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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 19-05-2012, 19.39.21   #71
il Seve
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@ Giorgiosan

Giorgio, ti prego, sei intelligente e le tue risposte sono generalmente al di sopra della media e non solo grazie alle tue competenze generali in filosofia. Ma se continui così, come interprete di Severino cominci a fare un pessimo servizio al buon senso oltre che alla filosofia. Non dovrei preoccuparmene più di quanto abbia fatto finora, se non fosse che poi qualcuno finisce per credere a quel che scrivi. Ora qui non sono nelle vesti dell’avvocato della filosofia di Severino, né tantomeno sto difendendo una certa interpretazione di questa filosofia. Vorrei semplicemente chiarire che, per tutto quel che ho già scritto, stai travisando la sua filosofia in un modo così estremo che è come dare ad Heidegger del neopositivista o a Schlick del tomista. Penso che a beneficio di tutti sia opportuno che dia una sintesi qualunque della sua filosofia, che provenga da una fonte sicuramente autorevole come l’Enciclopedia filosofica Bompiani, voce “Severino Emanuele”, pag. 10554. L’autore è Leonardo Messinese, cattolico, e quindi, come conoscitore di Severino, certamente al di sopra di ogni sospetto, di cui segnalo anche una brevissima biografia. A questa Enciclopedia ha collaborato lo stesso Severino, ma a scanso di equivoci dico subito che basta leggere un catalogo Bompiani per rendersi conto di quanto questa casa editrice non sia certo di tendenze severiniane. Questa sintesi non è un modello di limpidezza per chi non mastica la filosofia, né sottoscriverei personalmente tutto quello che contiene, ma almeno illustra bene dei punti essenziali come ad esempio la negazione severiniana del divenire in senso nichilistico che smentisce la negazione del divenire in quanto tale che insistevi oltremodo nel sostenere.

