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20-03-2014, 22.49.12 | #13 |
Nuovo ospite
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
In mio un post (discussione: filosofia del dialogo) mi sono accomiatato con l’immagine di stringer le mani a tutti.
Privatamente qualcuno mi ha risposto e l’ho ringraziato, davvero un gesto squisito. Qui ho trovato il tuo intervento che, innanzitutto, interpreto come una stretta di mano, a causa del mio modo di considerar nelle relazioni più ciò che unisce che l’opposto, con ciò determinando due modalità d’agire, che raffiguro con colla o coltello. Il tuo bell’intervento m’ha fatto sentir la pienezza della tua stretta, che ho grandemente apprezzato, e ti son grato per aver letto quanto ho sin qui scritto, lasciando un segno della tua presenza. E che segno! Lo dico senza ironia, son stato deliziato dal tuo scriver e fosse anche che in piccolissima parte io t’abbia ispirato a risponder in tal guisa, beh, ho avuto la mia ricompensa ben oltre, se vi sono… le giuste critiche che poni a chi prima di parlar ad altri non interroga se stesso. Dovessi quindi por a me per primo la domanda che t’incalza: perché mi domando ciò che chiedo all’altri – chè finora non m’era venuta l’esigenza – non riuscirei a trovar una sola risposta, e quella d’oggi non mi par la stessa di ieri e, ahimè, presumo che non sarà neppur uguale l’indomani. In tal confusa situazione, cercando in me il lume/risposta – ché se lo chiedessi a molti altrettante differenti, di poco o molto ma tuttavia diverse, risposte sarebbero prodotte, aumentando le sezioni del labirinto – che m’indichi la via o perlomeno mi faccia veder un po’ meglio le mie motivazioni, mi ritroverei, presto o tardi, ad incontrar il mistero della mia esistenza, del parlar a me stesso e tutte l’altre pregevoli cose che rallegrano (o intristiscono, punti di vista) quel particolar consesso d’animi che trovan rifugio, o forse casa, in quell’amata parola, filosofia. Un’osservazione. Riandando alla pagina iniziale (numero 34, luglio 2002) di questo forum, si trova posta per la prima volta una domanda simile (non la stessa) alla mia: chi siamo, dove andiamo e perchè viviamo?????? Non mi son sentito di sfogliarle tutte (un po’ di humor: il professore chiede all’allievo se abbia fatto i compiti, risposta negativa. Alla successiva, se almeno abbia studiato risponde: a’ professò… nu c’ho tempo, c’ho ‘na vita da vive… realmente accaduto..!) e son passato all’ultima, l’attuale. Ben tre domande simili, la mia, quella di Cannata, Che cosa possiamo fare? Chi siamo? e quella del mio anagramma (c’è niente da fà, a volte non riesco a sottrarmi all’humor…) VanLag, Chi sono io? La domanda impossibile. Cosa voglio dire? Che non solo a me sarebbe da porre tal questione, ma a tutti coloro che abbian formulato una domanda simile… e forse a tutti quelli che pongono domande, d’ogni tipo. Già, perché le poniamo? Posso solo parlar per me, fornendo due risposte, una seria e l’altra meno, a chi legga decidere in merito. a- Pongo la domanda perché mi permette d’aprir la porta della mia indagine o riflessione verso chi mi legga, in tal modo confrontandomi e condividendo sin dove possibile percorsi diversi. Non per iniziar a dialogar per dialogar, come anche tu scrivi: “Se il fine del dialogo è il dialogo torniamo, per l'ennesima volta nel mondo moderno, a ridurre il mezzo in fine. Sarebbe come acquistare una macchina e continuare a fare strada senza andare mai da nessuna parte. Ma io rifiuto e tendo a superare questa visione esclusivamente strumentale e nichilistica del mondo, che fornisce una quantità enorme di mezzi e neanche più un fine, per cui tutti questi mezzi si rivelano in ultima analisi inutili.” Appunto ho un fine, un obiettivo, ma voglio sperar che non mi sia richiesto di motivar ed esplicitar il tutto ad ogni intervento o prima ancor di cominciare. Su come uno s’esprime si posson far tutte le critiche, ci son scrittori per tutti i lettori ma non il contrario; nessuno, per tanti motivi, può legger di tutto. Non abbiam nessun obbligo di mangiar ciò che ci risulta indigesto. Tu poni l’accento su un modo particolare d’esprimersi: “Altri ancora, presuntuosi e vanitosi oltre ogni limite consentito, e parimenti profondamente insicuri, si pongono impavidi alla guida del gregge, e menano vanto di riuscire a sedurlo e guadagnare la sua approvazione, orgogliosi di aver compiuto chissà quale impresa ma dimenticando che per guidare un gregge è sufficiente un cane.” “L'uomo d'oggi fatica a guardare al di là del proprio ombelico, e anche quando lo fa è in funzione del proprio ombelico. Il dialogo, oggi, è essenzialmente seduzione, e il fatto che esistano così tante scuole che insegnano "come" comunicare e non "cosa" comunicare lo conferma.” Quando leggo Pirandello (per citarne uno) ne son sedotto e contento d’esserlo, parimenti quando osservo (oserei dire contemplo) la Madonna della melagrana del Botticelli. Un diverso tipo di dialogo che supera i secoli… non ha eguali quel volto di bimbo, e tal gesto di mano di siffatta dolcezza… Dei miei goffi tentativi d’ingraziarmi la benevolenza altrui pasticciando a mio modo con le parole giudicherà chi legga quanto corrisponda a un’intenzione, o sia mezzo ma non fine. Ma sicuramente, per quanto ecceda in fronzoli, non credo smarrirò il mio fine, convenendo con te che “certo il dialogo non è un percorso lineare, può avere innumerevoli diramazioni, tornare al punto di partenza e poi ripartire, ma se lo scopo è andare da un punto A ad uno B, per quanti arzigogoli si possano fare non bisogna mai perdere di vista l'obiettivo.” b- Seconda risposta (appunto, da A a B). Pongo la domanda perché m’aspetto che qualcuno la valuti. Se n’avrò risposta, non importa in qual direzione, con quell’uno avrò interagito. Qualcosa di te m’è ben entrato, te l’assicuro, riconosco lo spessore del tuo pensiero, per questo mi son dedicato a risponder. Se tu riconosci qualcosa in me, che al par tuo ti son specchio, posso supporlo (più che dall’impegno) dalla forma che hai conferito al tuo scriver, non la tua usuale, avvicinandoti quasi in prosa, che ben ammiro. Ma oltre la forma v’è la sostanza e quanto esponi non mi trova del tutto d’accordo… anzi, poco d’accordo… Mi vien da considerar la tua gerarchia (… sulle note di Quelli che, di Jannaci): 1- Quelli che vogliono a tutti i costi dar un senso alla propria vita. 2- Quelli che assimilano il senso del gregge, mal comune mezzo gaudio. 3- Quelli che son presuntuosi e vanitosi oltre ogni limite e parimenti insicuri , impavidi condottieri e (incalliti, mia aggiunta) seduttori. (Ops, son come cani, ma l’han dimenticato, per lor sfortuna… o per quella di chi vien condotto?). 4- Quelle che son pecore anticonformiste che si staccan appena per distinguersi, pronte a rientrar e seguir la coda di quella avanti. 