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Vecchio 30-01-2008, 16.36.23   #21
visechi
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Riferimento: Può il dubbio definire la Certezza?

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Originalmente inviato da Mirror
Certamente. Ma non è detto che ogni individuo non risponda diversamente alla condizione data.
C'è gente che in condizioni difficilissime, con handicap di ogni genere, sa vivere in modo più sereno e appagato di altri che pur vivono nell'opulenza, senza problemi economici, fisici o ambientali. Ciò potrebbe essere anche la dimostrazione che ciò che conta, aldilà di casi estremi, è lo stato di coscienza di ognuno che fa la differenza.
In cosa consisterebbe questa differenza .sostanzialmente?
Secondo me, nella pienezza spirituale, non necessariamente religiosa, che un individuo porta in sè, nella saggezza acquisita, la quale gli fa trovare un senso profondo nell'esistenza, comunque sia.
Cosa che non sempre la mera cultura razionalistica, filosofia speculativa, sa trovare, offrire all'uomo.




Mi spiace, non sono d’accordo. Tu tendi a confondere due ambiti o più ambiti che dovrebbero restare separati, e qualora dovessero convergere in un unico paradigma da sottoporre ad analisi, occorrerebbe che il paradigma risultante dalla commistione di psicologia, filosofia e spiritualità fosse indagato con maggior senso critico e più approfonditamente.

Il discorso, se dovessimo seguire il filo logico da te proposto, si espanderebbe oltre ogni consentito limite (consentito dallo spazio concessoci dal forum, ovviamente). Pur tuttavia, ben conscio dell’impossibilità di rendere un quadro sufficientemente esaustivo alla problematica da te introdotta, provo a sintetizzare al massimo il pensiero che andrò a sviluppare, introducendo, a mia volta, i concetti di ‘senso’ e ‘significato’. Non starò qui a perdermi nell’intrico dei diversi contenuti semantici che spesso sono attribuiti a questi due sostantivi, dando per scontato che almeno su questo piano sia possibile una convergenza di vedute… dò quindi per acquisita l’intesa su questo aspetto, diversamente la discussione si tradurrebbe in una lunga e tediosa dissertazione di glottologia e filologia che ci allontanerebbe troppo dall’obiettivo.

Dicevo ‘senso’ e ‘significato’, se me lo concedi, per l’economia della discussione, solo per quello, pur con le dovute riserve, compendio in un’unica definizione i due termini e faccio convergere il loro contenuto semantico in un’unica espressione, arbitrariamente prescelgo il termine ‘senso’.

Sempre che siano accettati, abbiamo forse stabilito alcuni concetti di base, su questi mi appresto dunque a sviluppare il mio pensiero che tanto striderebbe con quanto hai voluto suggerirmi tu nell’ultima replica.

