. Allo stesso modo, la questione di come il buddismo originario considerasse il problema dell'anima e della vera natura della salvezza sarebbe apparsa, da subito, sotto una luce differente, se non avessimo dapprima conosciuto i testi Mahayana, per la cui comprensione mancava all'epoca qualsiasi presupposto e che dovevano necessariamente condurre a un'errata interpretazione.
E, tuttavia, dopo essere giunti a tale conclusione, era estremamente difficile rimuovere i vecchi pregiudizi". Così Frauwallner definisce, inoltre, "un insostenibile e grossolano anacronismo" l'attribuzione, delle dottri-ne tarde al Buddha e, in particolare, della dottrina del Dharma, da parte soprattutto degli studiosi russi.
(…) ci si avvicina così sapientemente all'antico spirito indiano da cui si era origi-nata la dottrina:
"Come (bisogna) porsi riguardo al problema della salvezza? Ci si è sforzati, in primo luogo, di trovare la soluzione nel termine con cui il buddhismo designa la salvezza e, cioè, nella parola estinzione (nirvanam, p. nibbanam). Questa parola indica l'estinzione di una fiamma e la salvezza viene, appunto, assimilata a quest'immagine. Si è affermato, pertanto, che come la fiamma svanisce estinguendosi e cessa di esistere, così il liberato si annulla nell'estinzione. Ma tale ragionamento si fonda su presupposti del lutto infondati e commette il grave errore d'introdurre nel mondo del pensiero indiano dei concetti che non gli appartengono. Come abbiamo già osservato nel capitolo sulla filosofia epica, nella discussione tra Bhrgu e Bharadvaja, il divampare e " l'estinguersi di una fiamma per l'indiano dell'antichità non ha il significalo di un nascere e di uno svanire, bensì di un rendersi visibile e nuovamente invisibile.
E questa è la ragione per cui quell'immagine viene usata per descrivere il destino dell'anima dopo la morte. Alla luce di questa verità le parole del testo divengono completamente chiare quando si afferma: "L'anima (jivah) che è entrata nel corpo non muore quando muore il corpo, ma è simile al fuoco quando si è bruciata la legna da ardere. Come il fuoco divie-ne impercettibile se non si aggiunge altra legna e, poiché ha penetrato l'etere, non ha un posto fisso ed è, quindi, difficile da distinguere, così l'anima quando abbandona il corpo si trova in uno stato simile e non viene percepita a causa della sua sottigliezza; su questo non ci può essere alcun dubbio. Il fuoco, dunque, estinguendosi non scompare, bensì diviene semplicemente inconcepibile, E la medesima idea sottende l'assimilazione della salvezza all'estinguersi di una fiamma da parte del Buddha.
Come non si può conoscere la via del fuoco estinto, afferma ad esempio in un passo, così non è possibile indicare il cammino dei liberati, che sono andati oltre i vincoli e il torrente dei desideri e hanno raggiunto la beatitudine eterna e immutabile. Quest'unico passo sarebbe sufficiente... Esistono, inoltre, altre affermazioni che dimostrano chiaramente come l'estinzione sia stata male interpretata nel significato di annientamento. Si parla di una sfera di estinzione (nirvanadhatuh) in cui entra il liberato, di una città di estinzione (nirvanapuram).
Ed è talmente evidente quando il Buddha parla in questi termini dei luoghi dell'estinzione:
'Esiste, o monaci, un non-nato, un non-creato, un non-fatto, un non-formato. Se non ci fosse, o monaci, questo non-nato, non-creato, non-fatto, non-formato non ci potrebbe essere il nato, il creato, il fatto, il formato'.
Il tentativo di vedere, dunque, nell'espressione dì estinzione (nirvanam) il concetto di annientamento si basa su un'errata interpretazione" (pp. 225-227)'.
