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29-04-2012, 17.34.21 | #22 |
Ospite abituale
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Se l'unica realtà è il divenire e non ci può essere niente di immutabile o permanente, ci dovrà pur essere una rappresentazione nella mente che rimane identica a se stessa, almeno per ricordare alla mia coscienza che esiste un qualcosa come il divenire.
Se tutto ciò che pensa l'uomo è grazie alla sua coscienza, tale coscienza per funzionare come tale deve sempre riconoscere un qualcosa per confrontarlo con qualcos'altro. Se esiste un qualcosa come l'io, tale io è la percezione che io ho di me stesso. Per rappresentarmi me stesso devo avere una chiara rappresentazione di "me stesso". Per esempio so di preciso che per "me stesso" intendo un uomo di 40 anni. Ma andando nello specifico dovrei dire un uomo di 40 anni, 11 mesi, 29 giorni, 17 ore, 2 minuti e 49 secondi in questo momento, e di 40 anni, 11 mesi, 29 giorni, 17 ore, 2 minuti e 50 secondi nell'attimo successivo e così via di seguito. In altre parole per percepire me stesso in termini di divenire dovrei percepire un "me stesso" che non è mai realmente uguale a se stesso perchè invecchia ad ogni attimo successivo. Eppure io non ho alcun dubbio che esista un "me stesso" che per me è assolutamente identico (almeno per certi versi) al "me stesso" di 5 o 10 anni fa. Secondo Nietzsche bisognerebbe dire di sì e abbandonarsi al divenire affidandosi all'eterno ritorno delle cose, ma il mio riconoscere il "me stesso" di ora uguale al "me stesso" di 10 anni fa non è opera di un eterno ritorno, ma una mia determinata ricerca cosciente nel mio animo che posso svolgere con un atto volontario in qualunque momento. A me pare che realtà del divenire e realtà del pensiero non coincidano, e pertanto anche ammettendo l'esistenza del divenire non si può usarlo per confutare la realtà del pensiero che è quella della ricerca di un uso ottimale della ragione, che si chiami filosofia o saggezza o rimedio. |
29-04-2012, 18.00.55 | #23 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Citazione:
Forse dovresti prima leggere gli altrui post , perchè quello che dico è propio quello che tu dici del pensiero di Severino. Forse ho il difetto di essere un pò troppo diretto ed andare al dunque. Oppure entra nel mio post dove vedi che c'è inesattezza. Il fine del pensiero di Severino è simile al Nirvana buddhista. Il mondo è maia, togliamoci i desideri che ci legano al mondo sensibile...e poi? La pace dei sensi? Ma anche questo percorso non implica comunque scelte? E le scelte a loro volta cosa implicano, se non volontà e libertà? Esiste l'essere? Quali sono le sue proprietà e le sue giustificazioni ?Esiste la libertà? E se esiste come e dove si esplica? Se non esiste la libertà c'è una ragione epistemica per cui noi dovremmo esistere e dovrebbe avere un senso l'esistere. Trovo persino affascinante il sofisma puramente intellettuale di dire: "non c'è libertà, però siete liberi di credere, tanto non serve a niente" Come se il fatto di credere non implichi un atto di volontà e di libertà. Quello che temo e che sto approfondendo, ritornando al tema del post sul rimedio è che la cultura filosofica non si sia evoluta, o meglio ha messo in crisi la tradizione per non più riuscire a dare risposte alle stesse domande di sempre. Il mio modesto parere è che Severino che è sicuramnete un gran pensatore, faccia ottimi ragionamenti logici che non hanno a che fare con la realtà. Se vogliamo discutere sulle contraddizioni che vedo nel pensiero severiniano si apra, chi vuole un post ad hoc. Devo dare ragione ad Arsenio che l'ontologia è morta , se è ancora questa che si ripropone, perchè il vero problema , da un umile ignorante come il