La vita, pur non avendo in sé alcun ‘senso’, essendo totalmente priva di qualsivoglia connotazione morale (amorale) – questo, credo, potrai condividerlo -, ne annette a chi in essa è avviluppato, sulla scorta della qualità dell’esistenza che gli prospetta e gli riserva. Allo stesso tempo, pur astrattamente o forse teoreticamente, ma si tratta di un’astrattezza ben cogente e pregnante nell’esistenza di ciascuno di noi, la Vita si colora o si riempie di senso in relazione alle qualificazioni attinte all’esperienza individuale, quindi soggettiva. E’ presumibile che un’esistenza serena colori di roseo l’intera Vita, viceversa una perturbata, dileggiata dagli eventi, adombra la Vita, colorandola con tinte fosche e plumbee. La conversione del ‘senso’, nella metafora del colore dal roseo al plumbeo, altro non sarebbe che la conversione della sensazione o percezione individuale. Ma la Vita in non ha in sé queste connotazioni di carattere moralistico, restando identica a se stessa e non divenendo mai né rosea, né plumbea. Chi dà senso alla Vita è la nostra inclinazione a inserire tutto entro schemi adusati che ci agevolano la decodifica e la descrizione del mondo circostante. Pur tuttavia, quell’esistenza che applica un ‘senso’ alla Vita – quel particolare ‘senso’ – è senza dubbio complessivamente serena o agitata… molto dipende dalla predisposizione individuale a leggere in un modo anziché in un altro il medesimo evento, tanto di più dipende però anche dal tipo d’evento che ti coinvolge: una catena ininterrotta di lutti dolorosi, è certamente meno piacevole di una catena lunghissima di colpi di fortuna, quali nascite, vincite al lotto, gratificazioni personali. Eppure anche questi eventi in sé non hanno un loro intrinseco attributo morale, nondimeno potrai negare che siano cogenti e, in una buona misura, decisivi nel giudizio complessivo della singola esistenza e della Vita in genere. La neutralità morale della Vita svapora, senza meno, nella relazione, proprio perché la Vita si connota, appunto,quando entra in relazione con colui che vive, ovverosia l’uomo. Va da sé, se condividi questo presupposto, che il ‘senso’ che ciascuno di noi attribuisce alla propria esistenza ed alla Vita in generale altro non sia che l’essenza dell’uomo oggettivata e portata al di fuori dell’uomo; non più dunque vissuta come essenza a se stante, bensì vissuta come un’alterità di se stessa. La morale della Vita è, giustappunto, la morale dell’uomo oggettivata. Non si tratta dunque di un diverso stato di coscienza, bensì di un diverso grado d’obnubilazione: tanto è maggiore questo tasso, quanto minore sarà la percezione del vacuo e del non-sense della Vita, e viceversa.
L’evento, in sé neutro, non determina una conclusione morale per via proprio dell’ottundimento, oppure quest’ultimo è utile e sufficiente per affievolirne la percezione. La cifra e la misura che permettono di apprezzare praticamente il livello d’ottundimento responsabile della differente gradazione di ‘senso’, è presumibilmente il sentimento, che a sua volta e in buona misura si forgia in dipendenza proprio degli eventi che coinvolgono l’individuo. Il ‘senso’ attribuito alla propria esistenza in particolare ed alla Vita in generale è la risultante del complesso processo di interrelazione che s’instaura fra soggetto e mondo ed è anche il punto di convergenza magmatico di forze centripete e centrifughe che sollecitano l’animo dell’uomo.

Ritornando al tuo esempio, da questa frettolosa mia esposizione, potrai ben comprendere quanto sia ininfluente la sensazione del singolo rispetto alla precisa percezione del dolore e del patimento che accomuna, in un unico lugubre canto di morte, tanti popoli e tante genti, gettate sotto un sole che arde, costrette per caso o per volontà superna ad abitare coste lambite da mari furiosi che s’infiammano allo spirare di venti gelidi e tetri che erompono da quell’unico cielo che a tutto e a tutti fa da cappotto… per alcuni caldo e confortevole come il cachemire, per altri, invece, troppo stretto e soffocante il cui tessuto è una lisa camiciola insufficiente a garantire il necessario riparo.

Ciao
visechi is offline  
Vecchio 30-01-2008, 18.03.11   #22
freedom
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Riferimento: Può il dubbio definire la Certezza?

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Originalmente inviato da visechi
Non si tratta dunque di un diverso stato di coscienza, bensì di un diverso grado d’obnubilazione
Non pretendo di spendere un'opinione esaustiva e definitiva, tuttavia.......bè tuttavia stavolta sono d'accordo con Mirror: prendere atto, rendersi consapevoli di una realtà è un conto; pensarci continuamente è un'altra cosa.

Se la circostanza è spiacevole poi.........allora diventa valido il detto: "la lingua batte dove il dente duole".

Non si tratta di obnubilare, ottundere, insomma di fare gli struzzi ma di prendere atto che una realtà è fatta in un certo modo e che noi non possiamo farci nulla. O quasi.

E' dunque saggio essere sereni, ottimisti, addirittura allegri. Se ci si riesce........

eh certo se ci si riesce......infatti, mentre scrivo......mi viene in mente quel tale: Don Abbondio si chiamava?

Cosa diceva pure? .....ah, sì: "il coraggio se uno non ce l'ha mica se lo può dare".

Come tutte le altre caratteristiche aggiungo io.............si prende quel che viene amici miei.........
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Vecchio 30-01-2008, 18.42.34   #23
Noor
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Riferimento: Può il dubbio definire la Certezza?

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Originalmente inviato da visechi
Il ‘senso’ attribuito alla propria esistenza in particolare ed alla Vita in generale è la risultante del complesso processo di interrelazione che s’instaura fra soggetto e mondo

potrai ben comprendere quanto sia ininfluente la sensazione del singolo rispetto alla precisa percezione del dolore e del patimento che accomuna, in un unico lugubre canto di morte, tanti popoli e tante genti
Al di là d'ogni senso..c'è solo il Battito della Vita.
...Senso non-sense...
Influente o ininfluente..per chi?
Uno o tanti..ma cosa importa rispetto al non-senso?
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Vecchio 30-01-2008, 19.20.58   #24
Mirror
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Riferimento: Può il dubbio definire la Certezza?