Alcune affermazioni riservano, inoltre, particolare attenzione, come ad esempio:
"L'uomo comune può facilmente cadere nell'errore di considerare la propria personalità mondana come il suo vero sé (atma, p. atta). Ciò lo porta ad attribuire una particolare importanza a questo sé e a tutto quello ad esso collegato. In questo modo il desiderio e la sete si risvegliano. Egli, secondo quanto afferma il buddhismo, vi si attacca (upada-nam) creando così le condizioni che lo vincolano a questa esistenza e lo conducono di rinascita in rinascita ad un nuovo divenire (bhavah). Se, invece, l'uomo comprende che tutto ciò non è il suo vero sé e che in realtà non lo riguarda, il desiderio si spegno ed egli si allontana da ogni cosa terrena, le condizioni che lo legano all'esistenza si spezzano e ottiene così la salvezza. Tale concezione si riallaccia, in ultima analisi, ai concetti già noti, tramandatici dalla filosofìa delle Upanishad.
Lì la conoscenza dell'Atma, del Sé e, quindi, del vero Io o Sé e considerata determinante per raggiungere la salvezza. L'uomo che distingue il ve-ro Sé si allontana, infatti, da tutto il resto e si distacca dalle cose terrene. Come, appunto, afferma efficacemente Yajnavalkya nell'ultimo discorso alla sua sposa Maitreyi, è soltan-to l'Io, l'Ego, l'Atma che conferisce valore ad ogni cosa e, dunque, soltanto per esso val-gono le giuste aspirazioni. Ciò che differisce da quest'Io è sofferenza (tato 'nyad artam). In entrambi i casi ci troviamo sostanzialmente di fronte agli stessi concetti, anche se nel buddhismo sono formulati diversamente ed espressi, per così dire, in termini negativi. Il buddhismo, infatti, non afferma che si dovrebbe conoscere il vero sé, bensì che non si dovrebbe considerare come sé (atma, p. atta) quello che il sé non è. Altrimenti il desiderio si attacca al falso sé e si determina uno scompiglio nel ciclo della natura. E la salvezza ha luogo non attraverso la presa di coscienza del vero sé, bensì attraverso il ricono-scimento del non-sé (anatma, p, anatta), di tulio quello che è erroneamente considerato il sé e rimuovendo, quindi, da ciò il desiderio" (pp. 192-193)-
"Inoltre, l'amica tradizione buddhista riferisce che il Buddha, subito dopo il ser-mone di Benares, rivolgesse ai suoi primi cinque discepoli un secondo discorso, che è stato conservato ed è noto come il discorso delle caratteristiche del non-sé. In esso il Buddha spiega, innanzi tutto, in maniera diffusa che i cinque gruppi di attaccamento' non devono ritenersi il sé. Egli pone poi ai suoi discepoli le seguenti domande; 'Cosa pensate, o monaci, che la corporeità sia permanente o impermanente?….
Dunque, tutte le azioni sono seguite da conseguenze inevitabili, seppure non immediatamente. Questi semi karmici o “tracce karmiche” (bag-chags) esistono come potenzialità nascoste che giungono a maturazione quando le necessarie cause(o condizioni) secondarie sono presenti. A causa di azioni negative commesse inquesta vita o in "vite precedenti", la maggior parte delle persone ha debiti karmici dapagare : tali debiti sono delle potenzialità che, per essere saldate, possono causare danni al debitore, persino la morte".
Ma cosa sono dunque le cause secondarie?
"L’esempio che spiega la causa primaria è il seme piantato nella terra per far crescere la pianta. La causa secondaria è rappresentata da tutti i fattori che permettono prima al seme e poi alla pianta il loro sviluppo :la luce, il calore, l’acqua, il concime. Così, se pure è compiuta un’azione come causa primaria, l’effetto e la sua conseguenza si avranno solo se le circostanze successive (secondarie) ne potranno avviare la maturazione che si manifesterà in quella stessa vita o nella successiva".
Prescindendo un momento da ciò che si debba intendere per vita presente o successiva, è interessante guardare al karma come una dimensione dell'essere che presenta diverse gradazioni. Il karma che non diviene immediatamente attuale (ma che potrebbe attualizzarsi in ogni momento) "è" o ci si potrebbe azzardare a dire che assolutamente non è? Che grado di realtà attribuiremo a ciò che in assenza delle "cause secondarie" non è ancora giunto alla maturazione?
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