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Vecchio 09-06-2014, 11.35.21   #11
sgiombo
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Originalmente inviato da Aggressor
Prima di tutto volevo dire che non so quanto il mio apporto sia in linea con le idee di giulioarretino; ho scritto credendo che possa trattarsi di un particolare esempio "ontologico" in linea col suo discorso in generale.


Sgiombo, io ritengo che le parole per avere significato debbano appoggiarsi su qualcosa di cui abbiamo cognizione (non sono di quelli che crede alla "cupola sferico-quadrangolare"), e che nessun concetto è da noi pensato al di fuori dalla relazione con altri concetti, né sembra possibile affermare che un corpo trovi in sé stesso quanto basta per essere ciò che è (la Luna è tale in quanto <<quel corpo che orbita attorno alla terra>>, ed anche questo complesso terra-luna è tale solo in quanto inserito in un certo contesto e così via); si può cambiare senza cambiare "noi stessi", per essere diversi basta che cambi qualcosa "al di fuori di noi" (io sono il figlio di Ernesto solo se Ernesto è mio padre), dunque non potremmo essere noi stessi se non in co-esistenza con ciò che usualmente chiameremmo "alterità" ma che a questo punto riterrei parte di noi. Cerchiamo di isolare alcune cose col pensiero, di astrarle dai contesti, ma non ci riusciamo effettivamente, mentre l'idea di qualcosa del genere rimane come un indirizzo irraggiungibile. è prima di tutto questa accezione di cosa in sé che nego.
Per essere più chiaro voglio dire che non abbiamo alcuna cognizione di oggetti in sé, né di oggetti dipendenti da altri (questa seconda lettura, infatti, non è davvero opposta alla prima, poiché ammette l'esistenza di più oggetti -magari in sé- osservati e irrelati), ma solo di qualcosa che approssimativamente spezzettiamo e tipizziamo (la nostra "esperienza cosciente"); cioè non potremmo ricavare un contenuto di quelle espressioni neanche per opposizione a partire da quella di cui avremmo esperienza.

Sgiombo:Ma la materia può benissimo non essere pensata, come accadeva per esempio sul nostro pianeta prima che vi comparisse la vita cosciente o addirittura la vita tout court.
Secondo l'ipotesi a cui ho accennato non c'è mai stato un momento in cui le cose non erano osservate.




green&grey pocket, non è che citando un pezzetto delle ricerche di Edelman devo finire per appoggiare il neo-darwinismo sociale; quello che so del neo-darwinismo non mi piace molto in realtà, anche se il darwinismo neurale lo apprezzo. Poi non ho ben capito il resto della tua critica, soprattutto la questione dell'io che non deve intromettersi. Il mio discorso è abbastanza chiaro: nel momento in cui si ammettesse che tutti gli enti complessi (con esclusione, dunque, delle sole particelle elementari le quali, a ben vedere, acquisterebbero le loro proprietà solo scontrandosi con il mondo macroscopico, quindi, ipotizzo, quello complesso almeno degli atomi) fossero in grado di percepire la realtà si potrebbe eliminare il dualismo fenomeno/noumeno conferendo immanenza solo al termine di cui abbiamo effettivamente cognizione, cioè quello psichico o fenomenico: la stabilità del mondo sarebbe assicurata dal fatto che esso è sempre osservato.
Berkeley usava lo sguardo perenne di Dio, qui propongo quello di tutti gli enti in quanto dotati di coscienza.


Ma

esistere =/= essere conosciuto esistere

Esistere =/= essere pensato (correttamente, non autocontraddittoriamente) esistere.

Dunque che la cosa in sé non sia conoscibile non implica necessariamente che non esista né tantomeno che si tratti di un (-o pseudo-) concetto contraddittorio.

Secondo la tua concezione (indimostrabile; e che personalmente non seguo; ma questo é irrilevante) necessariamente non c'è mai stato un momento in cui le cose non erano osservate (o meglio sentite, percepite); ma non necessariamente un momento in cui le cose non erano pensate (esistere).




Ma

osservato =/= pensato

Dunque anche ammessa e non concessa la tua tesi, che la materia esista senza essere pensata é possibile (e a maggior ragione non é contraddittorio il pensarlo).




Concordo che il "darwinismo neurale" di Edelman é solo una metafora (scientifica) e non c' entra nulla con l' antiscientifico (ideologico e reazionario) "darwinismo sociale".

Ma non vedo proprio come l' attribuzione (indimostrabile) di una coscienza a tutti gli enti non elementari possa superare il dualismo fenomeni/noumeno: si tratterebbe comunque di una coscienza fenomenica e non certo della "percezione di cose in sé diverse da oggettti o contenuti di percezioni" (concetto autocontraddittorio).

Non vedo differenze fra la "fenomenicità" e non "noumenicità" delle nostre percezioni sensibili (fenomeniche) umane e quelle ipotetiche di tutti gli altri enti non elementari.

Ultima modifica di sgiombo : 10-06-2014 alle ore 07.44.15.
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Vecchio 09-06-2014, 12.44.30   #12
Davide M.
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@ Aggressor
Secondo me ti stai chiudendo in un circolo vizioso: si vuole supporre la materia come semplice contenuto mentale, ma per dimostrarlo si deve ricorrere alla dimostrazione dell'esistenza di una coscienza esterna al soggetto percipiente.
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Vecchio 10-06-2014, 13.55.37   #13
giulioarretino
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grazie a tutti per le risposte e per il benvenuto

ritorno su un solo punto: non capisco perché ipotizzare una conoscenza di tipo ontologico degli Oggetti sia necessariamente contraddittoria.
Certamente non è dimostrabile, certamente ogni tipo di conoscenza non potrà che essere soggettiva e filtrata attraverso le categorie proprie del soggetto (vedasi anche il principio di indeterminazione), e una tesi che affermi il contrario (ovvero che quello che percepiamo è mera apparenza fenomenica, contrapposta alla cosa in sé che invece ci è sempre preclusa) è comunque auto consistente e razionale.