5- Quelli che son politici pecora (qua son sicuro di non esser io!) 6- Quelli che son intellettuali (mia aggiunta: ch’è cosa diversa d’aver dono d’intelletto, come dice il poeta: "0 voi che avete gl'intelletti sani, Mirate la dottrina che s'asconde Sotto il velame delli versi strani!"), i colti, i dotti, cani da pastore però pigri e svogliati, che anziché guidare le pecore vogliono dir loro dove andare, ché si fa meno fatica, e pretendono anche riconoscenza. 7- Quelli che non bisogna dimenticar: gli scienziati, categoria simile a quella summenzionata ma più precisa, più seria, più esatta. Loro misurano tutto, sanno esattamente quanto è alto il precipizio e quanto è lunga la strada per arrivarci, ma non sanno che cosa si intende con "precipizio" (eppur senza conoscerlo/intenderlo sanno misurarlo precisamente..?). 8- Quelli che son più su, i sapienti, che si caricano le pecore sulle spalle e le portano nei prati ad ammirare i fili d'erba… (qui il saggio divien essere naturale in simbiosi con la natura e i suoi umili abitanti, l’unico capace di rivelar il senso delle cose e alfine della vita stessa…) In questa allegra fattoria, dove son pecore, cani, e tutti l’altri nominati (che paion pecore anch’esse nella logica della gerarchia) all’apice della piramide sta collocato il sapiente, chissà se pecora a sua volta o trasfigurato in altro. Son d’accordo, si merita tal posto. Su qual sia il mio lascio ai lettori e al loro sentire decidere, mi va bene qualunque collocazione… salvo una, quella del saggio… perché colà suppongo di dover dividere la mia posizione con qualcun altro... Non che mi dispiaccia, al mondo, e anche in cima a una piramide, stringendosi un po’ di spazio per star in due certo si trova… ma se l’altro ambisse a restar solo e alla mia colla opponesse il coltello? La verità era uno specchio che cadendo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine credette di possedere l’intera verità. Non ho alcuna verità, seguo, come tutti, la mia via che mi ha portato a credere di poter condividere qualcosa che mi par d’aver incontrato. Comprensione, prova, indizio o riflessione che sia. Dopo avermi chiesto il perché lo faccia, ed io averti (ironicamente) risposto, si può entrar nel merito? Per esempio, tu hai colto qualcosa di quel momento, quando l’io si radica? Di là da quello è tutta la stessa cosa... Oh, la mano per una stretta con te ce la metterò sempre! |
21-03-2014, 13.43.51 | #14 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
Citazione:
Nel mio caso mi sono posto quella domanda impossibile perché ho capito che manco di quella conoscenza e che ho assunto come mia un'immagine di me stesso costituita da un mucchio di informazioni passatemi dalla memoria, che sia mia o collettiva non ha importanza. Mi dirai che ci guadagni a sapere chi sei? Bhe quantomeno guadagno il fatto di vivere una vita più integra, o più centrata come si dice oggi, perché se paradossalmente scoprissi di essere un trattore, (l'humor non difetta neppure a me ), andrei ad arare i campi e non starei a scrivere e leggere in un forum ancorché pregevole come questo. Mi rammarico solo e ti chiedo perdono per avere io un approccio molto dialettico ai problemi, cioè a domanda risposta, e di non saper essere un artista della parola, come tè ma so che mi capirai anche perché, la mia presenza qui vuole rappresentare più che un contributo fattivo alla discussione, quella stretta di mano che tu da più parti sembri apprezzare ed invocare. Come dire: io ci sono, ti leggo e ti apprezzo! |
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21-03-2014, 23.44.55 | #15 |
Ospite abituale
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
Federico Zeri,grande critico d'arte, a queste tue domande rispose che noi siamo in mezzo a due punti interrogativi(?,io,?). Quindi siamo, senza conoscere nè da dove arriviamo e nemmeno dove andremo.
Ho letto molto e studiato di tutto e ancora continuo, mi sento davvero un Ulysse il cui nome è Nessuno di Omero, ma anche quello moderno di J.Joyce. Ho imparato ad esercitare il dubbio come metodo, mettendo in discussione prima di tutto me stesso, mi ha aiutato a d approfondire la conoscenza perchè non c'è mai fine ad un altro perchè. Forse, quando ero piccolo, sono diventato grande, quando ero felice di vedere tutta la mia famiglia riunita a fare festa(eravamo cinque fratelli più due sorelle) e io ero il più il giovane, ma per qualche motivo quella felicità nascondeva già una sottile malinconia, sapevo che sarebbe durata poco e che quell'evento si sarebbe ripetuto raramente per vari motivi. E infatti è stato così, tutti insieme saremmo stati 2-3 volte al massimo. Dopo tanta circumnavigazione per i mari del sapere e anche naufragi, penso di aver capito che quello che conta veramente è la nostra attitudine e comportamento nella vita. Quello che verrà, e lo dico da credente, è la semplice conseguenza di come io affronto le tempeste e la quiete. Ho imparato e per esperienza che quello che conta è l'uomo in sè e per sè. Intendo dire che se trovo una bontà di fondo in una persona e una propensione ad aprirsi, non mi chiedo a cosa crede e quali scopi si proponga, per me si apre una porta della fiducia, al di là dei ruoli sociali,economici, politici, di fede,ecc .E allora impari e vedi che dietro un' apparenza forse c'è una verità sepolta. Ho imparato ad apprezzare più i limiti umani e delle conoscenze che non le finte perfezioni che portano alle ipocrisie. E allora amo la mitezza del vento dello zefiro che bacia i nostri volti. Ho avuto molto fiducia nell'uomo e vi sono naufragato più volte sugli scogli della sua stupidità, eppure non riesco a smettere di credere che in tutti noi c'è qualcosa di profondamente arcano, di meraviglioso che nasconde un linguaggio sotterraneo da esplorare. Forse questa è la cosa più bella che mi attrae, far emergere il meglio di una persona, in un tempo in cui troppo spesso ci si sente bistrattati. Si dice che c'è un tempo per vivere e uno per morire, noi viviamo e moriamo molte volte in una vita. Non c'è un tempo lento e veloce, utile od ozioso, c'è solo il battito del cuore che scandisce e il pensiero che volteggia. Conosci te stesso se vuoi conoscere gli altri, entra dentro di te se vuoi far aprire gli altri ed emergerà un linguaggio insaputo.. Ecco ,è la vita per me il vero segreto , questo mare in cui siamo gettati, con infinite battaglie sapendo che la guerra è persa nella nostra finitezza. Noi cerchiamo la bellezza e l'amore perchè parlano dell'anima il resto verrà da solo, e allora la risposta dove andremo è il risultato del periglio della nostra esistenza....vien da sè. Ma adesso è tempo di riandare...con la mia lampara vado a pescare nel mare della vita e della conoscenza fino a quando qualcuno mi chiamerà"Nessuno è il tuo tempo......" |
22-03-2014, 14.37.59 | #16 |
Nuovo ospite
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
[quote=paul11]Federico Zeri,grande critico d'arte, a queste tue domande rispose che noi siamo in mezzo a due punti interrogativi(?,io,?). Quindi siamo, senza conoscere nè da dove arriviamo e nemmeno dove andremo.
