Riferimento: il mito della caverna: una critica
Prendere lo spunto da un punto canonico della filosofia greca per ricamarvi attorno tanti intelligenti giri di pensiero e parole può essere certo un valido esercizio, degno di quegli esercizi istituiti da Socrate per smuovere le meningi dei giovani greci. Però Socrate a un certo punto richiamava all’ordine e tirava le fila di una chiacchiera che poteva divenire melensa. E allora perché non interrompere il gioco e cercare di capire perché quel mito della caverna è diventato uno snodo indimenticabile ma anche una provocazione per la filosofia occidentale?
L’immagine della caverna rappresenta l’ascesa della mente da un mondo di sole immagini al mondo delle cose reali (che, almeno per il Platone di allora era il mondo delle idee) e infine all’intuizione del Bene (il sole). Cerca cioè di far capire con suggestiva efficacia come potrebbe attuarsi per noi, schiavi di opinioni e di false speranze, quello scoprimento della verità, contenuto nel termine greco “aletheia”, che Heidegger avrebbe, dopo migliaia d’anni, riscoperto e svelato. Eppure proprio la miracolosa evidenza che Platone dà a questo evento, questo “scoprimento” che è al centro della filosofia greca e della filosofia d’ogni tempo, è ciò che lo rende in qualche modo distante da noi, da quella coscienza storica che condiziona ormai il nostro sapere. La verità, per noi, non può essere che una ricerca, senza presupposti e forse senza confini.
Ed è una conquista o un presagio di questa evoluzione del concetto di verità – che non è più qualcosa di iconico, essenziale e perfino immobile da raggiungere attraverso una dialettica che a un certo momento trova il suo compimento – ciò che determina nel profondo l’opposizione di Aristotele, il quale riplasma l’idea risolvendola in un susseguirsi e sintetizzarsi di movimento e di fine, di potenzialità e attualità. Dunque Platone può apparire un precursore del cristianesimo proprio perché il momento della scoperta è per lui simile a un’illuminazione perfino improvvisa - e non un disvelamento che può occupare un’intera vita o un’intera umanità - e può quindi evocare l’idea religiosa di rivelazione, ma è anche ciò che allontana da Platone Aristotele, che vede le lunghe catene di cause terminare in un Dio che non è il solare Bene platonico, ma che, al di là delle stelle, vibra fra intelletto possibile e attuale, fra pensiero degli esseri e pensiero di sé, fra prima e ultima causa, cuore e cervello di un universo che sembra espandersi per rinchiudersi in sé, e solo a tal patto, cioè raccogliendo in un punto l’idea d’infinito, Aristotele può divenire il nuovo maestro della filosofia cristiana, sostituendo Platone o meglio abbandonandolo ai mistici….Ed ecco spiegato come una doppia figura della verità abbia attraversato la filosofia medievale arrivando fino a quella moderna: fino a Heidegger, che dal concetto di aletheia aristotelica torna alla fine a quello platonico dell'Essere che s’infrange negli enti, in essi oscurandosi per svelarsi nella sua maestà.
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