Citazione:
Il pensiero di Severino si è costituito e consolidato come la «testimonianza» del significato non nichilistico del «divenire» del mondo. In una prima fase tale comprensione del divenire mondano era ritenuta in armonia con la posizione di un Dio trascendente, secondo il modulo della metafisica classica (La struttura originaria, Brescia 1958, Milano 1981; Ritornare a Parmenide, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 56, 1964, pp. 137-175, ora in Essenza del nichilismo, Milano 1981); successivamente quell’articolazione concettuale, intesa nei termini della tradizione, è divenuta problematica, pur continuando a sussistere in Severino la distinzione tra il tutto e la totalità dell’ente che appare o entra nell’esperienza. Il significato nichilistico del divenire si ha quando questo è inteso come il passaggio da un certo non essere a un certo essere e viceversa, poiché in tal caso è implicata l’identificazione dell’«essere» degli enti con il loro «non essere». In La struttura originaria e in Ritornare a Parmenide il toglimento del nichilismo era affidato al «logo» (= l’essere si oppone al non-essere), ma restava allora l’attestazione fenomenologica del divenire «nichilistico»; a partire dal Poscritto a Ritornare a Parmenide si osserva che neppure l’esperienza del divenire attesta un tale incremento e annullamento dell’essere (cfr. Essenza..., cit., pp. 84-90). Fin qui, perciò, il pensiero di Severino si presenta come una rigorizzazione della metafisica classica, sulla scia del pensiero di Bontadini, con il quale concorda circa l’interpretazione «parmenidea» del principio di non contraddizione, anche se non per la tesi bontadiniana che riteneva superabile la contraddittorietà del divenire introducendo «il teorema della creazione» (cfr. Risposta ai critici, in Essenza..., cit., p. 289). In seguito Severino ha orientato il suo pensiero verso una critica sempre più radicale della tradizione metafisica inaugurata da Platone – per il quale l’ente «oscilla» tra l’essere e il niente – anzi è giunto a mostrare il nichilismo intrinseco alla concettualità filosofica (cfr. Il sentiero del Giorno, in Essenza..., cit., e, per alcuni approfondimenti, Tautótes, Milano 1995), a quella scientifica (cfr. Legge e caso, Milano 1979) e allo stesso agire dell’uomo, sia per ciò che riguarda la struttura formale dell’«azione», sia per il costituirsi del dominio planetario della «tecnica». L’uomo si considera un «abitatore del tempo», un «mortale», crede che la «terra» (= la totalità di ciò che appare) sia il tutto: così, già nello stesso «linguaggio» pre-filosofico risuona il nichilismo. Severino ritiene che nei suoi scritti parli un linguaggio che esprime una «lingua» diversa da quella parlata dai molteplici linguaggi della civiltà occidentale e che tuttavia ne costituisce l’«inconscio» (cfr. Destino della necessità, Milano 1980). Dell’alienazione nichilistica Severino aveva parlato in Essenza del nichilismo riferendola alle fondazioni greche della metafisica, in Destino della necessità l’alienazione è riferita già all’uomo «pre-metafisico». Anche la fede cristiana, che prima era stata vista come una «possibilità» autentica per un aprirsi più concreto della verità (cfr. Studi di filosofia della prassi, Milano 1984 [1962]), successivamente, in quanto ritenuta partecipe di una pre-comprensione nichilistica dell’essere, si è vista ridurre di molto un tale rapporto privilegiato con la verità (cfr. Risposta alla Chiesa, in Essenza..., cit.), sino a divenire qualcosa di ben più che problematico (cfr. Pensieri sul cristianesimo, Milano 1995). Il superamento del nichilismo che struttura il pensare e l’agire del mortale si inscrive nel cerchio di uno «stare» dell’essere, che destina al «tramonto» l’attuale configurazione della terra e conduce nell’apparire le tracce del compimento dell’essenza autentica dell’uomo, che, dunque, non soltanto nell’«inconscio», è la «gioia» (cfr. La Gloria, Milano 2001). E tuttavia «col tramonto dell’isolamento della terra non tramonta la contraddizione del finito, ma tramonta la volontà interpretante» (cfr. ibi, p. 531), giacché tale contraddizione si costituisce a partire dall’essere, il finito è solo manifestazione formale, mai pienamente concreta del tutto. La filosofia di Severino, in quanto presenta una critica rivolta all’intera tradizione occidentale, può apparire molto simile a quella heideggeriana: proprio come fa Heidegger, ravvisa nell’attuale dominio della tecnica l’inevitabile esito del pensare metafisico. Riguardo a tale accostamento si deve, però, osservare innanzitutto che è diversa, nei due pensatori, la determinazione del «che cos’è metafisica» – e quindi la determinazione dell’essenza del nichilismo – e che per Severi- no, nella prospettiva del divenire nichilistico, non può esserci spazio per una «salvezza», neppure da parte di «un Dio». Heidegger, così, non riuscirebbe a mantenersi nella radicalità «nichilista» di Nietzsche (cfr. L’anello del ritorno, Milano 1999), di Leopardi (cfr. Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano 1997) e di Gentile (cfr. Attualismo e serietà della storia, in Gli abitatori del tempo, Roma 1992 [1978]). Per Severino la filosofia contemporanea, assumendo più radicalmente la potenza e la portata del divenire, ha definitivamente messo in luce l’impossibilità di conservare il risultato della speculazione greco-cristiana, la «salvezza» del divenire nell’atto della creazione operata da un Dio trascendente il mondo (cfr. La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano 1996). Questa, però, è per Severino soltanto la penultima parola, l’ultima parola essendo quella che testimonia il «sentiero del giorno» la cui manifestazione iniziale coincide con la verità dell’essere in cui sono destinati a inoltrarsi gli enti, non più «isolati» dalla verità del tutto, non più «interpretati» dall’uomo in quanto «mortale», e che già fin d’ora non sono insidiati dal nulla.
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Vecchio 19-05-2012, 22.40.10   #72
Giorgiosan
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Citazione:
Originalmente inviato da il Seve
Cos’è questa penna che vedo sul tavolo? E’ qualcosa che di fatto si manifesta sempre all’interno di segni che possono essere tanto le parole della lingua naturale quanto i concetti appresi, e ognuno dei quali ha senso solo perché rimanda ad un contesto che lo spiega e da cui non può essere astratto. Per quanto descriva questa penna, ogni aspetto non si presenta di fatto da sé, ma accompagnato sempre da segni inseriti in una catena di rimandi infiniti che rende impossibile raggiungere il significato ultimo della cosa stessa, la cosa pura e semplice

Citazione:
Originalmente inviato da Giorgiosan
Ogni parola cioè ogni “suono/segno” è convenzionale. Ogni parola indica un concetto ovvero la sua corretta definizione, secondo Socrate. Ogni concetto-parola rimanda o fa riferimento ad altri concetti-parole, e questi a loro volta ad altri concetti ancora e così via.

Esempio.
Penna = strumento per scrivere. Devo poi conoscere il concetto di “strumento” e quello di “scrivere” a cui la prima parola-concetto “penna” mi ri-manda.
Strumento=Arnese, (apparecchio, dispositivo) con cui si eseguono determinate operazioni.
Scrivere=Tracciare segni rappresentanti gli elementi di un sistema linguistico.

Sono ora ri-mandato ad: arnese-eseguire-operazioni- per capire il concetto di strumento ed a tracciare-segno-rappresentare-elementi-sistema-lingua per capire il concetto di scrivere.