Ho letto molto e studiato di tutto e ancora continuo, mi sento davvero un Ulysse il cui nome è Nessuno di Omero, ma anche quello moderno di J.Joyce... Son profondamente colpito dal garbo con cui t'esprimi e dai contenuti del tuo pensiero, nondimeno dalla semplicità con cui li esplichi, fruibili per chiunque venga a legger. Ho scritto diverse poesie e oggi è arrivato, coincidenza, il tempo per alloggiarne qui una, poiché essa, incredibilmente, ha incontrato la persona che gli corrisponde, tu. un caro saluto L’amo gettato nel lago fondo s’anche vi fosse riman nascosta la preda ambita da tutto il mondo. In questo luogo si vien e si sosta con la speranza che da quell’acque quel ch’è prezioso si possa trarre. Ma passa il tempo, trascorron gli anni furon parole, poi tutto tacque. Facile ieri saltar le sbarre ora ogni gesto ti costa affanni. Rimiri l’acque placide e fonde, perché sei lì ancor che aspetti, attendi il vento che formi l’onde anche se l’amo neppur più getti? La gente va, vien altra al posto, guardi lontano, indietro nel tempo tra spume d’anni e sapor di mosto e ti sovvien quel bacio dagli occhi e la sua mano, tutto in un lampo. Or l’hai compresa la tua misura, la gemma nascosta nei piccoli tocchi, tutto scompare ma lei non si usura. Da dove le vien la luce che splende che pare strada che invita e attende? In fondo che importa, a essa t’accosti chiudendo gli occhi e traendo un respiro. L’amo ha un sussulto... la preda ha mangiato e perso l'indulto, costretta deve lasciar quei posti dalla potenza del forte tiro. Uno di meno in riva al lago, tu eri la preda e cercavi la gemma alfin l’hai trovata e adesso sei pago, rendi la vita e consegni lo stemma. Ultima modifica di Galvan 1224 : 23-03-2014 alle ore 08.29.12. |
23-03-2014, 00.30.43 | #17 | |
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
Citazione:
Gli psicologi dell'infanzia e dell'adolescenza ci insegnano che la primissima parte della vita degli esseri umani è caratterizzata da un estremo egoismo, che si esprime pur senza che loro, così piccini, possano effettuare una elaborazione razionale e concettuale dell'ego. Il loro porsi nei confronti del mondo è dunque sempre conflittuale, dovendo tentare di far prevalere il loro piccolo e inconsapevole io nei confronti di quello altrui, e molti di questi conflitti saranno sconfitte che consentiranno loro, a poco a poco, di trovare un equilibrio fra l'espressione della propria forza, della propria volontà e dei propri talenti e il rispetto e il riconoscimento di quelli altrui. É un po' quel che accade nel mondo animale, ove i piccoli vengono in fretta lasciati al loro destino e imparano (per forza o per amore) a trovare un proprio posto nella natura e rispettarne le gerarchie fra specie diverse e anche all'interno della stessa specie. Questa non è altro che un'ovvia espressione dei sempiterni processi naturali che si presentano simili ad ogni livello, fra i grandi mammiferi come fra gli invisibili batteri. Anche le specie animali che, come l'uomo, vivono in comunità, presentano uno spiccato individualismo: se consideriamo le api, ad esempio, vediamo che noi possiamo combattere con esse prese ad una ad una, ma se tocchiamo il punto comune ad esse, l'alveare, allora tutto lo sciame si ribella. Accade lo stesso anche nei branchi: quando un grosso felino insegue un capo il resto del branco fugge lasciando solitamente il più debole al suo amaro destino (fatta eccezione ovviamente per i piccoli ancora sotto la protezione della madre), ma se qualcuno lo attacca sul proprio territorio allora tutto il branco si ribella, non in difesa di un individuo ma a protezione di un bene comune. Torniamo all'uomo; nell'età adolescenziale apprende da sé le consuetudini sociali, i costumi, le abitudini, e inizia ad elaborarle con più o meno senso critico, a seconda delle qualità intellettuali di ognuno. Inizia quella fase che gli psicologi chiamano di socializzazione, o di identificazione, in cui gli esseri umani osservano meno se stessi e più i propri simili e iniziano ad identificarsi in un gruppo di appartenenza. Questa fase è assai evidente negli adolescenti moderni che pur dichiarandosi unanimemente anticonformisti tendono invece a conformarsi il più possibile al modo di pensare, di agire, di vestire, di parlare, di gesticolare del gruppo al quale vogliono appartenere e del quale ricercano l'approvazione in ogni modo. La stessa cosa accadeva nelle comunità antiche, con la differenza che allora la comunità era unica, e ognuno all'interno di essa doveva individuare il proprio ruolo (e per fare ciò i metodi sono innumerevoli), rispettando parimenti quello di tutti gli altri componenti della comunità. La semplice comprensione di questo comportamento istintivo e naturale portava le varie comunità umane a strutturarsi in maniera tale da assecondarlo anche nella costruzione delle proprie istituzioni sociali, rendendo così il compito di ognuno più semplice e meno dipendente da strutture razionali e schemi ideologici artificiosi. In certo qual modo era la comunità che si occupava di aiutare i propri componenti ad individuare le proprie capacità e i propri talenti, e li esaltava mettendo ognuno nelle condizioni di utilizzarli al meglio per il bene della comunità stessa. Si cercava, compatibilmente con i limiti individuali e delle stesse culture che animavano le comunità, di ispirarsi al famoso motto delfico "conosci te stesso", per poi renderlo effettivo attraverso quell'altro, di Pindaro, che recita "diventa ciò che sei". L'ego in questo caso coincideva con il sé, ovvero ciò che ognuno credeva di essere e tentava di diventare era il più possibile prossimo a ciò che effettivamente era, e tale prossimità forniva senso e giustificazione alla vita di ognuno che si sentiva dunque valorizzato e riconosciuto all'interno della propria comunità. Nelle comunità tradizionali nessuno si domanda chi è, da dove viene e dove va perché semplicemente lo sa già, è la comunità stessa che nell'età dell'adolescenza, quella nella quale si sviluppa la personalità di ognuno che poi lo accompagnerà per il