Tuttavia nessuna evidenza o indizio (almeno, imho) lascia pensare che le nostre conoscenze della "realtà esterna" non siano proprietà intrinseche di quella stessa realtà, ma al contrario una mera apparenza fenomenica.
parafrasando il famoso mito di Platone: perché mai le ombre nella caverna dovrebbero essere un "fenomeno" contrapposto al "noumeno" che sta fuori? Perché le ombre non potrebbero invece essere parte di una realtà complessa, di un "sistema" che comprende l'oggetto fuori, il soggetto, e le ombre stesse? Anche il solo fatto di esservi un ombra percepita e interpretata da un Soggetto, ci dice qualcosa sulla realtà come è. Sicuramente non tutto, probabilmente non molto, ma perché non qualcosa?


In altri termini: se per "inconoscibilità della cosa in sè" si intende l'impossibilità da parte del Soggetto di accedere a una conoscenza della realtà che sia oggettiva, definitiva, data, indipendente dal soggetto stesso, e chi ne ha più ne metta, sono d'accordo. Saremmo divinità in caso contrario.
Ma se per "inconoscibilità della cosa in sè" si intende invece l'impossibilità del Soggetto di accedere a un qualunque livello ontologico della realtà, negando alla (limitata quanto si vuole, parziale quanto si vuole, filtrata quanto si vuole, soggettiva quanto si vuole) esperienza e intuizione delle cose da parte del soggetto un qualsivoglia valore ontologico... beh non sono d'accordo, per il semplice motivo non vedo perché sia necessario arrivare a una simile, radicale, negazione (tra le altre cose ipotizzando un "livello" della realtà inaccessibile, metafisico, oserei dire quasi mistico).

Io percepisco che il tavolo è solido. Spiegatemi perché tale percezione necessariamente non riflette una proprietà intrinseca, ontologica della realtà che mi circonda.
Mi si potrà dire (ed a ragione) che la solidità è una proprietà che dipende da categorie soggettive, che è variabile da essere senziente a essere senziente, che la mia percezione è dunque superficiale e parziale, causalmente riducibile a un livello più profondo (molecolare), e che lo stesso tavolo è una parcellizzazione convenzionale e con possibili alternative... ma in alcun modo si può dimostrare che la solidità da me percepita non sia una proprietà intrinseca della realtà ma solo una mera apparenza fenomenica.
Né io potrò dimostrare che lo sia, intendiamoci. Ma non vedo perché non ipotizzarlo fin da subito (anche perché va notato che coloro che partono dall'assunto contrario lo trovano tendenzialmente abbastanza insoddisfacente, e metà della filosofia idealista può riassumersi come un immane tentativo di "dimostrare" una minima l'ontologicità della conoscenza per via logica o dialettica... ovvero dimostrare un qualcosa che si poteva tranquillamente assumere in partenza, data l'assenza di evidenze contrarie)
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Vecchio 10-06-2014, 20.22.30   #14
Davide M.
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Originalmente inviato da giulioarretino
Io percepisco che il tavolo è solido. Spiegatemi perché tale percezione necessariamente non riflette una proprietà intrinseca, ontologica della realtà che mi circonda.

Perché di tale realtà non potrai conoscere mai alcunché, ma solo le idee che tale realtà produce nella tua mente.

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Originalmente inviato da giulioarretino
e metà della filosofia idealista può riassumersi come un immane tentativo di "dimostrare" una minima ontologicità della conoscenza per via logica o dialettica... ovvero dimostrare un qualcosa che si poteva tranquillamente assumere in partenza, data l'assenza di evidenze contrarie.

Non si poteva tranquillamente assumere in partenza, perché l'analisi pregiudiziale delle idee di Hume e l'esito del dualismo gnoseologico di Kant avevano radicalizzato il limite fenomenico della conoscenza. Ciò che l'idealismo eliminò in partenza fu proprio il noumeno.
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Vecchio 10-06-2014, 22.18.46   #15
sgiombo
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Giulioarretino:
Tuttavia nessuna evidenza o indizio (almeno, imho) lascia pensare che le nostre conoscenze della "realtà esterna" non siano proprietà intrinseche di quella stessa realtà, ma al contrario una mera apparenza fenomenica.
parafrasando il famoso mito di Platone: perché mai le ombre nella caverna dovrebbero essere un "fenomeno" contrapposto al "noumeno" che sta fuori? Perché le ombre non potrebbero invece essere parte di una realtà complessa, di un "sistema" che comprende l'oggetto fuori, il soggetto, e le ombre stesse? Anche il solo fatto di esservi un ombra percepita e interpretata da un Soggetto, ci dice qualcosa sulla realtà come è. Sicuramente non tutto, probabilmente non molto, ma perché non qualcosa?