sottoscritoo sta nell' ESSERE che non si capisce a sua volta da dove viene , e allora si inventa un circuito logico dell'eterno o del divenire. Chiudo dicendo che anche la matematica, figlia della logica, è un linguaggio che non avrebbe senso se non trovasse applicazione nella realtà e ci aiutasse a capire il mondo. L'ontologia non mi serve alla costruzione razionale di una forma di conoscenza logica, che non è detto che sia l'unica,se non si applica nella realtà come la matematica, non mi aiuta a capire il mondo e il mio essere nel mondo. L'ontologia per essere un rimedio non deve più essere separata fra razionalismo ed empirismo, fra astrazione e realtà, penso che sia nel sistema delle relazioni, forse , una possibile soluzione. Ultima modifica di paul11 : 30-04-2012 alle ore 01.54.07. |
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30-04-2012, 10.32.11 | #24 |
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Il Seve, mi dispiace ma devo farti notare l'incosistenza della maggiore dimostrazione dell'inesistenza della contingenza (o del caso o della libertà) che hai riportato; tu dici:
Cioè è tanto possibile che l’accadimento accada quanto è possibile che non accada. E queste due possibilità stanno sempre insieme perché l’una richiama immediatamente l’altra, e non è possibile che si riferiscano ad un accadimento in modo che quando ci sia l’una non ci sia l’altra. Quindi l’accadimento possibile è sempre accompagnato da due predicati opposti e quindi è contraddittorio. Con "accadimento" tu intendi qualcosa di reale e di esistente, dunque alla fine tu dici che se ci fosse la contingenza un oggetto potrebbe allo stesso tempo essere predicato di esistenza e di inesistenza. Il fatto è che Kant ci ha mostrato benissimo che l'esistenza non è un predicato, non puoi dire che una cosa per il tramite della contingenza può essere esistente o essere non esistente, ma solo che può essere in un modo o in un'altro. Quando dici che l'accadimento è accompagnato da 2 predicati opposti, visto che il predicato a cui ti riferisci è l'esistenza -ma questa non è un predicato- dici il falso. |
01-05-2012, 10.51.31 | #25 | |||
Ospite abituale
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
@ Giorgiosan
Mi scuso se il tono da me usato può averti offeso. E’ una cosa che mi dispiacerebbe perché ti conosco tra i più educati del forum. E’ una vita che sento dire che Severino è un heideggeriano o vicino alle posizioni di Heidegger, e mi irrita molto perché semplicemente Severino è agli opposti, e solo per equivoco si possono prendere delle idee da contesti diversi e dire che sono la stessa cosa. Mi sembra comunque che la questione vada oltre il caso Severino, perché, se capisco bene il tuo punto, mi sembra che tu l’abbia ben sintetizzato dove dici Citazione:
Su questo metodo d’indagine di tipo genetico, ancorché molto diffuso, ma anche molto equivocato, io nutrirei forti dubbi. A cominciare dal disastro che ne viene fuori se viene applicato a se stesso. In ogni caso, la nostra discussione era OT dall’inizio e se ne potrà discutere in thread appositi. Stesso epilogo, se vorrai, potrà avere uno scambio di idee sul valore della distinzione tra fides qua creditur e fides quae creditur, cioè tra forma e contenuto di una fede. Citazione:
Nooo, è proprio tutto il contrario! Anche se il mondo è Maya, cioè illusione, l’illusione saputa come illusione non è illusione, altrimenti non potremmo dire che qualcosa è illusione. Le illusioni esistono. I loro contenuti, ciò che esse affermano, invece no. Non possiamo toglierci i desideri (né del mondo sensibile né di altro tipo) perché che ci siano è destinato, come è destinato che tramontino. In tutto questo noi non siamo degli estranei, perché contribuiamo con la nostra illusione di poter portare al tramonto la credenza di essere delle volontà, dei centri di forze che modificano le cose. Portare al tramonto le illusioni è un’illusione perché questo tramonto è già destinato di per sé. Noi e l’insieme di illusioni che ci caratterizza siamo ciò che accade necessariamente e necessariamente viene portato al tramonto da quel Noi (la verità eterna) che realmente siamo prima ancora che faccia ingresso la credenza di essere delle volontà, e che perlopiù dal noi come volontà viene espresso solo raramente. Dire: “non c'è libertà, però siete liberi di credere, tanto non serve a niente”, è infatti un sofisma. Se non c’è libertà, allora non si può essere liberi di credere. E se si crede è solo perché è destinato. E se tutto è destinato perché dovrebbe essere indifferente credere o non credere, agire o non agire? Qualsiasi scelta si compia è destinata, e quindi non è indifferente che accada di credere invece che non credere, di agire invece che non agire. In questo senso, credere serve, cioè serve al destino, che realmente siamo e che riconosceremo al di là del linguaggio che esprimo, quando tramonterà, destinata da sempre, la prevalenza delle credenze. A differenza del destino degli stoici, cioè del fato, l’autentico destino non è qualcosa che ci trascina nonostante la nostra volontà, e quindi nemmeno la corrente a cui dobbiamo adeguarci per evitare guai. Per gli stoici, la volontà è libera dal fato, e può seguirlo come non seguirlo. Questo riproduce lo schema di una dimensione eterna (il fato) che sovrasta la dimensione del divenire (la volontà), con quest’ultima che ha il compito di adeguarsi all’eterno per risolvere le proprie contraddizioni interne. A differenza del fato, l’autentico destino non lascia che fuori di sé sussista qualcosa di estraneo, perché altrimenti il destino sarebbe la dimensione di una verità parziale. E dunque non lascia che esista una volontà che possa accettarlo o respingerlo, ma la contempla in sé stesso con necessità come una delle sue (preminenti) negazioni, cioè illusioni. Caro Paul, se poi ti affidi alla matematica per capire il mondo, ci credo che per te l’ontologia è morta e i vari Severini della situazione ragionano bene, ma fuori della realtà (dove per realtà viene sempre chiaramente intesa quella del divenire, che è tutta da discutere). Persino gli scienziati, notoriamente a digiuno delle competenze utili ad indagare i fondamenti del loro stesso sapere, sono alquanti incerti sul valore ontologico della matematica, e si interrogano ancora se la matematica tenga in piedi le teorie scientifiche perché è parte della realtà o se le tenga in piedi perché è un espediente utile che fa comunque tornare le cose, ancorché non si sappia come. Se volete, potete rispondermi pure in un thread appropriato. Citazione:
Un pensiero veramente molto perspicace. Permettimi di volgarizzarlo con altri termini e di approfondirlo. In estrema sintesi, il divenire esiste, ma esiste anche il mio pensiero del divenire. Quest’ultimo non può a sua volta divenire, perché se divenisse, diverrebbe altro, cioè non sarebbe più quel pensiero che ha come suo oggetto il divenire, e il divenire non potrei più pensarlo. Il pensiero del divenire dunque non può divenire, ed è anzi il fondamento in base al quale il divenire può essere affermato, perché altrimenti il divenire non potrei pensarlo. Ma io lo penso! Dunque il pensiero (il quale non diviene) del divenire è il fondamento del divenire stesso. (Nell'Estetica trascendentale, Kant dice non a caso che non è il tempo a scorrere, ma le cose che sono in esso.) Poi, da qui a pensarsi immortali è un gioco da ragazzi. Infatti, dalla nascita alla morte la vita è tutto un divenire, ma questo divenire non può manifestarsi in un pensiero