resto della vita, lo aiuterà a scoprirlo prima ancora che abbia il tempo per domandarselo. Ogni individuo quindi avrà il preciso dovere di impegnarsi per sviluppare ed esprimere al meglio quelle potenzialità che già possiede. Nelle società moderne, costituzionali, la situazione è completamente diversa. Mancando totalmente di fini ed essendo questi sostituiti da meri strumenti (libertà, democrazia, uguaglianza, ecc.) non è più la comunità che definisce l'individuo e lo colloca sensatamente al suo interno, ma è l'individuo stesso che deve autodefinirsi sulla base di schemi e parametri del tutto personali e arbitrari. Ogni componente della società elaborerà una propria weltanschauung alla quale tenterà di adeguare la prassi, e le istituzioni sociali dovranno consentirgli di farlo occupandosi di garantire ad ognuno un adeguato accesso agli strumenti già citati. In una tale situazione lo sviluppo dell'ego è inevitabile poiché l'individuo è considerato superiore alla stessa società, che non è più vista come un tutto organico gerarchicamente ordinato ma come una collettività di uguali uniti solo dalla condivisione del medesimo "contratto sociale". In tale prospettiva riprendono più senso le domande "da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo" declinate però al singolare, alle quali ognuno tenderà a dare una risposta non più considerando una entità al di sopra di sé come riferimento, ma partendo appunto dal proprio ego, che è poi rimasta l'unica "verità" certa su cui poter fare affidamento poiché tutto si può ormai mettere in dubbio tranne il fatto che ognuno di noi esiste e ne è consapevole. Tutto ciò che quindi potrà alimentare e dare soddisfazione a questa unica verità verrà ricercato e perseguito, rendendo l'ego sempre più ipertrofico e la società di uguali sempre più conflittuale. La degenerazione intellettuale che ci accompagna da qualche secolo in qua e che poi è sfociata nel nichilismo ha inoltre aperto la strada ad un sempre più diffuso sentimentalismo che si sta trasformando velocemente in emotivismo, per cui i bisogni di ognuno saranno sempre più determinati da variabili aleatorie quali sono sentimenti ed emozioni, e a causa della loro intrinseca mutevolezza la loro soddisfazione non sarà mai completa e definitiva. Le società moderne, alimentando l'individualismo e l'affermazione dell'ego attraverso la proclamazione dell'uguaglianza sostanziale hanno in pratica istituzionalizzato (anche per mezzo dell'esaltazione della competizione a tutti i livelli in luogo della più corretta e sensata collaborazione) quel conflitto che in natura si determina solo a livello infantile dopo di che ognuno assume un proprio ruolo che porta avanti per il resto della vita, creando così una massa di egotici infelici. |
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23-03-2014, 15.08.54 | #18 |
Ospite abituale
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
abstract: tento di dimostrare che le domande "da dove veniamo" e "dove andiamo" vanno in direzione esattamente opposta a quella di "che siamo".
Galvan dopo un mese ti rispondo, avevo perso le traccie della mia scrittura. il punto non è quello di studiare tanto, quanto avere in mente il punto di resistenza (come direbbe un amico) da cui partire per l'indagine. Se vi sono domande vi è anche un indagine, questa indagine presuppone una verità. è la verità che ti fa distinguere se la tua argomentazione è valida o meno. A questo punto della discussione, ho notato che usi uno stile molto rapsodico, ti riferisci per esempio ai popoli selvaggi, per poi fermarti di nuovo sulla ghiandola pineale, per poi arrivare alla poesia etc. Alcuni ti hanno seguito. Ecco il perchè di questo tragitto secondo me: almeno negli interventi di questo 3d siamo tutti abbastanza convinti che l'io sia una costruzione e che il suo valore sia più da ricercare nel quotidiano o nel sogno. Alle domande da dove veniamo e dove andiamo, invece non si è ancora giunti a una risposta non sull'oggetto in questione ma sul perchè questa domanda viene posta. Non è come una questione che si autopone di volta in volta in vista del rafforzamento dell'io? ossia sono io che provo questo e quello, sono io che valorizzo l'erba e lo slittino. Se la questione viene posta di volta, allora non sarà forse l'io rafforzato, con tanto di strette di mano virtuali. E se la questione viene posta di volta in volta non sarà forse il rapsodismo, il wandering di un CArrol, il viaggio di Ulisse, il viaggio Joyciano a porre se stesso come l'unico termine di paragone? Sembrerebbe quello che dicevo riguardo il viaggio, ma non è così. Nella tradizione biblica ebraica il viaggio è solo un momento che porta ad un attraversamento. Perchè dobbiamo domandarci di questo attraversamento? E' questa la vera domanda che sottende il dove andiamo e da dove veniamo per conseguenza. L'attraversamento in qualsiasi religione è sempre un attraversamento della morte, ossia della vita, ma della vita dell'individuo. E' sul concetto di morte che l'io non può viaggiare, "il viaggio finisce qui" dice il poeta. In realtà il viaggio è proprio il viaggio alle soglia del trapasso, del passaggio altrove. Non è solo il passaggio vita morte, ma anche apparenza e fine dell'apparenza, ossia il senso ultimo delle cose, il loro svanimento. Questo svanire è esattamente quello che intendo per viaggio, il viaggio dopo il viaggio. Quello che manca in questo 3d è proprio questo trapassamento. le domande non risposte, le domande che non hanno che realtà relative dimenticano quello per cui la filosofia è nata, Ossia l'angoscia, l'angoscia del morire. il centro invisibile che fa gravitare le paure umane, il soggetto (che è sbarrato, aporetico etc.. proprio per questo) impazzisce e fugge, la forza centripeta uguale e contraria a questa visione di morte, è esattamente il leit motiv tuo caro galvan, il tuo viaggio (ma di tutti ormai si può dire) è un viaggio di fuga, che si deve nutrire del molteplice, dell'accellerato (il tema spero capirai ha una proflusione di corollari, dalla società dello spettacolo a quella liquida). Per