In seguito dovrò definire i nuovi concetti-parole che ho usato con un sempre più ampio sviluppo

Fino a quando? All’infinito?
No, perché disporrò solo e saranno sufficienti tutti i lemmi della lingua italiana, che sono un numero finito.
Citazione:
Originalmente inviato da il Seve

La catena dei rimandi di segno in segno è invece finita, non perché le parole (e i discorsi) possibili sono finiti, ma perché le parole (e i discorsi) di fatto sono finiti.
Le parole e i discorsi sono concetti diversi, hanno significato diverso.
La parola esprime un concetto o un universale ed in ogni lingua il numero delle parole è finito mentre il discorso è l’esposizione per mezzo di parole ( scritte o pronunciate) del pensiero. I discorsi ed i pensieri sono un infinito numerabile ma le parole di una lingua sono in numero finito.
Cos’è questa penna che vedo sul tavolo? Si manifesta come strumento per scrivere e di essa non mi sfugge nulla di essenziale. Alla domanda cosa è questa penna si risponde che è uno strumento per scrivere. E non mi sfugge alcunché né a me né ad un alunno elementare. La cosa pura e semplice che è la penna.
Vorrei sapere cosa sarebbe una penna se non pura e semplice penna e cosa invece a te sfugge nei meandri dei rimandi infiniti.

Ultima modifica di Giorgiosan : 20-05-2012 alle ore 07.16.19.
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Vecchio 20-05-2012, 11.56.03   #73
il Seve
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Citazione:
Le parole e i discorsi sono concetti diversi, hanno significato diverso.
La parola esprime un concetto o un universale ed in ogni lingua il numero delle parole è finito mentre il discorso è l’esposizione per mezzo di parole ( scritte o pronunciate) del pensiero. I discorsi ed i pensieri sono un infinito numerabile ma le parole di una lingua sono in numero finito.

Va bene, chiamali come vuoi, ma mi sembrava chiaro che con “discorsi” intendessi “catene di parole”, cioè segni (non concetti) che sono catene di segni. Anche le parole di una stessa lingua sono infinite perché non c’è di diritto nulla che lo vieti. Sono finite solo di fatto perché prima o poi smettiamo di definire e consideriamo l’ultimo termine della catena come qualcosa che non rimanda più ad altro. Ma non significa che di diritto siano impossibili ulteriori rimandi infiniti della catena di segni. Quello che invece tu vuoi intendere è questa impossibilità di diritto sulla base della finitezza numerica dei segni di una lingua.

Citazione:
Cos’è questa penna che vedo sul tavolo? Si manifesta come strumento per scrivere e di essa non mi sfugge nulla di essenziale. Alla domanda cosa è questa penna si risponde che è uno strumento per scrivere. E non mi sfugge alcunché né a me né ad un alunno elementare. La cosa pura e semplice che è la penna.
Vorrei sapere cosa sarebbe una penna se non pura e semplice penna e cosa invece a te sfugge nei meandri dei rimandi infiniti.

Non sfugge a me, ma a buona parte della filosofia contemporanea (sia analitica che continentale), che ho cercato di far parlare nel post che hai pocanzi citato. La tua obiezione non è una risposta ad un assunto fondamentale di quella filosofia, ma proprio l’antecedente che quella filosofia ha contestato e dichiarato ingenuo. In un altro post avevi mostrato di averne ben compreso i motivi, che comunque torno ad esplicitare brevemente. L’affermazione “la penna è uno strumento per scrivere” presuppone la definizione di ognuna delle parole che la compongono, senza tra l’altro trascurare le regole grammaticali e sintattiche. Per ognuna delle parole di quelle definizioni si ripete il giochino della presupposizione delle loro definizioni, e così via all’infinito senza mai poter uscire dal linguaggio per incontrare la cosa “in carne e ossa”. Non è un’astruseria, quasi fosse un complotto contro il senso comune da parte di migliaia e migliaia di studiosi del linguaggio sparsi in tutto il mondo. Torno a ripetere che è la stessa situazione in cui da Cartesio a Fichte si è preteso prima di separare il pensiero dal mondo e poi di andare alla ricerca di ragionamenti (cioè pensieri) che portassero fuori dal pensiero per incontrare la cosa in sé.

Saluti.
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Vecchio 20-05-2012, 17.30.06   #74
Il_Dubbio
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Citazione:
Originalmente inviato da paul11
Ciao, Il Dubbio, l’argomento che poni è intrigante.

La paura è una reazione legata all’istinto di sopravvivenza L’angoscia penso sia più di natura psichica, per cui è attribuibile agli esseri che hanno consapevolezza di sé: gli umani .
Per cui relazionerei la conoscenza e l’angoscia.
Può la conoscenza avere potere taumaturgico nei confronti dell’angoscia? E’ una domanda esistenziale che mi pongo da un sacco di anni.
Lo può fare più o meno in parte la conoscenza a gestire l’angoscia se quest’ultima viene razionalizzata.

Ma non riusciamo totalmente a”vincerla” perché l’angoscia rappresenta l’insicurezza , mentre la conoscenza cerca un ordinamento nella sicurezza di una struttura protettiva.
Ma la conoscenza per essere stabile deve trovare una verità che acquieti la continua domanda esistenziale che la conoscenza/coscienza cerca di rispondere; diventa un gatto che si morde la coda.
Quindi la precarietà dell’esistenza non trovando attraverso la conoscenza una risposta definitiva in una verità incontrovertibile che dia senso al “muoversi” nella vita , che dia significato al relazionarsi con sé e il mondo, cede all’angoscia
L’ontologia dell’essere non ha mai trovato una risposta ed è questa la sua contraddizione, la cerca solo nella logica della ragione, ma l’angoscia non ha “ una ragione”

Invito tutti a soffermarsi a rileggere la prima frase di CVC nell'introduzione all'argomento su cui stiamo discutendo:

Emanuele Severino afferma che la ricerca della verità è il rimedio dell'uomo all'angoscia del divenire.