che esiste solo fin tanto che fornisce una base al divenire, ma deve esistere già prima del divenire e dopo di esso, perché il passaggio dal nulla alla vita è un divenire e quindi deve accadere all’interno di un pensiero che già preesiste. E stessa cosa dicasi del divenire dalla vita alla morte, dove il pensiero deve esistere oltre la morte per poter accogliere il divenire del passaggio dalla vita alla morte, anche laddove la morte è pensata come il nulla. Ora, non sto dicendo niente di originale, perché tutto questo discorso lo fa già la tradizione filosofico-religiosa occidentale, la quale tenta appunto di risolvere le contraddizioni del divenire ergendo qualcosa di immutabile. Ma questo discorso parte dall’esistenza del divenire e la mantiene, non discutendola affatto. Quello che ho accennato di Severino intende andare oltre l’eternità di quelle sole dimensioni che l’Occidente ha pensato come eterne (Dio, l’anima, il pensiero, la razionalità, le leggi di natura, della politica, dell’etica, ecc.), per affermare motivatamente l’eternità di tutte le cose, anche delle più piccole, anche delle più fugaci. |
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01-05-2012, 10.52.26 | #26 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Citazione:
No, è Kant che sbaglia. Ti risponderò quanto prima nel thread appropriato che è naturalmente quello dove hai letto il mio post, mostrandoti che non solo Kant, Tommaso e tutti gli altri oppositori dell’argomento ontologico, sbagliano a non considerare l’esistenza come un predicato (ed anzi un predicato necessario, analitico!), ma che ciò che loro vogliono evitare (cioè che il mondo si popoli di cose esistenti semplicemente pensandole, e che non ci sia più differenza tra cose esistenti e cose inesistenti) è un problema ben piccolo rispetto a quelli che non discutono, ed anzi rafforzano con le loro obiezioni. Per citarne due, la contraddittorietà del significato di “cosa inesistente”, oltre che la contraddittorietà del caso di predicati accidentali (cioè contingenti) che è necessariamente implicata dal predicato di “possibilità”. Infatti, anche se non discutiamo del predicato di esistenza, a qualcosa può sempre convenire come non convenire un predicato accidentale, e quindi ritorna il discorso su qualcosa cui convengono predicati opposti. Questo però non vuol dire che ritorni anche la validità dell’argomento ontologico, chè anzi è uno dei modi non meno gravi per sviare l’attenzione dal problema del divenire, puntandola su qualcosa di eterno. P.S. Quella dell’ente possibile cui convengono due predicati opposti, non è la dimostrazione maggiore, ma un lato della dimostrazione che non può fare a meno dell’altro che non hai considerato. Precisamente è il lato che mostra la contraddittorietà del concetto di ente possibile, mentre l’altro lato mostra la contraddittorietà che un ente possibile appaia come possibile. Nessun lato può fare a meno dell’altro perché se un ente possibile è contraddittorio, ma appare, allora appare un ente possibile e non possibile. Così, se un ente possibile non è contraddittorio, ma non appare, non può apparire quindi la non contraddittorietà che gli si riferisce e il riferimento cade nel nulla. Benaugurati saluti a tutti. |
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02-05-2012, 12.01.31 | #27 |
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Il Seve, mi piace come parli, le tue conoscenze e la tua posizione in merito alla questione della contingenza; le mie conclusioni in merito sono sempre state uguali alle tue, e anche le argomentazioni. Tuttavia, e ciò stupisce seriamente anche me (dato che trovo una incredibile sensatezza in quel tipo di approccio), stò iniziando a muovermi verso la possibilità della contingenza.