poterlo fare dimentica il tema centrale della riflessione filosofica: la verità. Non è una verità dell'oltrapassamento, ma della fessa, della strettoia a cui il viaggio ci porta, la dove le cose svaniscono, (la depressione il male del secolo, è figlia di questa angustia, che viene subito prima dell'angoscia). il 900 è Stato un secolo veramente infernale, tanto più l'uomo diventava potente, tanto più diventava impotente. Il caposaldo della religione è stato spazzato via da un peso, quello della guerra lampo, quello della devastazione improvvisa, una velocità che come studiato dalle forze di polizia antiterroriste semplicemente spazza via l'io. E' anche la schisi annichilente dello sguardo nazista quello del razzismo. Il pessimismo leopardiano aveva ancora un io a cui aggrapparsi. La velocità centripeta occidentale ha qualcosa dell'insano, non servono le lucide analisi di Severino per rendercene conto. Il tema della salvezza, il grido di ghiaccio, non emesso cioè del depresso, dello schizoide , non troveranno mai soluzione nel viaggio ulissiano, è necessario come Cacciari va da anni dicendo un confronto con la religione. I selvaggi nella loro mancanza di strumenti intellettuali, sapevano benissimo l'importanza della terra, solo legata al cielo. quando tolsero la terra che era legata al cielo essi perirono (vedi Galinberti). Quando togli la radice è finita, vedi anche il meraviglioso film nobel recente italiano. Se periscono, la potenza viene meno, è qui che subentra il più spaventoso dei mostri, quello leviatano medico. Se ipotizzo l'anima come qualcosa di pineale...esiterà anche una cura, una cura che di fatto (proprio medicamente) elimina la corsa centripeta (iper-x) e elimina la precipitazione gravitazionale (ipo-x). Si tratta di rendere i viaggi ulissei disfunzioni all'apparato di potenza. Perchè questa scienza sintomatica dimentica le cause dei mali del nostro tempo? Perchè essa dimentica il cielo, lo ha confinato nella sua idea di Stato a "opinione", mascherandolo come libertà di culto. (quando le carneficine della guerra religiosa è davanti a tutti, tralasciando che sono anch'esse mascherazioni della guerra del petrolio). In un simile scenario è lo stesso viaggio ulissiano con tutti i valori e le portate morali e spirituali che implica a essere messo in pericolo. (diciamo la verità non c'è più nulla, l'egotismo è ormai operante a scena aperta) Se non c'è resistenza, ossia attenzione alla angustia, coraggio di guardare dritto il problema del "passaggio attraverso una fessura" ossia ciò che in filosofia viene chiamato la Verità, non ci sarà più nemmeno cielo. (parlo al futuro ma è già successo, come il poeta Pasolini ci ha insegnato). Per poter intendere la verità ciò che viene messo in discussione è proprio l'io, lo strumento principe per uscire dall'io si chiama induzione, o direzione a ritroso. anche tu galvan come tutte le persone sensibili, senti qualcosa che unisce le cose di questo mondo, c'è qualcosa là fuori, ma che nello stesso tempo è dentro di noi. Questo qualcosa è la dimensione della Verità che ci permette di ipotizzarlo. Le neuroscienze, invece tentano, loro malgrado e inconsapevolmente, il passaggio opposto, ossia una legislazione medica dello statuto dell'io. In una sana generalizzazione, se l'io è una composizione, la volontà di potenza ne cerca una legislatura, o meglio una giustizia, una reductio ad unum, valida per tutti. Il problema è quello della schisi se c'è un UNO da applicare a tutti, allora c'è anche una guerra perchè il principio venga fatto rispettare. (io lo chiamo delirio di onnipotenza) In soccorso ed aiuto alla filosofia che tenta di focalizzare quale sia la direzione (heidegger, nietzsche) o la meta per arrivare a quella facoltà di guardare la strettoia (chiamata abisso) arriva la psicoanalisi freudiana e junghiana con l'introduzione dell'inconscio. Ciò che è sempre più chiaro è che è l'"io" il vero problema, l'io è una costuzione culturale (interamente) che però agisce come se quella cultura non avesse alcun fine. Poichè le nostre azioni sono la conseguenza di logiche non euclidee nel tentativo di soddisfazione di un desiderio. Il fine che in stato di veglia ci pare normale, è invece il sogno di una personificazione, ossia quella che Hegel profetizzava, come prodotto dell'aumento quantitativo del prodotto. Il prodotto che la scienza oggi ci consegna è di gran lugna più numeroso di qualsiasi umano possa conoscere. Diventa persona la Tecnica perchè più nessuno può sapere quale parte di questo gigante prenderà il sopravvento. Per Nietzsche la normalità del futuro sarebbe stata la schiavitù dalle macchine. Non so quale spirito parlasse per la bocca dei 2 sommi: ma così è oggi. Abbiamo così braccata non solo la filosofia, ma a maggior ragione la religione (quando intesa a partire dalla filosofia) e persino i voli pindarici, le rapsodie novelle rabdomanti di senso. In questione c'è proprio l'arte insomma. (perchè filosofia e religione tentano disperatamente di nascondersi sotto le spoglie di linguaggi esoterici, come se da sempre sapessero quale fosse il problema, e così è) Per questo galvan bisogna saper discernere. Anche senza libri, se si capisce quello che si ha intorno. |
26-03-2014, 23.40.48 | #19 |
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
Un saluto,