Sgiombo:
Il mito platonico della caverna è tutt’ altra cosa della critica di Berkeley e Hume (sostanzialmente accolta anche da Kant, sia pure tacitamente) alla pretesa realtà “in sé” degli oggetti di sensazione fenomenica: ”esse est percipi”.
Secondo quest’ ultima la realtà degli oggetti percepiti (per esempio una montagna) consiste unicamente in determinati insiemi di sensazioni reali limitatamente al loro apparire alla coscienza.
Si può ben ammettere (non dimostrare né tantomeno mostrare) che qualcosa esista anche allorché non percepisco la montagna, così da spiegare come mai chiunque “si ponga nel posto giusto al momento giusto e guardi nella giusta direzione” vede immancabilmente la montagna; ma allora questo “qualcosa” non può essere l’ insieme di sensazioni (visioni di roccia, alberi, neve, rumore del vento, profumo di fieno, ecc.) che costituisce la percezione (fenomenica) cosciente della montagna bensì qualcosa d’ altro, di diverso, pena la caduta in una patente contraddizione (esistono tali sensazioni e allo stesso tempo non esistono tali sensazioni).




Giulioarretino:

In altri termini: se per "inconoscibilità della cosa in sè" si intende l'impossibilità da parte del Soggetto di accedere a una conoscenza della realtà che sia oggettiva, definitiva, data, indipendente dal soggetto stesso, e chi ne ha più ne metta, sono d'accordo. Saremmo divinità in caso contrario.
Ma se per "inconoscibilità della cosa in sè" si intende invece l'impossibilità del Soggetto di accedere a un qualunque livello ontologico della realtà, negando alla (limitata quanto si vuole, parziale quanto si vuole, filtrata quanto si vuole, soggettiva quanto si vuole) esperienza e intuizione delle cose da parte del soggetto un qualsivoglia valore ontologico... beh non sono d'accordo, per il semplice motivo non vedo perché sia necessario arrivare a una simile, radicale, negazione (tra le altre cose ipotizzando un "livello" della realtà inaccessibile, metafisico, oserei dire quasi mistico).

Sgiombo:
Poiché se “qualcosa” è reale “in sé”, cioè indipendentemente dall’ essere oggetto di sensazioni (anche allorché non esiste alcuna “cosa” costituita da sensazioni in atto ovvero percepita = allorché non esiste alcun insieme di sensazioni a costituire alcun oggetto fenomenico), allora non può essere un insieme di sensazioni fenomeniche (pena la caduta in contraddizione), dunque tale “cosa in sé” è qualcosa di inaccessibile all’ esperienza fenomenica cosciente (anche se si può postulare -ma non dimostrare né tantomeno mostrare- che all’ esperienza fenomenica cosciente corrisponda “per filo e per segno", conferendole un carattere intersoggettivo e dunque –fra l’ altro- la possibilità di essere conosciuta scientificamente).
Si tratta di due ben diversi "valori o livelli ontologici" (per usare le tue parole): l' uno fenomenico, limitato unicamente all' accadere in atto delle sensazioni (e nient' altro), l' altro "in sé" o "noumenico", indipendente dall' accadere di sensazioni fenomeniche, dall' essere percepite delle "cose" fenomeniche.
In questo non c’ è proprio nulla di mistico, ma tutto di razionale.




Giulioarretino:

Io percepisco che il tavolo è solido. Spiegatemi perché tale percezione necessariamente non riflette una proprietà intrinseca, ontologica della realtà che mi circonda.

Sgiombo:
Perché costituisce solo e unicamente un aspetto della tua esperienza cosciente (fenomenica): allorché non tocchi il tavolo la sua (sensazione di) durezza non esiste affatto; e se esiste qualcosa allorché non lo tocchi che fa sì che ogni qualvolta lo tocchi provi (= esista nell’ ambito della tua esperienza fenomenica cosciente) la sensazione di durezza, allora tale “qualcosa” non può allo stesso tempo essere qualcosa che non è (la sensazione di durezza del tavolo), bensì qualcosa d' altro, di diverso.

Giulioarretino:

Mi si potrà dire (ed a ragione) che la solidità è una proprietà che dipende da categorie soggettive, che è variabile da essere senziente a essere senziente, che la mia percezione è dunque superficiale e parziale, causalmente riducibile a un livello più profondo (molecolare), e che lo stesso tavolo è una parcellizzazione convenzionale e con possibili alternative... ma in alcun modo si può dimostrare che la solidità da me percepita non sia una proprietà intrinseca della realtà ma solo una mera apparenza fenomenica.

Sgiombo:
E’ vero precisamente il contrario: in nessun modo si può dimostrare che la solidità da te percepita sia una proprietà intrinseca di una realtà che ecceda, che non sia limitata alla mera apparenza fenomenica (della durezza o solidità) nell’ ambito unicamente della tua esperienza cosciente, e che esista anche allorché non accade come tua percezione.
Anzi, si può dimostrare che non può esserlo (ma casomai può esserci qualcos’ altro, diverso di non fenomenico) per il principio di non contraddizione: allorché la sensazione di solidità o durezza non acccade, non esiste il tavolo che è da essa costituito (nella misura in cui lo è; e nella misura in cui è costituito da altre sensazioni, per esempio visive, non esiste allorché non esistono –avvengono- tali altre sensazioni).

Giulioarretino:
Né io potrò dimostrare che lo sia, intendiamoci. Ma non vedo perché non ipotizzarlo fin da subito (anche perché va notato che coloro che partono dall'assunto contrario lo trovano tendenzialmente abbastanza insoddisfacente, e metà della filosofia idealista può riassumersi come un immane tentativo di "dimostrare" una minima l'ontologicità della conoscenza per via logica o dialettica... ovvero dimostrare un qualcosa che si poteva tranquillamente assumere in partenza, data l'assenza di evidenze contrarie).

Sgiombo:
Ma il riconoscimento della insuperabile fenomenicità (e non realtà “in sé”) di ogni oggetto di percezione non si esaurisce certo unicamente, necessariamente nell’ idealismo deteriore e nei suoi vaneggiamenti metafisici (ad esempio Hume ne è certamente del tutto estraneo).

