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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere. |
27-12-2013, 20.05.22 | #32 |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
@ Maral
Dice ancora Camus ("su una filosofia dell'espressione" - si tratta di uno scritto inedito; non credo lo troverai facilmente): "il linguaggio non è un problema metafisico, ma addirittura la radice di ogni metafisica. Ogni sistema filosofico è in fin dei conti una teoria del linguaggio. Ogni interrogazione sull'essere mette in questione il potere delle parole". Successivamente, Camus cita molto a proposito Nietzsche, il quale afferma: "la conoscenza e il divenire si escludono". Bisogna dunque, commenta Camus, abbandonare ogni speranza di conoscenza, se si vuole vivere nel divenire. Qui riprendo quanto dicevamo tempo addietro (post su Severino): Nietzsche dice così perchè nel flusso continuo delle cose non è possibile dire: "questo è, quest'altro non è". Lo diciamo, appunto, "per vivere" (questa è l'esatta espressione di Nietzsche), ma non lo potremmo secondo un'ottica per cui le cose "divengono" incessantemente. Conoscere vuol dire conoscere un qualcosa di interpretato, quindi un qualcosa che "già", in radice, diviene. L'in-diveniente, l'origine dell'interpretazione, non può essere conosciuto. Perchè la conoscenza, appunto, si situa necessariamente nel divenire. Ma è solo una finzione ("per vivere"), perchè in realtà conoscenza e divenire non possono non escludersi (specifico, a scanso di equivoci, che queste elucubrazioni sono farina del mio sacco...). Ecco perchè Camus dice che ogni interrogazione sull'essere mette in questione il potere delle parole. Nulla potremmo dire sull'essere, a meno di (e questo lo dice Camus) non riferirci, come i Presocratici, ad un: "universo immobile e trasparente". Dunque la conoscenza: la conoscenza non può essere altro dalla conoscenza di ciò che è, cioè dalla conoscenza dell'essere. Ma ciò può solo voler dire che la conoscenza è impossibile, perchè "conoscere" vuol dire essere già NEL divenire (nell'interpretato). B.Parain, che Camus commenta, dice che la "soluzione" di Platone è: "la vittoria delle parole nella teoria delle idee". Perchè le parole abbiano un senso, dice Parain, occorre che questo senso venga loro da un altrove rispetto al mondo fisico, così fugace e mutevole. E', come noto, il ripristino dell'essere NEL divenire. Ma la riflessione di Parain è comunque degna di nota, perchè è solo l'Essere a dare senso alle parole. ciao (e scusa il "disordine", ma ho poco tempo e questi argomenti vorrebbero riflessione e lucidità) |
28-12-2013, 12.30.48 | #33 |
Ospite abituale
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Oxd., rispondo ai tuoi due ultimi post.
Secondo me c'è un piccolo errore di fondo in queste riflessioni sull'interpretazione e la verità. Da un lato si presenta il contenuto mentale (fenomeno o interpretazione) quale rapporto in divenire tra l'Io e l'esterno, dall'altro si dimentica che gli enti esterni di per sé sono rapporti (sintesi di oggetti e contesti) divenienti. Non si può dire che la mia visione della realtà rappresenti qualcosa che non c'è o di ontologicamente subordinato a qualcos'altro; la mia visione della realtà è la realizzazione d'un campo di senso cosa che ogni situazione nominabile ed esistente è. In altre parole si dice di star "interpretando" l'oggetto "sfera" davanti a noi senza rendersi conto che l'oggetto sfera in questione è esso stesso un fenomeno (nel senso di qualcosa di relativo ad un contesto). L'errore di cui parlo è la ricerca d'un senso degli enti al di fuori dei contesti e dei campi di senso, è per questo che ci sentiamo "illusi", perché crediamo che le nostre siano interpretazioni di cose in sé, mentre i nostri fenomeni sono originariamente reali quanto qualsiasi altro evento, solo ci parlano della realtà da un certo punto di vista mentre senza punti di vista, in generale, la realtà non avrebbe determinazione. Dici che stando nel divenire la conoscenza sarà sempre