non tralascerò di interagire con chiunque mi si rivolga, per critica, consiglio o per lasciar la sua riflessione, se in quest’ultima vi sono collegamenti e approfondimenti riguardanti il contesto. Pur se m’attendevo qualche intervento non pensavo in tal misura, ma soprattutto così ricchi di sostanza. Quindi son contento, e nelle repliche man mano farò riferimento alle persone che han onorato la discussione con la loro presenza (non son ruffiano, per me è così), pur se me ne conseguirà un momentaneo rafforzamento dell’io… al quale penseranno le difficoltà quotidiane dell’esistenza a passarci sopra, ridimensionandolo, con una bella passata di lima. Questo è un punto toccato da Greeen, se al fondo del mio agire (e dell’agire di chiunque) la spinta propulsiva, più o meno celata, sia in funzione di quel rafforzamento, a cui possono contribuire atti e simboli usati nella comunicazione (le strette di mano virtuali, per esempio). Vorrei dir qualcosa su quell’io. Se in gran parte l’io è una costruzione, come tutte le costruzioni si può ampliare, avendone i mezzi, o ridimensionare… per pagar meno tasse. Nel primo caso si cresce prevalentemente in altezza, ché l’allargamento in orizzontale tra l’altro comporta di venir a patti con le costruzioni vicine, mentre usualmente occupar lo spazio sopra di noi, a meno d’arrivar al cielo divenendo pericoloso per il tragitto degli aerei, e a condizione di non allungar l’ombra sull’altri edifici, vien più facilmente tollerato. Non facendo troppo rumore, né dando nell’occhio, magari piantando qualche alto albero a confonder la visione, se anche fosse un abuso (eh sì, di posizione…) per un po’ la si fa franca… finché qualcuno accorgendosene ne chieda conto. Sì che sovente s’ha da demolir tutto e magari si sconfina pure nell’altra direzione, quella del ridimensionamento. Seguendo quest’altra, meno gratificante, per quanto si tolga, a un certo momento ci si dovrà fermar… uno non può toglier se stesso, capite bene che il solo modo ha il difetto d’esser irrevocabile… (a meno d’esser astratto qual la contraddizione c, che pur togliendo se stessa in qualche modo ha il pregio di rimaner, questo il poco che mi par d’aver compreso di un argomento oltre la mia portata… vedete che pur con fatica – e scarsi risultati – l’io che mi ritrovo s’applica per cercar d’edificar almeno un abbaino sopra il mio povero tetto…). Nella nostra realtà non si può costruir del tutto a nuovo, sempre l’io di partenza rimane. Tal metafora (perbacco, ha un che di massonico, realtà che mi è estranea) per dir che quello che conta, il nucleo di quell’io, non vien modificato da ornamenti o privazioni (neppure da una guerra normale o lampo che sia; si salva ritirandosi in profondità e purtroppo non è detto possa riemergere senza danno, vedi Primo Levi). È come la corrente, ne usiate tanta o poca sempre a 220 volt rimane. Nella casa dell’io ognuno ha il suo voltaggio… 220,1… 220,11… 220,77220021… non ce ne son due eguali. Non credo vi sia alcuna possibilità di cambiare il nucleo dell’io, come non ve ne sono di modificare il nucleo di un elemento chimico senza farlo diventar (con numero atomico maggiore = accrescimento, minore = diminuzione) un altro elemento. La nostra “corrente” (correlata geneticamente e non solo), impronta, configurazione psico-somatica, vibrazione fondamentale o come la si voglia chiamare non si può alterare né resettare senza far collassare il tutto. È proprio presente all’interno di ogni cellula… andate a ricercar quello che provano i trapiantati di cuore, per esempio, come influisca sulla loro personalità quel dono… Riprenderò più avanti la questione sull’io, qui osservo che chi porta il suo contributo lo fa avvalendosi di tutto il suo background, e al poco o molto a cui faccia riferimento, se specifico, non potrò corrispondere con la qualità di un addetto ai lavori. L’avevo premesso nei primi post, che avrete a che fare con un uomo comune, che pur cercando di migliorare le sue conoscenze esponendosi a quelle altrui non può che rimaner tale. Appunto perché son uomo comune, non specializzato in alcunché, m’avvalgo di tutto quello che la vita m’ha portato per discorrer con i miei simili, e s’anche loro potranno sentirmi tale, simile perché uomo tra uomini, tutti immersi in questo problematico presente che non preannuncia granché di buono, allora un punto di contatto, qualcosa da condividere mi auguro si possa trovare. E nei casi più sfortunati, quando le troppe lacune non mi permetteranno di corrispondervi come meritate, beh, voglio sperar che la virtuale stretta di mano possa bastare, simbolo di un incontro nonostante le distanze. Non ci fosse almeno quella, non ci sarebbe nulla. Sul mio modo di interagire a mezzo scritti, rapsodico… (senza ironia ringrazio Green della bella parola che mi ha testé insegnato e che l’usarla farà contento paul11. Riporto da wiki: Il rapsodo è il cantore professionista che nell'antico mondo greco recita e canta, di solito a memoria, poesie epiche di Omero e di altri autori, ma anche poesie liriche, elegiache e giambiche. Il termine inizia ad apparire nella letteratura greca nel V secolo a.C. e da un passo di Pindaro (Nemea, 2.1) se ne ricava l'etimologia, collegabile al verbo ραπτειν ("cucire"), per cui il rapsodo sarebbe il "cucitor di canti". In base a questa etimologia, alcuni studiosi hanno dedotto che il rapsodo, a differenza dell'aedo, ripetesse semplicemente ciò che gli era stato trasmesso dalle generazioni precedenti Altri, invece, pensano che anche i rapsodi intervenissero sul repertorio tradizionale, magari arricchendolo. Ad esempio si pensa che a loro sia dovuta la composizione di certi inni omerici, che nella recitazione precedevano certe parti dei poemi veri e propri. Resta fondamentale il loro ruolo di trasmissione del patrimonio mitico greco. Comunque sia, i rapsodi originariamente recitavano accompagnandosi con la lira, più tardi sostituita con un bastone, come si vede nelle raffigurazioni degli antichi vasi greci. Secondo Platone, Femio, il cantore che nell'Odissea è indicato come un aedo, è in realtà un rapsodo. …ho dichiarato dall’inizio che ne avrei fatto ricorso e su tal modalità, in vista del fine, donquixote ne conferma la liceità (oh, da quando frequento il forum il mio vocabolario ch’era un po’ arrugginito n’ha tratto giovamento) mentre paul11 e acquario69 non vi menzionano. Per dir che siam diversi ed esprimersi con una modalità onnicomprensiva che incontri il favore di tutti è quantomeno difficile. Così quel mio modo a ben veder è un tentativo di metter assieme, spalmando colla, attento di non farla sbordar dai margini (spesso non riesce, siate indulgenti), a mò di un ibrido rapsodo che più che cucir canti, a volte, anela a cucir genti. Anche il rispondervi segue il medesimo sentire, cercando di incanalare in un unico contesto le diverse suggestioni, critiche