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Originalmente inviato da visechi
Mi spiace, non sono d’accordo. Tu tendi a confondere due ambiti o più ambiti che dovrebbero restare separati, e qualora dovessero convergere in un unico paradigma da sottoporre ad analisi, occorrerebbe che il paradigma risultante dalla commistione di psicologia, filosofia e spiritualità fosse indagato con maggior senso critico e più approfonditamente.

Pur apprezzando la profondità della tua visione filosofica, anch'io non sono d'accordo con te. Proprio sulla sostanza del tuo discorso. Anzi, su molti punti ho una lettura opposta alla tua.
Secondo me, ci possono benissimo essere due individui che, pur immersi in una stessa realtà, sia sociale che psicologica, possono avere un approccio e viversi l'esistenza in modo totalmente diverso. Gli occhiali coscienziali che potrebbero o che danno il senso alla loro vita saranno determinanti per come vedranno e interpreteranno il mondo e la dialettica delle cose, degli eventi con i quali si confronteranno.. Questo aldilà della soggettività che questi occhiali psicologici e culturali possono avere nel dar colore all'esistenza dell’individuo. Per me, chi riesce a godere con spirito positivo la Vita data, così com'è, qualunque sia il destino in cui possa venir coinvolto, in maniera innocente, senza pretese e aspettative, è gratificato da una serenità senza pari.
Ciò può essere esempio o specchio alla stesso compagno che nelle medesime condizioni vivere frustrato e nella sofferenza psicologia. Questo semplice essere diverso mostra un’altro modo di risposta alle situazioni, ed è già di per sé aiuto. L’aiuto operativo e compassionevole è scontato: chi è appagato dentro non può esimersi d’aiutare il suo simile. Non è capace d’ignorare il sofferente.
Colui che guarda e si arrende alla Vita così com'è, in totale Fiducia del mistero che è chiamato a vivere, scopre una Grazia che gli illumina ogni situazione, per quanto dolorosa e sofferente sia. In questo senso non trova il significato in una qualche forma di logica, ma torva un senso di gratitudine inesplicabile, che non ha ragione nel mero intelletto, ma solo in regioni profonde e insondabili che dimorano nella Essenza del suo Essere. Da questo luogo non sorge nessuna richiesta di giustizia, di equanimità, ma solo un senso di unità trascendente, impersonale, di bellezza ed equilibrio superiore, dove anche la morte della propria persona non incute più terrore, né angoscia. Ciò gli permette di non farsi sopraffare dagli orrori che può vedere intorno, ma anche di cogliere le meravigli che gli stanno lontano, accanto e dentro. Il solo sentirsi vivo lo vede come un dono e un miracolo continuo.
Poi, non so perchè a qualcuno ciò accade e ad altri no. Qui potrei risponderti che il mistero della Grazia forse si offre a chi è disposto ad accoglierla perchè ha rinunciato a comprendere il senso e il significato del mistero dell’esistenza, e che si è arreso all'Ignoranza… che poi scopre Sapiente.

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Vecchio 30-01-2008, 21.05.32   #25
daniele75
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Riferimento: Può il dubbio definire la Certezza?

Il poco conoscere "erroneo" che comprende l'immenso,che stupidità!
Arrendetevi é si presenterà!
Il dubbio e la certezza perderanno valore,spariranno!potranno valere qualkosa solo nella mente pensante ancora ingarbugliata nel "voglio conoscere".
daniele75 is offline  
Vecchio 31-01-2008, 10.03.30   #26
visechi
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Originalmente inviato da Mirror
Secondo me, ci possono benissimo essere due individui che, pur immersi in una stessa realtà, sia sociale che psicologica, possono avere un approccio e viversi l'esistenza in modo totalmente diverso.