Trovo quelle dimostrazioni logiche così fondate che per ora posso dirti solo una cosa per farle vacillare: non è impossibile che tutta quella fermezza derivi da una concezione sbagliata di cosa sia la contingenza. Probabilmente è vero, se un oggetto ha una forma, quella forma non poteva essere diversa da come è; ma questo forse non è abbastanza per distuggere la contingenza. Sei un'interlocutore perfetto per quello di cui ho bisogno, quindi aspetto con ansia che vai a scrivere sull'altro tread in che modo il concetto di esistenza può essere considerato come un predicato; ma fondamentalmente ho intenzione di creare un buon dialogo sulla possibilità della contingenza e allora intanto ti anticipo la questione principale che mi ha fatto dubitare. L'ontologia di Severino è un'ottima ontologia della necessità, arriviamo a postulare l'esistenza di un unico essere già posto per sé, esso incarna il passato il presente e il futuro; noi però siamo un pezzo di questa unità e quella totalità non possiamo vederla, così essa si presta ad essere vissuta nel modo del divenire. Ora, quello che non mi quadra in tutto questo è che non trovo la necessità della conoscenza, della vita, della coscienza. Perché se esiste il tutto già posto, poi dobbiamo esistere noi che conosciamo questo tutto e dovendolo conoscere sottostiamo al limite e dunque all'indeterminismo gnoseologico? (è indubbio che la meccanica dei quanti si stia scontrando con questi problemi e molti sono pronti ad ammettere un indeterminismo ontologico, altri no). Mi sono sempre detto che all'Essere servisse per necessità di conoscersi per essere davvero, ma ciò vuol dire che egli esiste in relazione alla conoscenza che ha di sé; ma se la conoscenza che ha di sé è parziale o indeterminata (in quanto ciò che si vede è la sitesi tra l'io e l'esterno ciò che si conosce non è una verità obbiettiva ma soggettiva), allora quella oggettività non esiste realmente. Se invece all'essere non serve di conoscersi, se la realtà non è la conoscenza, non è forse contingente la nostra posizione di esseri che esperiscono? Spostiamoci su un'altro tread però, ciao |
02-05-2012, 13.13.49 | #28 | |
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Citazione:
In ogni modo invece delle scuse preferirei che tu argomentassi contro quello che ho scritto.... che esplicitassi quello che ti avevo detto di non capire...e che anche in questo non ho capito riguardo a : su questo metodo d'indagine ecc ecc. Anch'io ero un ammiratore del pensiero di Severino che ha il pregio di essere coerente con se stesso.... però, come ha detto, pressapoco, Reale: la coerenza non è forza del pensiero, è solo coerenza. Sono nella fase critica, ora, del suo pensiero.... |
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02-05-2012, 19.10.25 | #29 | |
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Citazione:
C'è ancora un'altra possibilità: che la volontà sia ciò che intendiamo come destino autentico poiché viene a compiersi tramite quella volontà e ciò non significa affatto che quella volontà non sia fattiva, autentica. Diamo un nome ad una determinata realtà poi la facciamo combattere con un nome differente che rappresenta quella medesima realtà ed i conti ci diviene difficile farli quadrare. Erigiamo ad assoluto ciò che altro non è che il termine di una relazione. Volontà presuppone una centralità del soggetto rispetto all'insieme (dei soggetti) Destino una centralità dell'insieme (dei soggetti) rispetto al soggetto. E' la medesima visione. Sembra differente perché in un caso animiamo di potere attivo l'uomo e nell'altro caso animiamo di potere attivo l'idea stessa del potere attivo. L'astrazione è utile ma se perdiamo i punti di riferimento l'utilità di giungere ad una comprensione vanifica lo sforzo. L'autentico destino non è una realtà a sé stante. La volontà non è una realtà a sé stante. Ma modi di intendere ciò che cogliamo e a cui non sappiamo dare un nome che esprima quella medesima essenza compiutamente per davvero. E' il gioco del linguaggio che gioca attraverso ruoli mentre ciò che cerchiamo di definire esula dal rapporto di ruoli. Il linguaggio -ed i concetti sono tramite il linguaggio- si compie attraverso un tu distinto da un me; come faremo allora a giungere ad una risposta dove quel me è esattamente quel tu? Perché quando parliamo di "destino" non stiamo facendo che questo, separiamo l'idea di ciò che accade dal soggetto che sperimenta quell'accadere e non riusciamo a comprendere se sia reale l'idea di quell'accadere o l'idea del soggetto che esperisce quell'accadere. Ancora una volta credo che il rischio maggiore sia quello di perderci dietro quegli stessi concetti che andiamo creando assumendoli per autentici senza comprendere che in sé sintetizzano una visione che può solo essere in relazione e mai assoluta pertanto non possiamo attraverso ciò che si serve della relazione definire l'assoluto. Al massimo possiamo avvicinarci attraverso la negazione di ciò che non è, puro diletto che non potrà mai giungere alla fine. La medesima impasse cui ci si trova quando ancora una volta scordandoci del linguaggio che crea la visione intendiamo l'essere ed il divenire come forme differenti e non come differenti visioni poiché relative al sistema di riferimento eletto. Non riesco a spiegarmi meglio ora.. spero che qualcosa sia giunto. |
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03-05-2012, 12.19.26 | #30 | |||
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?
