Nuovo ospite
Data registrazione: 30-01-2014
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
In questa discussione - seppur in modo non sempre lineare – ho fornito la mia (parziale) interpretazione riguardo l’origine (da dove veniamo) e lo status (che siamo) dell’uomo, che nasconde - per quello che è il mio sentire - dietro il paravento del “che”, il vero quesito, il “dove” (siamo).
Per rispondere alla questione così riformulata occorre addentrarci nel luogo fisico che ci ospita, anzi “allargarci” sino a giungere ai confini – se vi sono – del conosciuto (in senso materiale).
Avendo tempo e modo di farlo necessariamente si deve parlar d’universo (e delle ipotesi riguardo la sua origine) usando il linguaggio scientifico che si è rivelato ben potente nell’affrontare tale argomento.
Con ciò non dico che ne possano trattare solo gli addetti ai lavori, gli esperti, con i loro linguaggi specifici (astronomi, matematici, fisici ecc.), intendo che le informazioni che forniscono possono esser integrate con quelle precipue di diversi linguaggi, quale quello filosofico e altri.
Il sapere umano si è talmente accresciuto che riesce sempre più arduo sfuggire alla settorializzazione e d’altra parte una conoscenza diffusa non si concilia con l'approfondimento delle tematiche.
Tuttavia quanto conosciamo – diffusamente o specificamente - sarà sempre poco e ogni avanzamento rimarrà comunque confinato entro gli ambiti specifici dello strumento (linguaggio) impiegato.
Così l’assunto filosofico di sapere di non sapere da una parte afferma (interpretazione personale) l’insormontabile condizione del pensiero umano che nel raggiungere un confine ne vede comparire altri, e dall’altra che tutte le discussioni sono irrimediabilmente affette dall’impossibilità di giungere a un punto fermo o verità che sia… se qualcuno afferma d’averne una è solamente la verità del suo o di quel pensiero nell’infinito mare dei pensieri, o della mente umana, se preferite.
Rifacendomi al racconto dell’elefante e dei ciechi vien da dire che s’anche fossero riusciti (collaborando…) a descriverlo ciò avrebbe riguardato solo la sua forma.
Ma naturalmente un elefante, come ogni essere vivente (e cosa/oggetto nell’universo), è ben più della sua forma, anche se una descrizione comprensiva dell’apporto degli altri sensi e supportata/integrata da conoscenze derivanti da diversi linguaggi, per quanto sarebbe sempre una parziale descrizione e non la verità della cosa, si muoverebbe nella direzione della conoscenza, a mio avviso la massima aspirazione del pensiero umano.
Continuando la descrizione dell’elefante qualcuno riporterà che esso ha il sentore della sua fine (se non lo si accoppa per le zanne…) e a un certo punto si estranierà dalla comunità, per dirigersi nel mitico cimitero degli elefanti…
Per dar conto di un tal comportamento le descrizioni precedenti non bastano, entrano in gioco altri fattori, come per l’ispirazione artistica o le coincidenze sincroniche, (quasi) impossibili secondo il calcolo delle probabilità.
E non diversamente da un elefante, io e voi tutti, cui auguro la vita più lunga e soddisfacente possibile, arriveremo al capolinea nel modo che il destino ci ha preparato (o il caso, Dio… o il nulla… tanto il risultato non cambia…).
Ma avanti di giungervi potremmo avere la grande fortuna di scegliere questo o quel sentiero… e di interagire con esso, cogliendo quel che ci offre e lasciando quel che più non ci necessita… arrivando alla fine col minimo bagaglio possibile, indossando solo l’abito mentale costituito dai ricordi della nostra intera vita.