Ultima modifica di sgiombo : 11-06-2014 alle ore 07.56.44.
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Vecchio 11-06-2014, 11.48.42   #16
giulioarretino
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Originalmente inviato da Davide M.
Perché di tale realtà non potrai conoscere mai alcunché, ma solo le idee che tale realtà produce nella tua mente.


ma non ci sono evidenze a supporto di una simile affermazione.
L'assunto per cui le idee - o le percezioni - che la realtà produce nella mia mente (o meglio che l'insieme di relazioni che si creano tra Soggetto e Oggetto, visto che il rapporto non è a senso unico), non siano idonee a conoscere mai alcunché, è autoconsistente, ma non autoevidente né tantomeno necessario razionalmente.
Tali idee/percezioni/insieme di relazioni non sarà idoneo a conoscere mai alcunché di OGGETTIVO e COMPLETO, ma una conoscenza SOGGETTIVA e INCOMPLETA non per principio inidonea a conoscere qualcosa di ontologico della realtà.

Entrambe gli assunti sono ugualmente accettabili, ma imho quello non-realista porta a conclusioni insoddisfacenti. Se della realtà non si conosce alcunché tranne le idee che questa produce nella mente, e posto che il Soggetto e la mente facciano parte della Realtà e non di "altro mondo", metafisico o comunque separato, allora neppure del Soggetto e della mente si potrà mai conoscere alcunché, se non una mera idea di questi, totalmente inidonea a cogliere cosa essi siano "ontologicamente".
Ma allora ogni affermazione con pretese ontologiche sulle capacità o meno del Soggetto di conoscere o non conoscere questo o quello diventa una questione fideistica

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Si può ben ammettere (non dimostrare né tantomeno mostrare) che qualcosa esista anche allorché non percepisco la montagna, così da spiegare come mai chiunque “si ponga nel posto giusto al momento giusto e guardi nella giusta direzione” vede immancabilmente la montagna; ma allora questo “qualcosa” non può essere l’ insieme di sensazioni (visioni di roccia, alberi, neve, rumore del vento, profumo di fieno, ecc.) che costituisce la percezione (fenomenica) cosciente della montagna bensì qualcosa d’ altro, di diverso, pena la caduta in una patente contraddizione (esistono tali sensazioni e allo stesso tempo non esistono tali sensazioni).

esiste una terza via che non cade in contraddizione.
ovvero che quel qualcosa che io percepisco e definisco come montagna - roccia, alberi, neve, vento - sia sì qualcos'altro oltre al mio insieme di sensazioni, ma non necessariamente qualcosa di totalmente diverso.

basta assumere che il livello di complessità, di interrelazioni e la molteplicità dei livelli della realtà sia tale che la nostra limitata, soggettiva prospettiva e capacità di relazionarci ad essa non sia in grado di cogliere la realtà nel suo complesso, ma solo parzialmente e attraverso un punto di vista obbligato, filtri e categorie ineliminabili.

E' sufficiente, in altri termini, negare ogni forma di riduzionismo ontologico.
Se si ammette la pluralità come intrinseca nella realtà, ovvero che le cose possano essere in molti modi, nessuno dei quali inutile o meramente apparente, e nessuno dei quali vero o definitivo, non vi sono difficoltà ad accettare il fatto che la percezione della realtà sia sì soggettiva, sì parziale, sì filtrata e nondimeno idonea a coglierne degli aspetti.

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Poiché se “qualcosa” è reale “in sé”, cioè indipendentemente dall’ essere oggetto di sensazioni (anche allorché non esiste alcuna “cosa” costituita da sensazioni in atto ovvero percepita = allorché non esiste alcun insieme di sensazioni a costituire alcun oggetto fenomenico), allora non può essere un insieme di sensazioni fenomeniche (pena la caduta in contraddizione), dunque tale “cosa in sé” è qualcosa di inaccessibile all’ esperienza fenomenica cosciente (anche se si può postulare -ma non dimostrare né tantomeno mostrare- che all’ esperienza fenomenica cosciente corrisponda “per filo e per segno", conferendole un carattere intersoggettivo e dunque –fra l’ altro- la possibilità di essere conosciuta scientificamente).

i rapporti che costantemente vengono a instaurarsi tra Soggetto e Oggetto, quando quest'ultimo viene percepito e filtrato dal Soggetto, possono essere e sono tanto ontologici quanto l'infinita, ulteriore porzione di realtà e i rispetti rapporti tra oggetti che invece ci sfuggono o sono preclusi ad ogni relazione con il Soggetto.
Non necessariamente i rapporti che concretamente si instaurano riflettono "per filo e per segno" la realtà delle cose, ma non vuol dire che non possano, per così dire "coagularne" uno degli infiniti (o innumerevoli) possibili aspetti.

Citazione:
Perché costituisce solo e unicamente un aspetto della tua esperienza cosciente (fenomenica): allorché non tocchi il tavolo la sua (sensazione di) durezza non esiste affatto; e se esiste qualcosa allorché non lo tocchi che fa sì che ogni qualvolta lo tocchi provi (= esista nell’ ambito della tua esperienza fenomenica cosciente) la sensazione di durezza, allora tale “qualcosa” non può allo stesso tempo essere qualcosa che non è (la sensazione di durezza del tavolo), bensì qualcosa d' altro, di diverso.