Qual è il tema? Cerchiamo di comprenderlo!

Prima di tutto sembra che il tema sia il pensiero di Severino. Se il tema fosse il pensiero di Severino, allora dovrebbe essere chiaro che solo coloro i quali conoscono il suo pensiero possono parlarne.
Ammettiamo però che CVC riporti fedelmente il pensiero di S. e questo sia racchiuso brevemente nella frase: la ricerca della verità è il rimedio dell'uomo all'angoscia del divenire.

A questo punto non è più interessante il pensiero di Severino, esso è riportato fedelmente da quella frase. Qualcuno potrebbe dubitare però che Severino abbia scritto quella frase di proprio pugno e che il pensiero di Severino sia racchiuso li dentro. Ma a noi interessa sapere cosa pensasse Severino oppure interessa commentare questa affermazione?

Chiaramente io sono per la seconda soluzione. Non devo fare un esame su Severino, ma il mio interesse è sulla quella frase.

Allora non possiamo far altro che analizzare la frase.

Prima cosa che colpisce è il concetto di "ricerca della verità". Siccome la ricerca della verità non è la verità, ma è qualcosa che precede la verità, la frase non vuole affermare che l'angoscia scompaia (o si attenui) in presenza della verità, ma solo attraverso la sua ricerca.

La seconda cosa che colpisce è quel che sembra espresso nell'angoscia del divenire. .
L'angoscia (sembra) innescata dal divenire. Ne è la conseguenza. Questo meccanismo però a me non è molto chiaro e bisogna vedere se lo sia almeno per Severino. Anche tu hai dovuto fare una certa differenza concettuale fra paura e angoscia, che noi spesso moltiplichiamo aumentandone i termini. Così il terrore è diverso dalla paura, l'ansia dall'angoscia, e così via.
Una delle perplessità (dubbiose ) che mi sono venute in mente è se non esista anche una differenza fra l'angoscia dovuta al divenire e l'angoscia dovuta ad una vita monotona. Penso alla depressione (per le forme più gravi), alla mancanza di stimoli, alla noia e al conseguente pensiero dell'inutilità della vita. Forse useremo un altro termine, non proprio angoscia ma avremo comunque due conseguenze (cattive) uguali ed opposte una per il divenire e l'altra per la monotonia. Non capisco quindi perchè dovrebbe essere più rilevante (o più grave) l'angoscia (se mai esiste) per il divenire e meno importante l'angoscia per la monotonia.

Qual è l'operazione che ho fatto io? Eliminare l'elemento incomprensibile da quel che viene riportato da CVC.
Ho eliminato il concetto di verita e di ricerca, e ho introdotto (al suo posto) il concetto di conoscenza. Nell'insieme conoscenza ho inserito ogni tipo di forma di consapevolezza (dal concetto di divenire alla monotonia passando dall'angoscia fino al terrore). Ebbene! Qualche volta può succedere di vivere un momento no, ma di non sapere esprimere con le parole quel momento, ovvero di non saperlo "riconoscere". Sarà paura, terrore, angoscia, ansia o depressione? Questo tipo di conoscenza non è filtrato da parole o da concetti.
Ma cosa sono questi stati? Stati di incoscienza?
Io tento invece di mettere sullo stesso piano la consapevolezza della parola che accompagna la sensazione e la sensazione stessa. Entrambi si avvalgono di conoscenza e di consapevolezza.
Noi avremmo però la sensazione di conoscere meglio le nostre emozioni se diamo loro un nome. E' questo il primo atto di un processo che chiamiamo razionalizzazione. Se conosco in me la sensazione di amore verso una donna e assieme associo le parole razzionaizzate di matrimonio, figli, casa, lavoro ecc. ho costruito anche un progetto da attuare. Se viceversa non conoscessi queste parole, ma vivessi in me il desiderio di possesso sessuale verso una donna, capisci che il mio atto conseguente, benchè consapevole, non sarà a lunga scadenza. Resta però imprescindibile che abbia d'apprima la consapevolezza di un sentimento (o di un desiderio) a cui poi posso associare in seguito una parola e un progetto. Se qualcuno pensa (e secondo me può succedere) che il sentimento nasca dalla definizione di una parola e dalla conseguente ricerca in se di quel sentimento con quella parola, allora i sentimenti non possono essere autentici. Nessuno di noi può dire di amare qualcuno, ma nemmeno di odiarlo essendo sentimenti creati artificialmente dalle parole.