fallace, ma come potresti riferirti ad una realtà che già di per sé è nel mutamento senza che la tua conoscenza (che io reputo materia) lo sia? Poi, certo, non potremo mai descrivere un oggetto rendendone perfettamente l'apparire perché la nostra descrizione è diversa da lui, altrimenti non sarebbe la sua descrizione ma lui; ma non credere che una visione a-temporale della realtà sia in grado di parlare del vero, perché i nostri fenomeni sono la verità (sono reali) e come tutte le altre cose sono nel tempo. Detto questo devo rendere conto di qualcosa di più complesso, cioè il fatto che la nostra coscienza punti a descrivere gli enti da punti di vista diversi dal suo. Questa strategia deve essere propedeutica alla sopravvivenza, poiché altri scorci sul reale devono essere veri come il nostro ed abitanti dello stesso "luogo" ("il mondo delle cose reali") influenzandoci (delimitandoci). Quando cerchiamo di descrivere il mondo da un punto di vista diverso finiamo per parlare di alcuni eventi e possiamo, dunque, avvicinarci al senso di questi eventi relativi (quanto veri) -chiamo "relativo" ciò che è vero solo in un certo contesto"-. L'importante è non credere che la nostra descrizione sia totalmente avulsa da ciò che indica in quanto soggiacente a principi trascendentali della conoscenza trascendenti rispetto alla realtà in sé (per esempio quello di soggiacere ad un campo di senso). Allora credere che ad ogni corpuscolo sia associata un onda risulterà una descrizione più veritiera della realtà relativamente al modo in cui i corpuscoli si influenzano, ma non relativamente a ciò che i corpuscoli sono di per sé. Puoi, infatti, avvicinarti o meno alla comprensione di ciò che provo (perché effettivamente adesso sto provando qualcosa), cioè puoi ben descrivere la realtà per ciò che appare a me (per esempio composta da una stanza e uno schermo di computer), ma non puoi descrivere una realtà in sé che prescinda dal mio punto di vista o da quello di qualcos'altro, che non sia relativa ad un contesto. |
28-12-2013, 16.52.50 | #34 | |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Citazione:
La filosofia del linguaggio e la tradizione analitica all'inizio cercano un "linguaggio ideale" con la scuola viennese che si scontrerà con il "secondo" Wittgenstein del "linguaggio ordinario, comune". Altro importante aspetto fu l'incontro della scuola fregeana con Carnap e la scuola pierceana con Morris, la semiotica. A quel punto si distinsero e definirono sintassi ,come relazione fra segno/segno; semantica come relazione fra segno/oggetto; pragmatica come relazione fra segno/parlante. La pragmatica diventerà importante con Austin in quanto focalizzerà il problema dell"atto linguistico". Il parlante non solo descrive, ma ordina, avvisa, consiglia,ecc. Questo atto linguistico è in fondo un atto mentale in quanto i due(linguaggio/mente) relazionano con la comprensione (gnoseologia) e l'intenzionalità. Da quì il passaggio avvenuto da qualche decennio dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente. Perchè il focus di tutta la tradizione analitica e del linguaggio è capire il "significato". Un problema "metafisico" è se la sintassi della mente è in grado di comprendere la sintassi del mondo e fino a che punto. Oppure se siamo solo in grado di rappresentarla in un modello leggibile dalla nostra mente e in quanto tale modellabile. La semantica, intesa come relazione fra segno e oggetto, si muove all'interno di questa sintassi costruita sui segni, con le sue regole interne che costruiscono le proposizioni, i postulati, gli enunciati, gli assiomi, sillogismi ecc. Se noi culturalmente mutiamo la regola sintattica(mutiamo il modello di rappresentazione del mondo) qualcosa avviene nella semantica. Ma tanto più la sintassi è rigida e tanto più la relazione segno/oggetto(semantica) diventa sacrale nella definizione e all'interno delle proposizioni. Nella teologia e nella metafisica si sta molto attenti all'utilizzo dei termini e ai loro significati(perchè le regole logiche sono