Citazione:
Per risponderti scelgo di rimanere in questo thread in modo da rincalzare le mie opinioni sull’argomento del “rimedio” all’angoscia dell’uomo causata dal divenire dell’esistenza. Nella tua frase che cito, credo di vedere una sintesi del discorso a cui ho obiettato perché mi sembra il concetto in base al quale hai affermato che Citazione:
Così come hai scritto, penso che si capisca che Severino è un credente in Dio, perché senza ulteriori specificazioni, ci si deve rifare al significato d’uso comune del termine “credente”, e perché penso che così abbia capito chiunque l’abbia letto. Così quando dici che “ha manifestato la sua fede in termini puramente razionali, penso che significhi che Severino possiede una fede religiosa e ha cercato il modo di esprimere gli stessi contenuti di fede in termini razionali. Dire poi che “è un estremista della fede, penso che non lasci più dubbi sul fatto che la filosofia di Severino abbia a che fare con la fede religiosa e intenda rimanere all’interno dei suoi articoli, per quanto gli vadano strette le formulazioni dogmatiche e tenti di riformarne i contenuti su basi razionali. E’ un’interpretazione che troverei azzardata, perché riformare la fede su basi razionali significa mantenere la fede come obiettivo e sfruttare la razionalità come supporto. Cosa che non accade in Severino (a parte l’eventuale fattibilità del progetto), dove invece già fin dall’inizio (cioè quando era cattolico) il suo percorso aveva come obiettivo la razionalità e sfruttava il sapere millenario della fede per portare alla luce ciò che poteva servire da supporto alla ricerca di contenuti che si mostrassero al di fuori di ogni fede. Dopo il suo strappo con la Chiesa negli anni Sessanta, non è stato più credente, né ha mai mostrato di esserlo, né tantomeno lo si può quindi qualificare come un estremista della fede perché alcune sue tesi (così come alcuni pochi termini del suo vocabolario) sembrano assomigliare a quelle della teologia cristiana. Non sono le stesse tesi con una diversa impostazione, sono proprio diverse all’origine, perché si basano su visioni diverse dell’ontologia, del mondo, dell’uomo, della vita, ecc. Sarebbe interessante mostrare che se qualche tesi del cristianesimo somiglia a qualche tesi di Severino, non è questi ad essere stato influenzato dal cristianesimo, ma quest’ultimo ad essere stato influenzato dalla “filosofia perenne”, portando alla luce nel suo linguaggio mitico qualcosa di simile a quanto poi la filosofia di Severino porterà alla luce nel linguaggio filosofico. Non si tratta di rifare il percorso di Hegel, perché i contenuti che si somigliano hanno certamente dei tratti comuni, ma poggiando su contesti differenti, sono cose diverse all’origine, non estrinsecamente. Anche se, a proposito di Hegel, è da precisare che è vero che questi dice che la religione (come l’arte) esprime lo stesso contenuto della filosofia nella forma narrativa di miti, ma questo pensiero va letto alla luce del ben più importante pensiero che la verità è nell’intero, che essendo un pensiero filosofico, determina la filosofia come la forma più appropriata di ogni contenuto. In breve, se ci fermiamo alla religione non siamo più nella verità, perché l’autentica religione (l’unica che ha lo stesso contenuto della filosofia) può essere vista come religione solo dalla filosofia. Quindi, quello che volevo spiegarti nel post precedente è che nemmeno Hegel si è mai sognato di prendere dei contenuti di fede per tradurli in termini razionali, perché, ripeto, che religione e filosofia abbiano lo stesso contenuto, per Hegel è deciso dalla filosofia. Poi scrivi che Citazione:
Mi sembra che la prima frase contraddica quella in cui dici che “egli [Severino] è un credente”, la seconda contraddice quella in cui dici che “ha manifestato la sua fede in termini puramente razionali”, e con la terza mi sembra che tu abbia messo in rilievo la necessità di considerare i contenuti della fede (la fides quae creditur) al di là del loro presentarsi come fedi (fides qua creditur). Non ho ben compreso il motivo dell’ultimo punto, ma azzardando un’ipotesi, direi che serviva di rincalzo al fatto che Severino ha preso contenuti di fede (la fides quae creditur), e ne ha cambiato semplicemente la forma. Continuo a dire invece che i contenuti della fede che sembrano assomigliare a delle tesi di Severino, non sono gli stessi con un’altra forma, ma sono diversi all’origine, perché è all’origine del loro significato la loro collocazione in contesti diversi ed addirittura opposti. Così è per qualunque contenuto di fede che si voglia astrarre dal presentarsi come fede, e quindi voglia astrarsi da quel contesto che è ciò che gli dà senso prima di ogni altra cosa. La Chiesa distingue l’atto di fede dal suo contenuto perché intende salvaguardare quest’ultimo nonostante e proprio perché non appare come vero. Ma dato che il tentativo di salvaguardia è basato anch’esso sulla fede, anche quella distinzione segue il medesimo destino. Perché se non fosse basato sulla fede, la salvaguardia del contenuto apparterrebbe alla ragione e il contenuto non avrebbe motivo di essere salvaguardato. Ad esempio, la divinità di Cristo è un contenuto tenuto per vero, ma che non appare affatto come tale. E’ un contenuto di fede, e già per questo appartiene all’errore. Senonchè, gli si dà una seconda possibilità astraendolo dal contesto di fede e si dice che forse può essere vero se manca una precisa indicazione contraria da parte della ragione e, nel caso della Chiesa, che è sicuramente vero se è un contenuto rivelato da Dio. Dio non può mentirci, quindi anche se non vediamo la verità di quel che ci rivela, dobbiamo fidarci della sua Parola perché è Dio. Tommaso infatti dice nel modo più eloquente: “Non è lecito ritenere che, essendo così evidentemente confermato da Dio [tam evidenter], ciò che viene affermato per fede sia falso” (Somma contro i Gentili, I, 7). E’ evidente invece che non è evidente che alcun contenuto provenga da Dio. Ed è evidente inoltre che un contenuto di fede “confermato” dalla ragione, è un contenuto diverso come diversi sono i contenuti della non verità “confermati” dalla verità. La scienza contemporanea invece è più coerente (ed è più coerente anche del modo in cui Galileo pensava alla scienza). Infatti, la scienza parte da ipotesi (cioè da contenuti che non essendo dimostrati si presentano come fedi), ma non intende provare che siano vere (anche se molti sprovveduti lo pensano ancora) perché anche gli sprovveduti ormai sanno che nessun numero di prove sancirà mai la validità definitiva di una tesi (e soprattutto di una tesi contenuta in un’ipotesi, cioè in una fede). Così le “conferme” alle ipotesi hanno un valore puramente interlocutorio finchè le ipotesi non saranno smentite, e quindi le ipotesi di partenza rimarranno ipotesi (cioè non verità, fedi) in eterno. Per Galileo invece, le conferme di un’ipotesi facevano delle tesi scientifiche delle verità assolute. Ed è per questo che si arrischiò a difendere ciò che credeva che la ragione gli mostrasse contro la lettera delle Scritture, ed affermò che ad essere reinterpretate nel loro senso dovessero essere le Scritture e non le sue teorie. |
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