è un modo ragionevole di vedere le cose, ma solo se si accetta questa contrapposizione più o meno netta tra fenomeno e cosa in sé, e tra Soggetto e Oggetto.
se invece si ammette la complessità e la pluralità come intrinseca nella realtà delle cose, non vi è contraddizione nell'accettare che quella porzione di realtà, convenzionalmente identificata come tavolo, che quando lo tocco si configura come solido, quando lo osservo da vicino come un insieme di atomi separati, quando lo tocchi tu o un altro essere senziente magari come cedevole, e quando non lo tocca nessuno come qualcosa di completamente diverso e forse impensabile, sia al tempo stesso tutto questo e non si risolva in tutto questo.
E di conseguenza ognuna di queste possibili configurazioni mi dica qualcosa di ontologico sull'oggetto "tavolo"; e dunque che anche la mia sensazione di solidità del tavolo sia idonea a descrivere (da un solo punto di vista e senza pretese di essere definitiva o esaustiva) la realtà.


l'errore (o meglio il fraitendimento) sta qui.
quanto qualcuno dice che la solidità del tavolo è qualcosa di ontologico, molti restano giustamente perplessi.
tuttavia se dico che la porzione di realtà convenzionalmente identificata come tavolo, rapportato a un soggetto, ha la proprietà di configurarsi, tra le altre innumerevoli possibili e potenziali configurazioni, come solido, dico qualcosa che può ben avere valenza ontologica con riguardo alla porzione di realtà considerata.
giulioarretino is offline  
Vecchio 11-06-2014, 12.40.48   #17
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Sgiombo:
Ma non vedo proprio come l' attribuzione (indimostrabile) di una coscienza a tutti gli enti non elementari possa superare il dualismo fenomeni/noumeno: si tratterebbe comunque di una coscienza fenomenica e non certo della "percezione di cose in sé diverse da oggetti o contenuti di percezioni" (concetto autocontraddittorio).

lo può superare semplicemente perché esso (il dualismo) è introdotto al semplice scopo di garantire persistenza e stabilità ad oggetti che, non ricadendo nel pensiero o percezione umana, dovrebbero scomparire quando non osservati. Ma questa stabilità può essere garantita allo stesso modo dalla mia proposta senza creare il dualismo nel modo che ho spiegato, quindi senza tirare in ballo qualcosa di totalmente estraneo alla nostra cognizione della realtà (il noumeno, che forse non vuol dire niente -ma questo punto lo tralascerei-).
Devo quindi farti notare che continui a far pesare questo assunto ai fini della discussione Si può ben ammettere (non dimostrare né tantomeno mostrare) che qualcosa esista anche allorché non percepisco la montagna, così da spiegare come mai chiunque “si ponga nel posto giusto al momento giusto e guardi nella giusta direzione” vede immancabilmente la montagna; ma allora questo “qualcosa” non può essere l’ insieme di sensazioni mentre, probabilmente, la mia proposta riesce ad aggirarlo completamente.



Sgiombo:
Ma

osservato =/= pensato

Dunque anche ammessa e non concessa la tua tesi, che la materia esista senza essere pensata é possibile (e a maggior ragione non é contraddittorio il pensarlo).


Ma ciò che è pensato sarà percepito (dunque osservato), e ciò che è osservato è sottoposto al pensiero (almeno secondo ciò che io riconosco come pensiero). Per intenderci non credo che una telecamera possa percepire gli oggetti su cui punta (o lo fa in maniera infima e non nel modo in cui un immagine risulta a noi, cioè la telecamera non vede, per ciò che noi intendiamo essere il vedere); e questo perché non ha un sistema "pensante" complesso come il nostro in grado di integrare le informazioni ricevute con tutte le altre in suo possesso. Avere un immagine visiva della realtà deriva da tutte le attività del cervello (da ciò che si dice "pensare", in quanto elaborazione di dati) e non semplicemente da un sistema percettivo in sé. Lo dico per farti intuire in che modo sarei ben tentato di ammettere: osservato=pensato .





Davide M.
Secondo me ti stai chiudendo in un circolo vizioso: si vuole supporre la materia come semplice contenuto mentale, ma per dimostrarlo si deve ricorrere alla dimostrazione dell'esistenza di una coscienza esterna al soggetto percipiente

Ma il fatto è che tra le 2 ipotesi (quella che suppone la materia esser reale al di fuori dei contenuti mentali e quella che suppone la materia esistere solo come contenuto mentale) quella di cui possiamo rintracciare un indizio empirico diretto è solo la seconda. Questo per dire che se entrambe possono spiegare lo stesso numero di cose la seconda può dirsi più elegante in quanto: 1)veramente dimostrabile/osservabile 2)scomodante meno tipi di realtà possibili (c'è un alleggerimento dell'ontologia).
La questione di dimostrare che gli altri abbiano una coscienza o meno non si risolve "empiricamente" ma linguisticamente secondo me; dal momento in cui ti chiedi chi sei e capisci che non puoi dividerti dal resto delle cose, allora vedrai che non potrai negare agli altri ciò che additi a te.
Questo, comunque, per dire che si tratta di un discorso molto complesso (ma che non sminuisce di molto l'efficacia di questa proposta "idealista" rispetto alla controparte dualista), la cui soluzione, secondo me, risiederà non tanto in esperimenti che possano quotare questa o quell'altra ipotesi, ma dalla ridefinizione delle tassonomie scientifiche e dei significati delle parole che usiamo, i quali spesso ci portano, teoreticamente, di fronte a vicoli ciechi.


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Vecchio 11-06-2014, 16.37.08   #18
epicurus
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Ciao giulioarretino,
innanzitutto parto dicendo che in massima parte condivido le tue riflessioni. Peccato, sarebbe stato più divertente partendo da posizioni diverse.