Dubito ci sia qualcuno che possa negare quest’evidenza, basta guardarsi intorno. Lo stesso evento produce effetti diversi su ciascun individuo coinvolto, lo sanno benissimo anche le aule giudiziarie. Il fulcro del mio ragionamento non stà in questa evidenza, bensì nel fatto che il prodotto nell’animo umano dell’accadere di un evento è la risultante di un complesso gioco di rimandi e acquisizioni che si sviluppa nella più totale incoscienza. I costituenti particolari del fatto s’insinuano in un substrato inconscio, amalgamandosi con quanto ivi è depositato, fino a sedimentarsi. Vanno così a costituire una nuova molecola del nostro inconscio, il quale si accresce per effetto proprio dell’esperienza vissuta. I fattori vettoriali che producono la risposta alla circostanza sono fondamentalmente inconsci, il loro giungere alla superficie per presentarsi alla coscienza non è frutto di un’elaborazione cosciente, mentre è invece cosciente l’espressione o la risposta che inducono. Non è quindi la coscienza a suggere dall’evento i costituenti elementari. La coscienza fornisce una risposta la più coerente possibile con gli impulsi inconsci a lei non noti, ma suggeritigli dal profondo in un labile fremito. I desideri e le speranze – che in estrema sintesi oggettivano la risposta - sono anch’essi una risposta della coscienza alla necessità dell’inconscio di dialogare in qualche modo con l’esterno. Il profondo emette dei segnali captati dalla coscienza la quale li rielabora in forma intelligibile traducendoli in speranza e desiderio – anche rabbia, noia, angoscia, spleen… -. Le emozioni che percepiamo sono così la risposta mediata dalla coscienza all’urgenza dell’inconscio di trovare una via per esprimere se stesso. Spesso, infatti, accade che si provi una nostalgia indefinita, una rabbia non immediatamente collegabile alla situazione, una noia intima non compiutamente decodificabile… sono tutti frutto dell’avvenuta elaborazione di segnali, molto labili, che l’inconscio invia e captati dalla coscienza. La risposta individuale ad una circostanza, ad una situazione perdurante, ad uno status, non è altro che la rielaborazione operata dalla coscienza di segnali sottaciuti dell’inconscio. La psicoanalisi si arroga l’ingrato e improbo compito di leggere questi segnali nella loro essenza più pura, cioè bypassando la mediazione della coscienza ed andando a scavare nel corpo vivo del magma emotivo di ciascuno di noi, ovvero nei sentimenti.
L’ottundimento cui facevo riferimento nel mio post precedente, è cifra e misura dell’anestesia, più o meno incisiva, del sentimento che non è più in grado di far udire la propria voce, ancorché mediata dalla coscienza, o che si esprime sempre più flebilmente. E’ il caso, per esempio, della consuetudine al dolore, dell’abitudine per via della professione svolta o per altri motivi. Al dolore ci si abitua, quest’abitudine, talvolta – fortunatamente non sempre -, ottunde il sentimento, lo rende aduso al patire altrui. Le immagini televisive, per esempio, che introducono nelle nostre case eventi remoti, alla lunga rischiano di abituare al dolore, rendendo avvezzo lo spettatore alla sofferenza. L’anestesia del sentimento può essere una conseguenza devastante, non solo per il singolo, ma per l’intera società. Naturalmente tutto ciò non sempre è valido in ogni caso. Questa parziale analisi non è esaustiva, non spiega completamente, per esempio, la differente risposta che ciascun individuo elabora in relazione a condizioni di vita ‘deficitarie’. Ma la combinazione degli effetti prodotti dal carattere individuale (sostanzialmente connaturato, anche se nel corso dell’esistenza si plasma e modifica) con quelli prodotti dalla risposta emotiva elaborata dalla coscienza, penso si avvicini molto a fornire una spiegazione sostenibile ai differenti comportamenti rilevabili nei singoli individui in relazione alla medesima condizione esistenziale.