importanti ,sono il tessuto della sintassi) addirittura usando idiomi originari e cercandone le definizioni più antiche(Severino ne è un esempio). In qualche modo si ha per certi versi ragione a dire che caduta una metafisica e una teologia e cercandone solo nelle regole linguistiche quel "significato" diventa invece sfuggente e lo dimostra come precedentemente indicato la diattriba all'interno della tradizione del linguaggio fra positivisti della scuola viennese con Carnap per un linguaggio ideale e invece quello che avvenne poi con il linguaggio comune, cioè la sconfitta di rendere universale nelle regole il linguaggio. Ma cosa che ritengo importante è capire se la nostra mente è sintatticamente corrispondente al mondo e quindi se l'atto linguistico che è atto mentale intenzionale attraverso la comprensione è in grado di cogliere i significati. La filosofia del linguaggio nel suo lungo argomentare ha capito che non è assolutamente semplice arginare , limitare seppur costruendo regole logiche,sintassi,semantica e parlante(pragmatica), perchè a sua volta il linguaggio è il tramite di lettura e comunicazione fra noi e il mondo. E' ciò che abbiamo capito e non abbiamo potuto ancora apprendere, è il nostro incedere ,ma anche incespicare. Usciti da una tradizione metafisica che pensava attraverso verità, nella sua fissità, siamo ora in modellazioni più "mobili" e il linguaggio muta più velocemente nel rapporto nome/significato, non solo soggettivamente come parlante con la sua intenzionalità, ma anche come obsolescenza di termini e creazione di neologismi. ...e di nuovo riappare la diaspora fra mente/realtà e atto del conoscere,del comprendere che si esercita nel linguaggio. |
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29-12-2013, 22.13.00 | #35 |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
@ Aggressor
Ho l'impressione di non riuscire a farti comprendere come per me non solo il "senso", ma persino il pensiero di un "oggetto" (ed è chiaro che questo si riferisce, ricorsivamente, anche a quest'ultimo termine) non può che situarsi in un contesto, o campo di senso che dir si voglia. E' per questo che, ti dicevo, sotto un certo punto di vista io sono anche più "idealista" di te. In altre parole, già il pensiero (anzi: già ciò che un certo campo di senso chiama "pensiero") di un "oggetto", che un certo campo di senso chiama "sfera" è una interpretazione. Tutto è intepretazione: lo è il "pensiero"; lo è l'"oggetto" e lo è la "sfera". Non è possibile, come dicono i semiologi, uscire dalla catena segnica. Da questo punto di vista, è chiaro che il termine "cosa in sé" è ciò che all'interno di un certo campo di senso, convenzionalmente, si è deciso di chiamare in questo modo. Ma allora io dico: "partiamo" da questa base, che a me sembra comune. Ma appunto "partiamo", senza considerarla assolutamente un punto d'arrivo (forse sarebbe interessante analizzare la questione anche dal punto di vista della Fenomenologia di Husserl - viste anche certe tue affermazioni- ma almeno per ora non divago). Per passare ad altro (ma è troppo importante che ci si trovi d'accordo sulle cose precedenti, o altrimenti il dialogo su queste successive diventa sterile), io credo appunto, come Nietzsche, che conoscenza e divenire non possano che escludersi. Questo vuol dire che, siccome credo di essere NEL divenire, penso che nessuna conoscenza sia possibile; nessuna conoscenza, intendo, indubitabile, "vera", "disvelata" definitivamente. Naturalmente, come ben affermi, non potremmo vivere senza la pretesa che la nostra descrizione degli enti sia "oggettiva", cioè scevra dall'interpretazione soggettiva. Il genio pazzo e visionario di Nietzsche capì tutto ciò ben prima di qualsiasi "relativista", affermando che di nulla potremmo dire che "è", visto che tutte le cose sono in un flusso continuo (la finzione, tuttavia, ci serve "per vivere", dice Nietzsche). Un saluto e un augurio di buon anno (scusa se non sarò particolarmente veloce nel rispondere, ma in questo periodo sono alquanto affacendato - ed è una cosa che, da buon "filosofo", odio...) |