e quant’altro. Non vien forse detto, in tanti ambiti, che tutto sia collegato? Che tutto derivi dall’uno iniziale? Poi man mano avvengono le divisioni (che si manifestano anche a mezzo di tecnologie usate distruttivamente, così che le divisioni militari che mai han smesso di agir nel mondo attualmente han preso a muoversi ben vicino ai nostri confini… che son mille chilometri..?) e comincia a scarseggiar pericolosamente (per tutti) l’antidoto, derivato dalla colla originaria… a ognuno immaginar qual sia. Certamente manca(va) qualcosa a questo 3d, ma come per il nuovo modo di fruir il cinema, appunto in 3D, qualcuno è venuto e ce lo ha portato… così quel che hai scritto l’ha portato, esattamente come lo volevi, senza attender ch’io debba arrivare dove giaci da tempo. Di come m’esprimo ho ricevuto il commento dal mio anagramma, che non m’è venuto da precipitarmi a ringraziar (eh… ormai la cosa è fatta… dobbiam convivere con tal peculiarità legata ai nostri nomi) perché un po’ m’ha messo in imbarazzo, ne ha detto troppo bene… se e quando si potrà passar dalle strette virtuali ai caffè reali… Su VanLag, guardate la data, era qui sin dalla notte dei tempi (dagli albori del sito) ad arar la terra… e come, con che argomenti abbia dato il suo contributo non sta a me giudicare (ma per farmene un’idea ho fatto una ricerca: 203 discussioni iniziate e 3006 messaggi…). In queste ultime discussioni come tutti noi presenta il suo punto di vista, rifacendosi nel caso non ritenga di poterlo render chiaro, a maestri o personalità di tutto rispetto, vere guide per innumerevoli persone. E dando la propria disponibilità a farsi tramite per acquisire ulteriori informazioni o testi. Se tal agire sia utile alla rivista penso si sia d’accordo, senza persone come lui forse non avremmo questo spazio. Son io che ringrazio te, questa mi par più casa tua e mi hai fin troppo bene accolto. E vorrei dir che invece il tuo è un contributo fattivo, perché sei entrato nel merito della questione indicando qual fu il tuo punto d’inizio: la considerazione di mancar della conoscenza al riguardo, consapevole che quel che sei in sostanza sia memoria/informazione in azione. Cosa si sia mosso da quell’insight t’appartiene e auguro ti porti presto ad esclamar il tuo Eureka! Così che la vita ch’è danno, lavoro e giro, divenga capodanno, capolavoro e capogiro. |
04-04-2014, 18.05.13 | #20 |
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Riferimento: Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
La risposta che avevo scritto continuava, e all’inizio il mio intendimento era di postarla completa, ma eccedendo quella il limite consentito, dovevo dividerla separando gli argomenti.
Così ho tagliato e inviato la prima parte e intanto ragionato sul da farsi. La seconda parte prevalentemente rispondeva alle osservazioni di Green, quasi punto per punto (per quello era così lunga…), e mi sembrava l’impostazione corretta quella di cercar di contemperarle tutte (o quasi). Non mi son accorto di quanto avessi scritto… a causa del limite ho riletto quanto prodotto per adattarlo… ma persisteva in me una sensazione che m’invitava a rifletter ulteriormente. Quel “che siamo” è anche questo, un movimento in noi non solo dell’intelletto. Il risultato finale è che ho cestinato quanto prodotto e rimesso un foglio bianco. Chi scrive adesso, pur essendo sempre l’io di prima, tuttavia è spinto da qualcosa di differente, un altro tipo di lievito che dà luogo a un pane diverso. In precedenza non mi ritrovavo con l’immagine del viaggio, ma il cambiar punto d’arrivo non sottende appunto un viaggio? Evidentemente ce ne son di tanti tipi, oppur è sempre lo stesso che prende varie forme. Pur nell’apparente stabilità ogni cosa muta, anche quel poco aggiunto, o tolto, rende la pietanza differente. Riprendendo la metafora dell’atomo si può dir che il nucleo (dell’io) non vien toccato ma gli elettroni che stan all’esterno, – sensazioni, motivazioni, contenuti d’ogni sorta, esperienze, memorie, ecc. – incontrano quelli di altri nuclei, con la possibilità di formar composti ogni volta diversi. Gli elettroni di Green (che riporto solo in parte: sul discernere e capire quel che mi circonda; sulla via della direzione a ritroso; sul punto di resistenza e la verità; sulla fuga e il molteplice; ecc.) nell’incontrar i miei avrebbero potuto disputar per l’orbita migliore (dalla quale la visione della verità dovrebbe esser più agevole). Il composto sintetizzato, anche se di bell’aspetto, sarebbe stato ottenuto col consueto movimento ad excludendum , i miei o i tuoi ingredienti. Qualcosa m’ha suggerito d’accettar in toto le tue osservazioni che invero m’hanno permesso questo particolare viaggio, come dici tu c’è un tempo per ogni cosa e l’immagine, la sensazione che ne ho avuta è quella d’un vento a cui volevo resister (avendone la forza) e che poi ho accolto aprendo le finestre… che m’importa di tener la casa in ordine, quel che conta son le fondamenta (però non confondere il timo con la pineale…). Siamo diversi e c’è spazio al mondo per tutti, per ogni sorta di filosofia, ogni forma di vita… se le cose non van per quel verso quali le cause? Forse, come giustamente affermi, perché c’è chi vuol ricondurci all’Uno, ovviamente il suo… il suo senso della vita, la sua filosofia, la sua religione, la sua ideologia… ahinoi, la sua verità... Ringrazio donquixote del contributo, da cui ho attinto poco (per il momento). Da quello riporto solo una casualità, coincidenza o sincronicità che dir si voglia (come quella della mia poesia che ricalca quasi seguendone le parole, le suggestioni di paul11). Nel rispolverar il mio vocabolario son andato a veder bene (wiki) il significato del termine Weltanschauung, e quello che ha attirato la mia attenzione è questo: • Il grande psicologo svizzero di lingua tedesca Carl Gustav Jung ha, nei suoi numerosi scritti, fatto molto uso di questo termine per descrivere la profonda trasformazione degli individui allorché in essi cambia la Weltanschauung e come, al contrario, senza cambiarla diventi spesso impossibile