Ritorniamo indietro. Riprendiamo il concetto che si vuol esprimere con "angoscia del divenire". Evidentemente qui ci troviamo di fronte ad un sentimento nuovo nato dal concetto che esprime la parola divenire. Non so se Severino è angosciato da questa parola, però è l'ultima che manca per completare il mosaico.
Se abbiamo conoscenza e consapevolezza del divenire dobbiamo domandarci se essa esprime già l'angoscia e quindi il divenire è un sentimento angosciante, oppure lo è solo per alcuni che lo chiamano con quel nome. Siccome qui mi sembra si volesse fare filosofia e non psicoanalisi, non possiamo passarci su senza nemmeno rifletterci un momento.
L'elemento base (ed è quello che ho voluto lungamente mettere in evidenza) è la conoscenza-consapevolezza. Se una parola esprime un sentimento che proviamo e lo chiamiamo con il termine "divenire" allora il divenire è un sentimento. Se il divenire invece è un termine coniato per descrivere un fenomeno e questo porta angoscia...belli miei (come diceva un mio vecchio conoscente) non lo usate!

E chissà che non volesse dire proprio questo... Severino?
Il_Dubbio is offline  
Vecchio 20-05-2012, 18.33.13   #75
Giorgiosan
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Citazione:
Originalmente inviato da il Seve
Va bene, chiamali come vuoi, ma mi sembrava chiaro che con “discorsi” intendessi “catene di parole”, cioè segni (non concetti) che sono catene di segni. Anche le parole di una stessa lingua sono infinite perché non c’è di diritto nulla che lo vieti. Sono finite solo di fatto perché prima o poi smettiamo di definire e consideriamo l’ultimo termine della catena come qualcosa che non rimanda più ad altro. Ma non significa che di diritto siano impossibili ulteriori rimandi infiniti della catena di segni. Quello che invece tu vuoi intendere è questa impossibilità di diritto sulla base della finitezza numerica dei segni di una lingua.



Non sfugge a me, ma a buona parte della filosofia contemporanea (sia analitica che continentale), che ho cercato di far parlare nel post che hai pocanzi citato. La tua obiezione non è una risposta ad un assunto fondamentale di quella filosofia, ma proprio l’antecedente che quella filosofia ha contestato e dichiarato ingenuo. In un altro post avevi mostrato di averne ben compreso i motivi, che comunque torno ad esplicitare brevemente. L’affermazione “la penna è uno strumento per scrivere” presuppone la definizione di ognuna delle parole che la compongono, senza tra l’altro trascurare le regole grammaticali e sintattiche. Per ognuna delle parole di quelle definizioni si ripete il giochino della presupposizione delle loro definizioni, e così via all’infinito senza mai poter uscire dal linguaggio per incontrare la cosa “in carne e ossa”. Non è un’astruseria, quasi fosse un complotto contro il senso comune da parte di migliaia e migliaia di studiosi del linguaggio sparsi in tutto il mondo.





Ci esprimiamo per mezzo del liguaggio che abbiamo e questo ha un numero determinabile di termini. Di "diritto" nulla impedisce che la lingua si arricchisca di neologismi ma questo non modifica il fatto che non abbiamo un vocabolario infinito e che quanto possiamo affermare è condizionato dal numero di vocaboli che possediamo di fatto, non di quelli ipotetici che potremmo possedere.

Altra cosa è il "pensiero", se usiamo i termini secondo il loro significato, altra cosa sono i concetti.

Il linguaggio è una forma simbolica e non rappresenta la realtà tale e quale essa è, e neppure il pensiero ovviamente la rappresenta tale e quale è.
Gli enti non li possiamo incontrare "in carne ossa" a meno che non parliamo di esperienze mistiche o presunte tali.
Con gli enti possiamo avere solo un rapporto mediato dai nostri sensi e neppure i sensi percepiscono gli enti per in "carne ed ossa" per quello che sono.
Se tu conosci qualcuno che incontri gli enti "in carne ed ossa" o abbia un metodo filosofico per farlo fammelo sapere e te ne sarò grato. Severino forse li incontra in carne ed ossa?


Che cosa siano i singoli enti dal punto di vista empirico potrà essere specificato dalla scienza ma nessun progresso scientifico potrà modificare alcunché dalla definizione che la "penna è strumento per scrivere".

La conoscenza è un insieme coordinato di simboli.

Quando esprimi giudizi che vuoi supportare con un "argomento ad autorità" è troppo vago e generico riferirsi a migliaia e migliaia di studiosi del linguaggio sarebbe più corretto citare esplicitamente con nome e cognome chi ritiene supporti le tue tesi o quelle di Severino cosi come quando genericamente ti richiami alla filosofia contemporanea.
Potresti dare l'impressione di menare il can per l'aia.

Chi sono dunque i linguisti che vuoi citare a sostegno? Noam Chomsky, Tullio De Mauro, Wittgenstein o Bertrand Russell o Rudolf Carnap o Ferdinand de Saussure ... non ne conosco a migliaia quanti tu, dici di conoscere....purtroppo.