30-12-2013, 12.16.52 | #36 | |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Citazione:
Interessante (ha un poco a che fare con il discorso della sintassi del mondo e della nostra mente se possono combaciare) e sono d'accordo. Ma almeno dal mio punto di vista, dalla mia interpretazione esiste un distinzione da fare. Per essere breve e coinciso la spiego nel modo seguente. Se esiste un Paradiso descritto nelle sacre scritture lo intenderei come fisso come fotogrammi istantanei e privi di movimento (simile al concetto di Parmenide e Severino). Perchè la conoscenza E' IN SE' , non ha necessità che la mia mente conosca perchè già conosce e il movimento fenomenologico non ha a sua volta necessità di esistere di manifestarsi o di essere richiamato dalla mia mente. E' tutto immobile nella sua fissità. Nel nostro mondo ciò che è innato in noi è il presupposto a conoscere , non la conoscenza in sè e per sè. Noi metaforicamente abbiamo una mother board del computer nel cervello , siamo strutturati per apprendere ,ma abbiamo necessità di capire. Questa nostra sintassi mentale lavora sull'isomorfismo fra linguaggio e natura fenomenica e quindi per analogie e il confronto per approdare ad una conoscenza non può che essere il confronto di parecchie istantanee fotografiche o se si vuole di un fluire di fotogrammi che il nostro cervello elabora per analogie e per differenze. C'è un doppio movimento, la mia mente che scopre che si muove nel mondo e il mondo che si muove nei fenomeni. Ma non essendo la mia conoscenza in sè nel fenomeno(noi siamo separati dal fenomeno) il mio processo gnoseologico è anch'esso in divenire, nel movimento. Quindi sono d'accordo nel sostenere che non possiamo avere conoscenza indubitabile in questo mondo , in queste dimensionalità fisiche nel divenire Forse, e ridico forse, le invenzioni e scoperte della fisica possono portarci a modellazioni e rappresentazioni che cambiano la nostra sintassi mentale sempre più vicina a quella fenomenica per arrivarne a scoprire per addizione ,ma anche per sottrazione, di conoscenza. Intendo dire che la relatività, la quantistica hanno aperto strade di interpretazione di quel divenire diverse da come le interpretavamo. Cambierebbe gioco forza anche la semantica, mutando il parlante , l'uomo. Nietzsche in fondo credeva all'eterno ritorno. Ma forse mi sto inoltrando troppo in là....... |
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30-12-2013, 20.14.41 | #37 |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Mi pare che negli ultimi interventi sia di Paul11 che di Oxdeadbeef la parola che nomina e nominando conosce si collochi come barriera alla realtà (Severino direbbe alla fede irrinunciabile) del divenire, poiché nominare significa tener fermo ciò che non può essere tenuto fermo per darne un significato (poiché, come dice Cratilo, nello stesso fiume non ci si può immergere nemmeno una volta sola). Contrapposta a questa parola metafisica che si erge a barriera per consentire la rappresentazione (e falsificazione) della cosa vi è la parola fenomeno, che essa stessa diviene e muta e dunque non pretende di dire cosa è quello che c'è, ma di mantenere una certa mobile sintonia tra il divenire delle cose e il divenire del linguaggio inteso anche nella funzione pragmatica del segno ben spiegata da paul11. Questo linguaggio che si rende a sua volta flessibile nel divenire trovo corrisponda bene al linguaggio comune (e in generale al linguaggio non metafisico) in cui la pregnanza-barriera semantica viene solubilizzata nello scorrere delle acque del fiume. A questo punto però, se tutto diviene, poiché, come dice Aggressor, sia la parola che le cose sono nel tempo, rischiamo di perderle entrambe e il mutamento della parola che aderisce al mutamento della cosa diviene insignificanza della parola ed evanescenza della cosa rivelandosi l'una dall'altra indistinguibili (e forse è proprio questo che vediamo accadere nell'evolversi attuale del linguaggio).