Mi permetto di riportare la famosa Consolatio ad Marciam, di Seneca:
Cosa dunque ti fa soffrire, Marcia? ll fatto che tuo figlio è morto o che non è vissuto a lungo? Se perché è morto, da sempre dovevi soffrirne; da sempre infatti hai saputo che sarebbe morto. Pensa che un morto non è tormentato da nessun male, che le cose che ci rendono pauroso l'aldilà sono solo favole, che nessuna oscurità sovrasta i defunti, né una prigione né fiumi ribollenti di fuoco né il fiume dell'Oblio né tribunali e colpevoli, e in quella libertà così spaziosa non vi sono nuovi tiranni: queste cose le hanno cantate i poeti e ci hanno angosciato con vuote paure. La morte è liberazione da tutti i dolori ed il termine oltre il quale i nostri mali non possono passare, e che ci ripone in quella pace nella quale ci trovavamo prima di nascere. Se qualcuno ha compassione dei morti, l'abbia anche di quelli che non sono nati. La morte non è né un bene né un male; infatti può essere un bene o un male ciò che è qualcosa; ma ciò che non è nulla e trascina ogni cosa nel nulla non ci dà a nessuna fortuna. Infatti i mali e i beni si esplicano su qualcosa di materiale: la fortuna non può governare ciò che la natura ha lasciato andare, e non può essere infelice chi non è nulla.
… per giungere finalmente alla terza parte della domanda: dove andiamo?
Il pensiero di Seneca al riguardo è ben chiaro, ma altri filosofi, letterati, artisti, religiosi, scienziati (e noi tutti che partecipiamo dicendo la nostra nelle discussioni) hanno differenti visioni… e dunque quanto andrò scrivendo al riguardo non sarà che la descrizione dell’elefante nella mia direzione della conoscenza sino al momento attuale…
La mia anziana madre (non mi piace usare la parla “vecchio”… perché c’è sempre qualcosa di giovane anche nei corpi avanti con gli anni… unghie e capelli continuano a crescere, le cellule si riproducono… e altri fattori non materiali) qualche tempo fa si è diretta verso la camera per incontrare sua madre… che era morta 35 anni fa.
Dopo qualche ora (di confusione) è ritornata alla realtà e spero vi rimanga.
Da quando si radica il nostro senso dell’io accumuliamo ricordi cui possiamo accedere e molte persone che conosco anche a quelli ben prima di quel tempo.
Si puo’ dire che siamo un serbatoio di ricordi e una delle domande interessanti è dove sia collocato, se nella nostra componente organica oppure da quella solo raggiungibile.
Già così semplicemente impostata la questione è affine al “dove siamo” e se come me ritenete che i pensieri non li costruisce l’attività del nostro cervello ma si manifestano in esso, forse concorderete che la percezione in atto nella (presunta) realtà non è dissimile da quella riguardante l’atto del ricordare.
Per questo ho riportato l’evento accaduto a mia madre, percepire ed agire nella realtà non è sostanzialmente diverso che attraverso un ricordo (o un sogno) in una realtà differente, quali che siano le cause che vi ci hanno condotto.
Il punto focale di tutta la questione è che la sorgente del pensiero e dei ricordi è la medesima.
La memoria - il contenitore dei ricordi - ne siamo consapevoli o meno, è sempre coinvolta nella percezione e la modella conformemente a quelli.
Non uno dei nostri ricordi vien smarrito o cancellato e se pure non siamo capaci di riportarlo alla superficie, concorre assieme a tutti gli altri alla percezione in atto, che è il letto sul quale scorre il fiume del pensiero. Che nell’istante successivo diverrà ricordo.
La percezione in atto, o la coscienza se preferite, per quel che ci riguarda è il recipiente dove il pensiero entra per esser svuotato subito dopo come ricordo nella memoria.
Ma in realtà, secondo la mia visione, è un unico flusso, e come (il pensiero) ha un’origine a quella ritorna quale memoria.
Per questo è importante indagare sull’origine del pensiero, perché quel luogo, spazio o altro che sia è anche il ricettacolo di quel che siamo e che infine saremo stati.
E com’è una direzione nella conoscenza può ben essere anche una direzione nello spazio… ma ne sappiamo ancora troppo poco sullo spazio e sull’universo per congetturare delle relazioni tra pensiero/memoria e la sua origine/arrivo.
Congetture appunto, come quella di Poincarè che ha aperto una delle tante possibili strade (di conoscenza), che interpreto secondo la mia peculiarità.
Per come appar la cosa è immensa
e non ho visto neppur l’inizio.
La risposta a qual sia la ricompensa
è nel cammin di luce nell’eterno spazio.
un saluto
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