Citazione:
Originalmente inviato da il Seve

Torno a ripetere che è la stessa situazione in cui da Cartesio a Fichte si è preteso prima di separare il pensiero dal mondo e poi di andare alla ricerca di ragionamenti (cioè pensieri) che portassero fuori dal pensiero per incontrare la cosa in sé.

Fra Cartesio e Fichte c'è Locke, Berkeley, Hume, Kant ecc. ed "omogeneizzarli" riguardo al tema filosofico del concetto e della conoscenza significa vedere tutte le vacche nere .. ma di notte.

Immagino che sia un pensiero di Severino, ma dove lo trovo più estesamente e più comprensibilmente?
Temo che la tua esposizione della filosofia di Severino sia più ardua della sua.

PS. Risponderò poi anche al post precedente riguardo al tuo timore sulla mia interpretazione di Severino.

Ultima modifica di Giorgiosan : 21-05-2012 alle ore 11.18.55.
Giorgiosan is offline  
Vecchio 21-05-2012, 00.59.35   #76
Giorgiosan
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Citazione:
Originalmente inviato da jador
.... se il divenire autentico (cioe' non nichilistico) non e' il crearsi e l'annullarsi dell'essente, ma il comparire e lo sparire di cio' che e' eterno, se tutto cio' de-responsabilizza l'esistenza, il bene e il male non possono avere nessun effetto sull'ineluttabile destino che e' la "Gloria", destino uguale per tutti.
Altrimenti la sua religiosità non sarebbe più anonima, ma la ben conosciuta religiosità.

La morale, la scienza del bene e del male, così come l’etica sono declinate solo dalla religione? La morale è solo una creazione teologica? Credo sia molto difficile sostenere questo.

Se sì, si ammette implicitamente che l’unico possibile “magistero” morale sia quello religioso e che la sola fonte della moralità sia la religione.

Se non è così il pensiero di Severino, le cui estreme conseguenze vanificano, fanno evaporare, la realtà morale e la sua pregnanza esistenziale, contiene degli asserti improbabili.
La coscienza morale è un fenomeno universale anche se le norme cui ogni individuale coscienza morale si riferisce nel suo giudizio possono essere diverse.
Giorgiosan is offline  
Vecchio 21-05-2012, 09.55.32   #77
CVC
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Citazione: #74, postato da Il Dubbio


Ti ringrazio Dubbio di aver così bene esplicitato quel che intendevo sottolineare.
Mi riferivo al libro di Severino "La filosofia contemporanea", dove l'autore usa l'angoscia del divenire come pietra di paragone per interpretare la filosofia contemporanea, pensiero scientifico compreso.
In questo libro si parla dell'interpretazione di Severino del pensiero di altri. Gli interventi di Il Seve, Giogiosan, Aggressor, Paul 11, Arsenio hanno fatto luce su quello che è il pensiero proprio di Severino, che è un autore importante.
Il mio dubbio, che mi pare sia condiviso da altri, è se si possano o no ridurre gli ultimi due secoli di pensiero scientifico e filosofico al minimo comun denominatore dell'angoscia per il divenire.
Io credo che sia un punto di vista, interessante e per certi versi illuminante, ma possono essercene altri.
Come ben osservato da te, "Una delle perplessità (dubbiose**) che mi sono venute in mente è se non esista anche una differenza fra l'angoscia dovuta al divenire e l'angoscia dovuta ad una vita monotona. Penso alla depressione (per le forme più gravi), alla mancanza di stimoli, alla noia e al conseguente pensiero dell'inutilità della vita."

Comte sosteneva che ordine e progresso sono inseparabili, l'ordine prepara il progresso e il progresso conduce ad un nuovo ordine. Il concetto di evoluzione dovrebbe aver assorbito quello di angosciante timore per l'incerto divenire, in quanto il progresso (o divenire) è si la distruzione di un ordine, ma è anche la preparazione di un ordine nuovo in cui acquisirà senso e forma ciò che ora appare incerto e confuso.

"Siccome la ricerca della verità non è la verità, ma è qualcosa che precede la verità, la frase non vuole affermare che l'angoscia scompaia (o si attenui) in presenza della verità, ma solo attraverso la sua ricerca."
Quoto in pieno, la verità è un qualcosa che possiamo avere solo a posteriori, mentre l'angoscia è un fatto che agisce nel presente, come la ricerca della verità