Questa prospettiva discende dalla tradizione della filosofia dell'Occidente che trova in Hegel il suo massimo compimento e che, per sostenere la fede originaria nell'incontrovertibilità del divenire, esige un'origine spuria dell'essente, un essente cioè isolato dal suo significato che deve compiersi come risultato finale. L'essente in origine è non essendo e per tale motivo è un niente che si crede possa nel tempo diventare qualcosa, un risultato che non era compreso nel suo essere originario. L'essente spurio e innominabile (pura immagine del pensiero) si manifesta in un secondo momento come contraddizione dialettica (come parola e negazione di quella parola) ed emerge in un terzo momento nella sintesi definitiva che recupera la parola dalla sua contraddizione. Severino ribalta radicalmente questo percorso. Per essere l'essente non può venire considerato originariamente spurio, separato dal suo significare, esso è in origine ciò che è pure nel nome che gli è proprio ed essendo viene a mostrare ciò che originariamente è, ossia viene via via mostrando il nome che fin dall'inizio lo esprime. Il nome che è nella struttura originaria si manifesta nell'apparire non quindi come ostacolo metafisico che falsifica la realtà di un diveniente fluire, ma come rivelazione progressiva e inesauribile, una tautologia che non realizza mai fenomenologicamente il ritorno a se stessa, ma che sempre mantiene se stessa al proprio orizzonte. Il nome vero è dunque l'irraggiungibile punto di ritorno dell'essente alla sua interezza che via via mostra il suo nome mostrando se stesso e pronuncia questo nome come un infinito racconto che ha per inizio e per fine l'apparire del medesimo punto originario. Ultima modifica di maral : 31-12-2013 alle ore 10.52.00. |
30-12-2013, 21.12.50 | #38 |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
@ Paul11
Più che la necessità di capire (che comunque c'è), a me pare che si abbia la necessità di punti fermi, di verità. E' per questo che, dopo la "morte di Dio" (ma anche dopo la "morte della storia" hegelianamente intesa), abbiamo ricostituito l'"inflessibile", come lo chiama Severino, nella scienza. Le cui ipotesi continuiamo a chiamare allegramente "leggi", come se fossero tutt'ora universalmente valide, e come se la relatività non fosse mai stata, prima, teorizzata dai filosofi, poi fisicamente scoperta dagli scienziati. Sarebbe, io credo, più che opportuno riprendere quell'"io penso" che Kant chiamava "unità originaria dell' appercezione", ma tant'è: continuiamo a cullarci nell'illusione che il relativismo riguardi la sola sfera della religione (quanti esempi in questo stesso forum)... Quindi no, non possiamo avere conoscenza indubitabile in questo mondo. Ma questo, lungi dall'annichilirci, dovrebbe anzi fungere da stimolo per recuperare l'autentica dimensione della conoscenza umana, il cui valore si fonda appunto sulla "finitezza" dell'uomo stesso. Non possiamo più dire: "questo è" (come Nietzsche ci mostra chiaramente). Ma possiamo (e dobbiamo...) dire: "io penso che questo sia". Ne guadagneremmo sotto molti punti di vista. un sentito augurio di buon anno mauro |
31-12-2013, 04.05.30 | #39 |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Oxd., faremo certamente bene ad andare avanti, poiché sul resto siamo indiscutibilmente in accordo
Oxd.: Questo vuol dire che, siccome credo di essere NEL divenire, penso che nessuna conoscenza sia possibile; nessuna conoscenza, intendo, indubitabile, "vera", "disvelata" definitivamente. Naturalmente, come ben affermi, non potremmo vivere senza la pretesa che la nostra descrizione degli enti sia "oggettiva", cioè scevra dall'interpretazione soggettiva. Il genio pazzo e visionario di Nietzsche capì tutto ciò ben prima di qualsiasi "relativista", affermando che di nulla potremmo dire che "è", visto che tutte le cose sono in un flusso continuo (la finzione, tuttavia, ci serve "per vivere", dice Nietzsche). Un saluto e un augurio di buon anno (scusa se non sarò particolarmente veloce nel rispondere, ma in questo periodo sono alquanto affacendato - ed è una cosa che, da buon "filosofo", odio...) Appoggio assolutamente ciò che dici, ed anzi, ti dirò di più: Ciò che chiami "conoscenza vera (disvelata definitivamente)" è, in realtà, tutto fuorché comprensione. Come avevo già accennato la descrizione d'un oggetto, ed anche, dunque, la conoscenza di esso, non può rivelarsi, per definizione, con la stessa forma dell'ente che esamina. La definizione di conoscenza vera, invece, pretenderebbe che "l'oggetto esterno" fosse rappresentato perfettamente, mentre ciò causerebbe l'identità tra conosciuto (cioè l'oggetto denotato; "l'ente in sé") e conoscenza (cioè il significato che un ente ha per noi, la sua controparte mentale). Pertanto, devo concludere, il concetto di conoscenza non può accostarsi a quello d'una precisione estrema, cosicché esso implicitamente già si autolimita e diversifica da quello di verità (che però abbiamo già ammesso essere limitato nella relatività). |
01-01-2014, 23.26.29 | #40 | |
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose
Citazione:
Credo invece sia importante mantenere l'apertura della visione del pensare. Se il nome vero è impossibile, perché come dice giustamente Aggressor verrebbe a coincidere con la cosa che nomina, pur tuttavia è possibile un nome proprio di quella cosa, un nome che solo ad essa alluda ed è forse proprio questo che la filosofia ha sempre tentato di fare, ritrovare i nomi propri delle cose. |
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