ottenere una reale soluzione alla personale sofferenza psicologica... • Il quarto album del gruppo Black metal ucraino Nokturnal Mortum si intitola proprio "Weltanschauung". Quanto leggerete è (la continuazione del) la mia interpretazione di quel che siamo, se presupponga o meno una qualche verità può dirlo chi la senta affine o faccia risuonar in lui qualcosa. Per tutti gli altri, come per qualsiasi interpretazione che non li convinca, saranno parole scritte sull’acqua. Per giungerci, nella sua spoglia formulazione, m’è accaduto di dover abbandonare ogni appiglio e riferimento, esercitare come altri qui dicono il dubbio su ogni cosa… sul rosso che sia rosso, su tutto quello che diamo per scontato… ma non sarebbe accaduto nulla se alfine le cose non si fossero mostrate da sé attraverso un’apertura, una fessura… Nel poco che vi proporrò non troverete la parola anima, la parola Dio, e come detto sopra neppure la parola verità… e molte altre potenti parole che ben sapete manovrare nel vostro discorrere. Il filo conduttore della mia ricerca è stato di sapere come stanno le cose, e oserei dire che per quello ero pronto a scambiar la mia vita. Sarebbe stato troppo facile esser esaudito senza dover far nulla, e il guadagno inestimabile, pur se della durata d’un attimo. Sembra invece che occorra meritarsi le cose (non parlo ovviamente della mondanità) e pagarne un prezzo, ma può esser quello che accade a molti e non regola per tutti. Poche volte dimentico qualcosa e qui richiamo d’aver scritto che la vita sia un indovinello, il gioco a cui per nascita siam costretti a partecipare... e prendendolo seriamente (almeno per un gran tratto) cimentarsi per trovar risposta. S’io abbia trovato la mia, che quella con la “R” maiuscola non è per l’uomo, non saprei dirlo né me ne preoccupo; quello che vedo, che sperimento nel trascorrer dei giorni è sovente la sensazione di procedere… in compagnia di qualcosa che ne ha cambiato la prospettiva, ma anche per essa non ho la parola esatta, ammesso ci sia. Anche se un nome vale l’altro mi è venuto di veder in essa l’ispirazione, perché m’ha fatto scoprir la bellezza dello scriver (esercizio che m’acquieta) e tutte l’altre bellezze dell’arte, dove anche ama risiedere. Si cerca sempre in alto e poi le cose che ci corrispondono appieno si trovan qui con noi. In precedenza ho definito l’io come la memoria attivata e più precisamente come il pensiero-pilota della memoria attivata. Ma senza un linguaggio – in cui tutti siam immersi sin dal concepimento – non v’è alcun pensiero per come l’intendiamo, e ancor più, non vi sarebbe il mondo dell’uomo, dove esso ha man mano dispiegato le sue potenzialità, nel bene e nel male. Tutto quello che lo riguarda, con un po’ di fantasia, potrebbe dar l’impressione d’una sorta di meccanismo, come d’uno stupefacente orologio con una mirabile geometria d’ingranaggi, che a un dato momento – quando avvenga il radicamento dell’io nel corpo – dispone che s’abbia il nuovo giorno, il giorno dell’individualità acquisita. Assieme a quella novità, che permetterà di scoprire e vivere il mondo come separato da sé, l’individuo incontrerà la sensazione del divenire, toccando con mano che vi sia un procedere, una direzione della freccia in una sola direzione, in avanti. Una direzione nel tempo, quel che necessita per coprir una distanza, per muover qualcosa da un punto a un altro. Al nostro interno, in un luogo non collocabile, sorgono pensieri che trasportano informazioni che provengono dall’altra direzione della freccia del tempo, dall’indietro. La sensazione di noi stessi nel qui e ora, vien originata dal continuo movimento del pensiero-pilota in quel luogo incollocabile, e tuttavia agganciato alla sua controparte organica, che si muove nelle due direzioni. Spostandosi nel futuro, (il pensiero-pilota dell’io) prefigura (dopo una rielaborazione quasi istantanea delle informazioni sin lì acquisite) gli eventi; nel passato, aggrappandosi alla criniera dell’alato destriero che lesto condurrà dove un moto del cuore, o d’altra sensazione, richieda che si rivedano i nostri atti o quelli altrui. Ritengo che il compiuto, il passato, esca da noi perché l’informazione che ci accompagnerà nel futuro ne prenda il posto. Questo dà luogo a due distinti simultanei flussi: in entrata (l’informazione che si realizzerà nel futuro) e in uscita (l’azione, d’ogni sorta, che s’è compiuta, lasciando l’impronta dell’informazione che l’ha resa possibile, come memoria). Incessantemente, senza soluzione di continuità il pensiero-pilota dell’io si muove in questi due flussi presenti in ogni essere umano, collegandoli e (metafora elettrica) chiudendo il circuito. Questi poi si riuniscono, come affluenti d’un fiume, in un'unica acqua che li mantiene tuttavia separati - il flusso del passato e del futuro – comprendente i miliardi di flussi individuali di ogni persona vivente. Una parte dell’altra domanda, “dove andiamo” potrebbe trovar risposta nel seguir il corso di quell’acqua. Aggiungo che il compiuto - ciò che esce - in piccola o grande parte che sia, influirà sul futuro che ne verrà a prender il posto. Tra le informazioni che ci vengon dal passato, alcune hanno maggior forza di altre, e una in particolare che riguarda e accomuna tutti, produce una sorta di risonanza nel pensiero-pilota, che ne rallenta il movimento, così rallentando infinitesimamente quel doppio flusso, agendo su quello in entrata. Se ne ottiene la sensazione che il tempo venga frenato… a volte sin quasi a non esserne percettibile l’usuale scorrere , perché al di sotto della minima quantità per esperirlo. (un’interpretazione di quel tempo, non quello dell’orologio, verrà data in seguito). Come tale informazione (e se sia del tutto una informazione è una gran questione…) abbia siffatto potere si può congetturare in molti modi, ma quel che si può dir di essa è che trasporta un ricordo (ciò conferma provenga dal passato). Un ricordo d’una forza pari alla straordinaria forza del pensiero-pilota dell’io, col quale risuona. Il ricordo di quando quel pensiero-pilota dell’io non c’era. |