L'angoscia del divenire potrebbe essere rappresentata dall'uomo che si perde nel fluire degli eventi, non riuscendo più a trovare se stesso in quel fluire di eventi. Sarebbe quindi una questione di identità. Continuiamo a ritenere più importante l'identità della relazione. Una volta assodato che sia l'ambiente che io in quanto individuo vivente siamo in costante evoluzione, dovrei concentrarmi su ciò che mette in relazione uno stato (mio e dell'ambiente) con lo stato successivo. Invece siamo focalizzati sulla nostra identità, al punto che il timore di perderla sarebbe per qualcuno (Severino) la scintilla che ha dato origine all'intera filosofia e successivamente alla scienza. Forse il problema dell'uomo è che, nonostante il suo progresso intellettuale, non sia ancora riuscito al liberarsi dall'ingombrante ed esagerato peso che viene attribuito alla propria identità. Russell suggerisce che la ricerca della felicità stia nell'allontanare il più possibile l'attenzione dal proprio io, concentrandola invece su ciò che ci circonda. Il vivere nel proprio ego condurrebbe l'uomo al narcisismo, ai sensi di colpa, alla megalomania.
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Vecchio 21-05-2012, 11.57.57   #78
il Seve
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Citazione:
Originalmente inviato da Il Dubbio
Invito tutti a soffermarsi a rileggere la prima frase di CVC nell'introduzione all'argomento su cui stiamo discutendo:

Emanuele Severino afferma che la ricerca della verità è il rimedio dell'uomo all'angoscia del divenire.


Qual è il tema? Cerchiamo di comprenderlo!

Prima di tutto sembra che il tema sia il pensiero di Severino. Se il tema fosse il pensiero di Severino, allora dovrebbe essere chiaro che solo coloro i quali conoscono il suo pensiero possono parlarne.
Ammettiamo però che CVC riporti fedelmente il pensiero di S. e questo sia racchiuso brevemente nella frase: la ricerca della verità è il rimedio dell'uomo all'angoscia del divenire.

A questo punto non è più interessante il pensiero di Severino, esso è riportato fedelmente da quella frase. Qualcuno potrebbe dubitare però che Severino abbia scritto quella frase di proprio pugno e che il pensiero di Severino sia racchiuso li dentro. Ma a noi interessa sapere cosa pensasse Severino oppure interessa commentare questa affermazione?

Chiaramente io sono per la seconda soluzione. Non devo fare un esame su Severino, ma il mio interesse è sulla quella frase.


Mi trovi molto d’accordo. Anche perché quel pensiero non è di Severino, e penso che dopo aver ripetuto fino alla noia che Severino non propone rimedi per i tanti motivi che ho già espresso, si sarebbe dovuto capire. Quel pensiero appartiene all’intera civiltà occidentale, che per salvarsi dall’imprevedibilità angosciante del divenire (un imprevisto raccolto pessimo, un imprevisto alluvione, un’imprevista orda di barbari, un’imprevista pestilenza) prima va alla ricerca della conoscenza assolutamente vera perché quella controvertibile del mito non rende assolutamente prevedibile il divenire, poi si rende conto che rendere assolutamente prevedibile l’imprevedibile è una contraddizione in termini che quindi rende fallace la potenza dell’uomo, e va alla ricerca di un (certo tipo di) sapere ipotetico (cioè la scienza moderna) che assicuri una certa prevedibilità, ma non tanto da arrivare a rendere pura apparenza il divenire (che poi è la vita stessa, perché la vita è appunto un certo tipo, ancorché importante, di divenire), che viene creduto il dato incontrovertibile. Severino smentisce che quel divenire così come è inteso dall’Occidente, cioè come uscire dal nulla da parte delle cose e ritornare nel nulla da parte delle stesse (che è il fondamento dell’imprevedibilità in quanto tale), sia un dato incontrovertibile, per tutta una serie di ragioni che qua e là ho personalmente tratteggiato. E propone (nel senso che dimostra necessariamente) che il divenire va inteso come l’apparire e lo scomparire di enti eterni. Laddove, che tutto sia eterno, cioè sempre salvo, rende insensata ogni ricerca di rimedi.

Citazione:
Originalmente inviato da CVC
Gli interventi di Il Seve, Giogiosan, Aggressor, Paul 11, Arsenio hanno fatto luce su quello che è il pensiero proprio di Severino, che è un autore importante.

CVC ti assicuro che siamo al ridicolo, anche se non è chiaramente colpa tua.

Caro Giorgiosan, i miei timori erano più che fondati quando scrivevo che poi qualcuno finisce per credere a quel che dici essere il pensiero di Severino. E’ triste constatare che postare l’intera voce riguardante Severino della monumentale e autorevole Enciclopedia filosofica Bompiani sia stato come lanciare in mare un messaggio in bottiglia, o lanciare una vox clamantis in deserto.

Saluti.
il Seve is offline  
Vecchio 21-05-2012, 13.28.21   #79
Il_Dubbio
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

Citazione:
Originalmente inviato da CVC
"Siccome la ricerca della verità non è la verità, ma è qualcosa che precede la verità, la frase non vuole affermare che l'angoscia scompaia (o si attenui) in presenza della verità, ma solo attraverso la sua ricerca."
Quoto in pieno, la verità è un qualcosa che possiamo avere solo a posteriori, mentre l'angoscia è un fatto che agisce nel presente, come la ricerca della verità

Sicuramente non parlerò di Severino, ma del tema che hai proposto.