  • Quello che tu chiami pluralismo ontologioco è quello che da svariati anni io chiamo pluralismo concettuale (nulla di originale, è un concetto del filosofo Hilary Putnam. Incollo qui un mio vecchio pezzo che avevo scritto nel forum nel lontanissimo 2006 (che nostalgia ) dato che sostanzialmente la penso ancora così:
    Citazione:
    Originalmente inviato da epicurus
    io credo che il pluralismo (concettuale) sia la giusta via di mezzo tra due allucinazini filosofiche: il relativismo (anarchico) e l'assolutismo. (il relativismo e l'assolutismo, molte volte sbocciano nel solipsismo, o scetticismo radicale, un altro male della filosofia dal quale, io credo, il pluralismo può liberarci.)

    io sostengo, in particolare, che il pluralismo sia lo sbocco naturale del (o forse coincide con il) realismo pragmatico -- o, come lo chiama a volte putnam, un "realismo dal volto umano" o un "realismo ingenuo" --, che conserva molto della nostra concezione pre-teorica del mondo.

    premetto innanzitutto che il mio pluralismo (e il mio realismo pragmatico) è preso in prestito da hilary putnam (o almeno da come io interpreto putnam nei suoi ultimi scritti).

    partiamo da kant. che ci disse, kant, di estremamente importante nella sua critica alla ragion pura? disse una cosa semplice e lampante, cioè che quando noi descriviamo il mondo non stiamo facendo una mera copia di ciò che è là fuori. la descrizione del mondo è sempre modellata dai nostri schemi concettuali (kant, per la verità, pretendeva di averli determinati tutti: in realtà, le categorie non sono fisse ed immutabili, anzi variano da contesto a contesto, col variare dei nostri interessi e scopi. ma ciò è di secondaria importanza per l'argomento).

    è per questo che esistono diverse prospettive, diversi modi di 'ritagliare' il mondo (e qui cade la visione di un'ontologia che ha come scopo quella di redigere un inventario del mondo fisso, ed indipendente dagli uomini). wittgenstein direbbe che esistono diversi giochi linguistici, che riflettono diverse forme di vita, ma anche diversi interessi e scopi (pratici o teorici). è per questo che molto spesso mi trovo a difendere la mente umana dagli attacchi di chi vuole ridurla a concetti fisici/chimici/biologici/informatici: esiste, per esempio, la visione della neurologia che ci parla del cervello e la visione agenziale (ossia quella che presuppone concetti intenzionali) che ci parla di persone. non voglio parlare qui della mente, ma questo era semplicemente un esempio di che cosa intendo io per "pluralismo concettuale".

    ma ritorniamo a kant. kant, oltre alla sua grande intuizione già accennata da me, fece anche un grosso sbaglio, quello cioè di aver fatto il passo più lungo della propria gamba: dopo aver scoperto che le nostre descrizioni sono modellate da schemi concettuali, non contento di questo, affermò che tali descrizioni non colgono la vera realtà, come il mondo è in sé stesso. egli allora si chiese: qual è la descrizione delle cose come esse sono in sé?

    ma questo quesito (il concetto di "in sè" o di "noumeno") è senza significato, è vuoto. infatti, chiedersi com'è il mondo in sé è privo di senso proprio come chiedersi come deve essere descritto il mondo nel linguaggio proprio del mondo (cosa del tutto assurda, naturalmente!). il fatto è che esistono solamente linguaggi umani, che noi parlanti adoperiamo per i nostri svariati scopi.

    che la nostra descrizione del mondo non è una copia totalmente neutrale -- andando così contro all'assolutismo e alla teoria della verità come corrispondenza -- lo si può dedurre dalle tesi che ormai, al giorno d'oggi, sembrano essere pacificamente accettate dai filosofi (ango-americani, ma non solo): la conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza delle teoria, e, viceversa, la conoscenza delle teoria presuppone la conoscenza dei fatti; la conscenza dei fatti presuppone la conoscenza dei valori, e, viceversa, la conoscenza dei valori presuppone la conoscenza dei fatti. già basta questo pre comprendere che non c'è una descrizione metafisicamente neutrale, non esiste il "fatto bruto" a cui far corrispondere una "descrizione bruta".

    prendiamo un caso semplice. gettiamo a caso dei sassolini a terra. ora dobbiamo descrivere ad un amico la loro disposizione. a seconda dei nostri scopi specifici, adotteremo diversi metodi di classificare i sassolini (e se non abbiamo uno scopo preciso, adotteremo un metodo arbitrario, ma mai non ne utilizzaremo nessuno): per adiacenza, per grandezza, per colore, per peso, per lucentezza, etc., etc., etc.......
    io scelgo di descrivere la configurazione dei sassolini seguendo qualche criterio per adiacenza (magari andrò da sinistra a destra, e dall'alto verso il basso, come a leggere un teso, perchè non avevo nessuno scopo specifico; o magari, essendo un esperimento di qualche genere, sceglierò un ordinamento per peso). bene, ora il mio amico mi dice "va bene, tu mi hai dato una descrizione della disposizione dei sassolini che riflette i tuoi schemi concettuali (hai adoperato uno schema di ordinamento), ma non hai dato una descrizione di come i sassolini sono disposti in sé, in realtà non so come essi sono disposti!". ma ha veramente senso l'obbiezione rivoltami dal mio amico? non credo proprio, infatti perchè mai ciò che dico dovrebbe essere in qualche modo parziale (nel senso di 'mancante di qualcosa')? perchè mai il mio amico dovrebbe sentire che nella mia opera di descrizione manca qualcosa?