Ciao
visechi is offline  
Vecchio 31-01-2008, 10.47.04   #27
Noor
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Originalmente inviato da visechi
Le emozioni che percepiamo sono così la risposta mediata dalla coscienza all’urgenza dell’inconscio di trovare una via per esprimere se stesso. Spesso, infatti, accade che si provi una nostalgia indefinita, una rabbia non immediatamente collegabile alla situazione, una noia intima non compiutamente decodificabile… sono tutti frutto dell’avvenuta elaborazione di segnali, molto labili, che l’inconscio invia e captati dalla coscienza. La risposta individuale ad una circostanza, ad una situazione perdurante, ad uno status, non è altro che la rielaborazione operata dalla coscienza di segnali sottaciuti dell’inconscio. La psicoanalisi si arroga l’ingrato e improbo compito di leggere questi segnali nella loro essenza più pura.
Hai detto bene..la psicoanalisi si arroga il diritto..
La meditazione e l'autosservazione consapevole invece li legge..
Avevo già detto delle proiezioni inconsce ..di cosa leggiamo tramite questa mediazione.
Le lenti rosa..o grigie..
Ecco che nasce allora l'interpretazione della realtà..
..che non è la Realtà che v'è quando l'ego si mette da parte.
Sì,già detto..
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Vecchio 31-01-2008, 13.19.51   #28
Mirror
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Questa parziale analisi non è esaustiva, non spiega completamente, per esempio, la differente risposta che ciascun individuo elabora in relazione a condizioni di vita ‘deficitarie’. Ma la combinazione degli effetti prodotti dal carattere individuale (sostanzialmente connaturato, anche se nel corso dell’esistenza si plasma e modifica) con quelli prodotti dalla risposta emotiva elaborata dalla coscienza, penso si avvicini molto a fornire una spiegazione sostenibile ai differenti comportamenti rilevabili nei singoli individui in relazione alla medesima condizione esistenziale.


Se ci guardiamo attorno vediamo l'infelicità che regna nel mondo, attorno a noi e dentro di noi. Sappiamo spiegarcene il motivo? Noi possiamo dire: la solitudine, l'oppressione, la guerra, la cattiveria, l'ateismo, le religioni... E ci sbagliamo, probabilmente. Forse una sola è la radice dell'infelicità: le false certezze che abbiamo in testa, quelle certezze talmente diffuse e difese che non abbiamo mai creduto di doverle mettere in discussione. Per queste certezze devianti noi vediamo il mondo e noi stessi da una prospettiva sbagliata. I nostri schemi mentali sono così costringenti, e la pressione che la società esercita su di noi è così forte che noi siamo come obbligati a vedere il mondo in questa maniera distorta. Non c'è via di scampo, proprio perché non ci viene neppure il sospetto che il nostro modo di vedere sia miope, che il nostro modo di pensare sia distorto e che le nostre certezze siano false. Guardiamoci ancora attorno e vediamo se possiamo trovare una sola persona autenticamente felice, libera da paure, incertezze, ansietà, tensioni e preoccupazioni: a essere fortunati, ne troveremo pochissimi.
Noi però siamo stati programmati anche a vivere senza sospetti, senza dubbi, programmati a fidarci delle certezze che sono state seminate in noi dalla nostre tradizioni, dalla nostra cultura, dalla nostra società e dalla nostra religione. E se non ci ritroviamo felici, noi siamo stati addestrati anche a compiangerci, e non a incolpare il nostro modo di pensare, i nostri modelli, le nostre certezze culturali ed ereditarie.
A rendere ancora più tragica questa situazione, c'è poi il fatto che molta gente ha subito un tale lavaggio del cervello che non si rende neppure più conto di essere infelice: così come un uomo che sogna non si rende conto che sta sognando.
Per questo è necessario portare ciò che è inconscio, ciò che è orami depositato nella parte più oscura in noi, e che determina le nostre reazioni, emozioni e pensieri, a livello conscio. Per poi passare da questo tipo di coscienza alla Consapevolezza che è oltre anche le identificazioni di ciò che abbiamo portato alla luce..
Questo implica un viaggio interiore. E' necessario, se vogliamo liberarci dai condizionamenti interiori ed esteriori.
Poi si deve imparare anche ad amare se stessi; questo è un requisito fondamentale, che è assente in tutto il mondo. Per questo il mondo è in preda a una tale angoscia. Tutti cercano di amare, ma è impossibile amare, ne mancano le basi, i presupposti.
L'angoscia, la sofferenza... possono diventare delle porte verso la serenità. Qualcuno ha detto: "Benedetti coloro che sono abbastanza sfortunati da conoscere l’angoscia, benedetti coloro che sono in angoscia, perché possono essere risvegliati." Usiamo dunque la nostra angoscia come una forza per risvegliarci, perché quando siamo comodi tendiamo a dormire, quando siamo scomodi le possibilità di risvegliarci sono maggiori. Ricordiamoci continuamente che il mondo in cui siamo è un fenomeno momentaneo. Nelle più riposte pieghe del nostro essere noi sappiamo che tutto questo è vero, ma ugualmente continuiamo a sprecare i nostri sforzi e le nostre energie alla ricerca di un qualcosa che già sappiamo che non ci potrà rendere felici.