Un'altra considerazione su questo tema: nel momento in cui poni una domanda così specifica: esiste un Rimedio? Ci si pone la domanda (almeno è quel che ho fatto io) se esista un problema a cui tentare di porre rimedio.

Io il problema l'ho già descritto; non è il divenire, non è l'angoscia e ne tanto meno la verità o la sua ricerca. Il problema è la conoscenza-coscienza.

Infatti ho detto che qui stiamo (o staremmo tentando) di fare filosofia e non psicoanalisi. Un filosofo dovrebbe (ma forse sbaglio) dare una risposta centrando il problema profondo. Se invece c'entrasse un problema superficiale, come quello dell'angoscia del divenire, che non tocca tutti ma solo alcuni (infatti ad altri può venire l'angoscia della monotonia), non staremmo facendo "buona filosofia".

In un senso ancora più generale troviamo la conoscenza-coscienza ancora al centro del vero problema, in quanto il problema c'è solo quando uno se ne accorge. Ed infatti ci sono uomini e donne che vivono (apparentemente) in modo felice e non hanno interesse per sentimenti angoscianti verso il futuro, e nemmeno per la monotonia. Per loro la vita è bella così com'è. Forse non hanno incontrato mai il dolore, i dispiaceri... oppure riescono a condividerne, senza esserne angosciati, lo stesso spazio. Sanno che esiste il dolore, la sofferenza ecc., ma li accettano. Accettare non significa andarsela a cercare, significa essere coscienti e consapevoli che questo mondo che fatto così. Questa non è ricercare la verità, è la verità. Il nostro piacere (felicità) sarà tentare di condividere con il maggior numero di persone-enti (anche cani, criceti o giraffe...) questo mondo ben sapendo che esiste il dolore e la sofferenza e che va sicuramente evitata o controllata ma no condannata.
Chi non accetta questo è angosciato.
Chi vive nel dolore e nella sofferenza deve essere aiutato, non solo a farlo passare ma anche ad evitarlo fin che è possibile, ed infine anche ad accettarlo come facente parte del mondo. Un mondo che ci vede testimoni del mondo stesso, così com'è e come è conosciuto dal nostro individuale Io.

Sono sempre stato dell'idea, infine, che noi viviamo la verità. Non abbiamo bisogno di andarla a cercare. Porta angoscia più pensare che la verità sia da qualche altra parte e che il nostro presente che viviamo ne sia privo che viceversa.
Idea che non sposa il linguaggio scientifico, anche se ne ho gran rispetto, perchè è anch'essa parte del nostro mondo. Ma se dovesse crearci qualche problema, basta evitarlo (non toccandolo)... magari estraendo da essa solo il nettare, il meglio.
Il_Dubbio is offline  
Vecchio 21-05-2012, 15.08.32   #80
Giorgiosan
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

"… Nel contempo, e negli anni immediatamente successivi, mi impegnavo a sviluppare quello che mi sembrava di trovare in Heidegger allo stato embrionale (cfr. gli scritti che ho raccolto nell’AppendiceII, appunto perché indicano più dfetermitamente l’orrizonte teorico in cui simuoveva quella mia interpretazione di Heidegger , e pur essendo i primi tentativi di rielaborazione teorica della metafisica classica erano anche il punto di partenza delle ricerche che sarebbero seguite.
Heidegger e la metafisica, Adelphi ed., Milano 1994, pag. 20

Come tutti sanno il piano dell’opera di Heidegger, Essere e tempo, comprendeva due parti.
La prima parte avebbe dovuto contenere tre sezioni: le prime due destinate all’analitica esistenziale, la terza a “tempo ed essere”. La seconda parte riservata ad alcune fasi della distruzione dell’ontologia classica.
Essere e tempo però non fu completata e la sua scrittura si interruppe dopo le prime due sezioni della prima parte.


Ora gli interrogativi sulla parte inconclusa di Essere e tempo hanno occupato la mente dei filosofi contemporanei.
Severino ha operato a modo suo la distruzione logica dell’ontologia classica proseguendo dove Heidegger si era fermato, per così dire..
Heidegger, è persino banale dirlo, era il filosofo che aveva aperto un epoca filosofica, e di cui Severino si occupò a cominciare dalla sua tesi di laurea, appunto “ Heidegger e la metafisica”.

Per Seve

Non mi piace lasciare a metà le cose. Volevo dire ancora qualcosa su Heidegger e Severino, prima.E ancora prima c'era un post di jador che aveva mosso una obiezione calzante.

Ho già detto che risponderò a quel post. Sii paziente e non farti cogliere dall'ansia del tifoso, o fan, cui si devono ascrivere le assurde preoccupazioni che il "verbo" di Severino sia manipolato e che ti fanno essere più realista del re.


Se leggi sopra, gli ipsissima verba di Severino vedrai che non pretende di spiegare cosa ha significato Heidegger ma di interpretarlo.
Tutto è interpretazione.
Giorgiosan is offline  

 



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