    da questo esempio ci è chiaro che:
    1) le nostre descrizioni sono modellate dai nostri schemi concettuali (e questi, a loro valta, dai nostri interessi e scopi, generali e locali);
    2) che non c'è niente di male, né di misterioso nel punto (1), anzi non si capisce proprio che significato abbia pretendere una descrizione priva di concettualizzazione.

    il pluralismo ammette diversi punti di vista (i modi di catalogare i sassolini), tutti ugualmente leciti, (e in questo è simile al relativismo anarchico), ma ammette che, scelto un punto di vista (catalogare per adiacenza) vi siano descrizioni migliori di altre, cioè vi siano criteri di oggettività (e in questo è simile all'assolutismo).

    spero di esser riuscito a mostrarvi cosa intendo, più o meno, con il pluralismo concettuale (o realismo pragmatico).
  • Ma perché dovremmo dubitare della realtà delle nostre percezioni. Come scrissi altrove su questo forum, una cosa che spesso si trascura che anche il dubbio necessità di ragioni e argomentazioni. Per affermare che conosciamo qualcosa dobbiamo disporre di argomentazioni ma tali argomentazioni sono necessarie anche per affermare che dubitiamo di un fatto.
    Se uno dubita di p deve mostrarmi una ragione r per dubitare di p; ma se r è dubbia, allora non ho ragione di dubitare di p, quindi avrò ragione di dubitare del dubbio su p.
    Un altro fatto trascurato è che il dubbio presuppone la conoscenza. Ossia, senza conoscenza non possiamo dubitare di alcunché: non avrebbe senso uno scolaro che mettesse in dubbio ogni cosa, non facendo mai finire la spiegazione dal maestro.
  • La miglior spiegazione dell’esistenza stessa delle nostre percezioni, della loro vastità, complessità, connessione e coerenza è che noi percepiamo il mondo. C’è qualcosa là fuori e noi ci confrontiamo e scontriamo con la realtà. Noi stessi siamo “là fuori”. Di che altre spiegazioni sensate disponiamo?

[continua...]
epicurus is offline  
Vecchio 11-06-2014, 16.38.09   #19
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  • Nel post d’apertura ti chiedi “cosa e come possiamo conoscere la Realtà?”. In un altro topic ho esposto la mia proposta. Incollo qui la mia opinione:
    Citazione:
    Originalmente inviato da epicurus
    In filosofia, ma anche in ogni altra pratica umana, dalla fisica delle particelle a questioni più mondane della vita d’ogni giorno, il concetto di razionalità è centrale. In Gnoseologia, questo concetto di razionalità coincide con quello di giustificazione epistemica (da qui in poi solo di giustificazione). L'importanza di questo concetto è tale che tradizionalmente si reputa che la conoscenza sia (almeno) una credenza vera e giustificata. Questo perché non si vuole che la conoscenza sia infondata, infatti, per parlar di conoscenza si richiede che il soggetto abbia anche delle buone ragioni per credere ciò che crede. La domanda alla quale cercherò di rispondere è la seguente: quand'è che una credenza è giustificata (o razionale)?

    Storicamente ha sempre predominato l'idea che la giustificazione di una credenza sia fornita da un'altra credenza già giustificata da un'altra credenza giustificata, quest'ultima giustificata a sua volta da un'altra credenza giustificata, così via, innescando un regresso. Questo processo finisce o non finisce? Se non dovesse finire pare chiaro che allora nessuna nostra credenza sarebbe giustificata. Il fondazionalismo fa finire questo regresso con degli assiomi che sono assunti come tali perché autoevidenti per il soggetto. Tale tesi ha sempre rappresentato la corrente dominante in filosofia, ma questa non è l'unica concezione della giustificazione. In contrapposizione al fondazionalismo, si trova il coerentismo: perché una credenza sia giustificata è sufficiente che sia coerente con tutte le altre nostre credenze. Tuttavia, entrambe queste posizioni paiono molto problematiche. Qui di seguito presenterò una terza via (molto simile a quella proposta da Laurence BonJour in “The Structure of Empirical Knowledge”) che tenta di prendere il meglio da entrambe le posizioni per fornire una proposta di giustificazione più adeguata.

    Ho chiamato tale posizione “coerentismo gerarchico” perché prendere elementi sia dal coerentismo sia dal fondazionalismo. Dato S che crede p, p è giustificata per S se e solo se:
    (a) p ha un alto grado di coerenza nel sistema doxastico D di S;
    (b) D è un sistema olistico e gerarchico;
    (c) S è in grado di esibire la coerenza di p.

    Il sistema doxastico D viene qui modellato come proposto dall’olismo epistemico di Quine, cioè come un campo di forza. Un’immagine più intuitiva è data dalla struttura della ragnatela: questa è fortemente intrecciata ed e su di essa è definito un ordine di centralità. Quindi, D è olistico perché il sistema è una rete fortemente interconnessa in cui ogni nodo è collegato a moltissimi altri, cioè ogni credenza ne sostiene delle altre. D è gerarchico perché in D vi sono elementi più centrali di altri: al centro risiedono le credenze più generali e che posseggono quindi un numero spaventoso di connessioni, mentre in periferia si trovano le credenze più specifiche e che posseggono quindi un limitato numero di connessioni. Da ciò si deduce che più una credenze è centrale, maggiori saranno i cambiamenti del sistema doxastico nel caso di un mutamento di tale credenza.