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Vecchio 31-01-2008, 15.00.27   #29
RAPHAEL
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"MIRROR" L'angoscia, la sofferenza... possono diventare delle porte verso la serenità. Qualcuno ha detto: "Benedetti coloro che sono abbastanza sfortunati da conoscere l’angoscia, benedetti coloro che sono in angoscia, perché possono essere risvegliati." Usiamo dunque la nostra angoscia come una forza per risvegliarci, perché quando siamo comodi tendiamo a dormire, quando siamo scomodi le possibilità di risvegliarci sono maggiori. Ricordiamoci continuamente che il mondo in cui siamo è un fenomeno momentaneo. Nelle più riposte pieghe del nostro essere noi sappiamo che tutto questo è vero, ma ugualmente continuiamo a sprecare i nostri sforzi e le nostre energie alla ricerca di un qualcosa che già sappiamo che non ci potrà rendere felici.


Quindi l'Angoscia del Mondo diventa un rimedio Spagirico contro il condizionamento creato dal Re del mondo per addormentare e soggiogare gli esseri di questo pianeta. In Gassho R.
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Vecchio 31-01-2008, 15.55.35   #30
visechi
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Forse una sola è la radice dell'infelicità: le false certezze che abbiamo in testa, quelle certezze talmente diffuse e difese che non abbiamo mai creduto di doverle mettere in discussione. Per queste certezze devianti noi vediamo il mondo e noi stessi da una prospettiva sbagliata.

[...]

Qualcuno ha detto: "Benedetti coloro che sono abbastanza sfortunati da conoscere l’angoscia, benedetti coloro che sono in angoscia, perché possono essere risvegliati."


Giuro che non lo faccio apposta! Non sono d’accordo! Il senso di caducità, d’impermanenza, di vacuità, è la costante di un’assenza di costanza (adoro i giochi di parole).

Mi spiego meglio:
L’uomo è un animale sociale, che per sviluppare la propria personalità e, almeno in una certa misura, affermarla, avverte in sé il bisogno cogente di rapportarsi con il prossimo; non solo, è anche immerso in un ambiente sostanzialmente estraneo, non del tutto ospitale, che deve plasmare in base alle proprie intime capacità e forze fomentate dalla necessità, dall’urgenza, dal bisogno. Ciò è cagione d’incertezza. La disputa che si apre nell’orizzonte esistenziale di ciascuno di noi, nel nostro profondo, non rasserena, non autorizza a ritenere una certezza in ordine all’inviolabilità dei traguardi raggiunti, sempre parziali, mai definitivi e soprattutto mai consolidati. Tutto ciò non permette l’acquietamento. L’individuo è un ente dinamico, sballottato contro due bordi opposti che lo costringono e, in buona parte, lo determinano. A tutto ciò si aggiunge anche la forza centripeta proveniente dall’interno, dal proprio intimo, sostanzialmente inconscia che tende ad attrarre e imporsi: l’uomo non si relaziona solo con l’esterno, con altri individui della stessa specie e con l’ambiente, ma entra in contatto con se stesso, con il proprio profondo, anche se in maniera più o meno inconscia e mediata. E’ così sottoposto a gradienti che non può controllare del tutto né definire a priori. L’incertezza – non la certezza – è dunque la costante del nostro orizzonte esistenziale… incertezza che si esprime riversandosi nella omnicomprensiva sensazione di caducità, d’angoscia, di spleen. C’è chi riesce ad ottundere e silenziare questa costante, che come un’ombra accompagna la nostra vita, c’è, invece, chi vuol testardamente guardarla dritto negli occhi e sfidarla. La sfida è l’azione eroica, l’unica vera, che all’uomo è consentita, e su questo tema la Grecia classica era maestra e narratrice. La tragicità classica è – sintetizzando al massimo, forse anche semplificando eccessivamente – proprio la sfida che l’uomo lancia all’instabilità e volubilità del nostro centro rispetto al mondo, e di quest’ultimo rispetto all’individuo. La sua fuggevole essenza non si piega alla nostra volontà e necessità di addomesticarla.

L’angoscia, per riprendere il detto che hai citato, è il segnale di questo stato di cose, è lo sbocco, l’emergere dell’instabilità prodottasi fra il nostro intimo e l’altro polo della relazione. In questi termini è benedetta, perché prenderne coscienza è, o può essere, la molla che induce alla sfida… ma non v’è farmaco spirituale che possa dirimere l’eterna disputa, perché la Vita stessa, caro Mirror, è disputa, non quiete.

Ciao
visechi is offline  

 



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