    Mi pare utile, a questo punto, far notare che il grado di centralità di cui sto parlando coincide con il grado di indubitabilità di Peirce. Un indubitabile è una credenza che, malgrado gli innumerevoli sforzi per scovare qualche ragione per dubitane, tali ragioni non si riescono a trovare. Gli indubitabili, quindi, non sono credenze immuni alla revisione; queste credenze, infatti, rimangono indubitabili fintantoché non si sarà mostrato un motivo genuino per dubitarne. Per la stessa natura del sistema doxastico che ho presentato e dei meccanismi che illustrerò a breve, tale equivalenza dovrebbe essere palese. Risulta così che il coerentismo gerarchico è un modello intrinsecamente fallibilista.

    Prima di affrontare la natura del legame tra credenze vorrei chiarire brevemente il punto (c). Affinché si ritenga che un individuo sia giustificato a credere p, da una parte si richiede che tale individuo creda p sulla base di buone ragioni, dall’altra si è consapevoli che un qualsiasi individuo ha un numero infinito di credenze e che quindi non può aver già pronta un’argomentazione a favore di ogni sua credenza. E’ proprio per evitare questo problema che viene richiesto, non che si dispongano già di ragioni per ogni credenza, ma che si abbia la capacità di esibire tali ragioni se viene sollevata la questione su una determinata credenza.

    Si è detto che il tipo di connessione tra le credenze in D consiste nella coerenza, ma che cosa si intende quando si dice che un insieme di credenze è coerente? Si parla di coerenza tra credenze, a livello intuitivo, per indicare quanto bene tali credenze legano tra loro, in opposto al loro livello di attrito. Naturalmente non intendo una semplice consistenza logica. Il rapporto di connessione tra le credenze è di tipo inferenziale: se un gruppo di credenze è giustificato, allora può essere usato come premessa di un argomento in grado di giustificare nuove credenze. La coerenza, quindi, ha a che fare con i seguenti desiderata epistemici: consistenza logica, coerenza probabilistica, semplicità, conservatorismo, potenza esplicativa, eleganza e progressività (a là Lakatos). Tra questi principi vi sono diverse tensioni, perciò il massimo grado di coerenza del sistema si trova nei punti di equilibrio. Sintetizzando: la giustificazione è una questione di compromessi tra diversi principi epistemici in un sistema doxastico gerarchico e olistico.

    Se ci si dove fermare qui, il coerentismo gerarchico non supererebbe la critica mosse al coerentismo classico secondo la quale un tale sistema doxastico sarebbe condannato ad essere isolato dal mondo. Tale critica, tuttavia, viene disinnescata se si abbandona il livello astratto e si osserva più da vicino come effettivamente nasce ed evolve il sistema doxastico di un essere umano.
    Un uomo, inizialmente, non avrà un vero e proprio sistema doxastico, non essendo in grado di articolare alcunché e non essendo in grado, quindi, di riflettere, di esprimere dubbi o di chiedere ragioni. La dimensione semantica non è stata ancora raggiunta. Semplicemente, il vedere ed il ricordare non saranno tanto dissimili dal mangiare: questi eventi accadranno e basta ed il bimbo reagirà ad essi in modo istintivo. Non vi è spazio, perciò, per discussioni sull’affidabilità delle percezioni o della memoria. Con il tempo, tuttavia, si svilupperà sempre più un sistema proto-doxastico, fino a giungere un sistema doxastico maturo. Proprio per questo sviluppo, il sistema (proto-)doxastico inizialmente conterrà credenze indubitabili come “la percezione è la fonte di molte credenze vere” e “la memoria è fonte di molte credenze vere”; successivamente, però, il sistema doxastico evolverà grazie all’apporto di nuove credenze e alla continua riorganizzazione interna secondo i principi epistemici. Tali indubitabili saranno così rimpiazzati da un corpus di credenze molto complesso che verterà sulla qualità delle condizioni epistemiche per garantire o meno un alto grado di affidabilità della percezione e della memoria (e di altre fonti epistemiche). L’individuo sta imparando cose nuove non solo sul mondo ma anche su se stesso e sulle sue capacità cognitive. Per esempio, tale individuo può apprendere che una percezione che consiste nel vedere con scarsa illuminazione un oggetto lontano non è molto affidabile.

    Il coerentismo gerarchico, è mia convinzione, riesce a vincere tutta una serie di problemi epistemologici che il fondazionalismo e il coerentismo non riescono a superare; inoltre, propone un modello di giustificazione più aderente alla realtà.

epicurus is offline  
Vecchio 11-06-2014, 20.22.58   #20
Davide M.
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Originalmente inviato da Aggressor
[b]
Ma il fatto è che tra le 2 ipotesi (quella che suppone la materia esser reale al di fuori dei contenuti mentali e quella che suppone la materia esistere solo come contenuto mentale) quella di cui possiamo rintracciare un indizio empirico diretto è solo la seconda. Questo per dire che se entrambe possono spiegare lo stesso numero di cose la seconda può dirsi più elegante in quanto: 1)veramente dimostrabile/osservabile 2)scomodante meno tipi di realtà possibili (c'è un alleggerimento dell'ontologia).
La questione di dimostrare che gli altri abbiano una coscienza o meno non si risolve "empiricamente" ma linguisticamente secondo me; dal momento in cui ti chiedi chi sei e capisci che non puoi dividerti dal resto delle cose, allora vedrai che non potrai negare agli altri ciò che additi a te.

Sono d'accordo con te, non volevo mettere in dubbio "l'eleganza" della seconda ipotesi, ma solo il metodo per dimostrarla. Infatti, benché piaccia anche a me questa proposta idealista, ancora non mi è chiaro il concetto per il quale nel momento in cui mi chiedo chi sono, capisco che non posso dividermi dal resto delle cose. Perché non posso dividermi dal resto delle cose? Quale ragionamento dovrei seguire?
Davide M. is offline  

 



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