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 Riflessioni sulla Mente - Commenti sugli articoli della omonima rubrica presente su WWW.RIFLESSIONI.IT - Indice articoli rubrica


Vecchio 27-09-2010, 10.26.26   #21
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Ivo Nardi
 
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Originalmente inviato da Il_Dubbio
Nel 2009 aprii un argomento in risposta ad un suo articolo. Non so per quale motivo i moderatori lo spostarono nella sezione "La riflessione" e non in questa:
https://www.riflessioni.it/forum/la-r...erenziale.html
Perchè l'articolo del dott Peccarisi è nella rubrica La Riflessione e non in questa che è nata qualche mese dopo
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Vecchio 29-09-2010, 09.51.22   #22
lucianopec
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Lei parla di significato. Noi siamo capaci di dare significato e le macchine no. Vero. Searle insiste su questo punto e ha ragione, secondo me, quando afferma che la macchina sembra ma non ha, e non può avere, consapevolezza. Infatti per potere aver consapevolezza dovrebbe essere costruita con materiali simile a quelli umani, quando il microchip sarà come una cellula, ne riparleremo. Quando la prima cellula si avvicinava alle cose dolci e si allontanava da quelle nocive cominciò a formarsi quello che in seguito chiameremo ‘significato’. Dopo tante vicissitudini ognuno ha nella sua testa il proprio significato. Se io e il colombo che staziona sul mio tetto assistiamo a un omicidio in strada, ognuno darà all’evento il significato che il suo ‘modulo della mente’ gli darà. E un po’ come l’informazione, non esiste se non per coloro che sono in grado di decifrarla. Per me il segnale di un pipistrello non ha alcun significato. Lei chiama ‘autoreferenziale’ un qualcosa che biologicamente fa parte del mondo della ‘sensibilità’, che reagisce e non sta più fermo e immobile ad aspettare gli eventi. Una qualità che è apparsa, per me per caso (per lei non so bene) e dalle pietre, scogli e mare, si è passati alle alghe, muschi e ornitorinchi. Dall’evitare il nocivo (quello che sarà il male) e avvicinarsi al nutritivo (quello che diventerà il bene) si è formata quella cosa assai complessa, più complessa ancora nell’uomo, che chiamiamo coscienza. All’inizio era tutto computazione e quando si tratta di ritrarsi o avvicinarsi è semplice e si accetta, quando le cose si complicano all’inverosimile, allora c’è qualcosa d’insondabile. Certo la scienza non sa ancora come costruire una cellula; quella è nata per caso milioni di anni fa, e ci sono voluti milioni di anni perché crescesse e proliferasse. L’impresa non è certo semplice, ma perché porre ostacoli ideologici, tipo non sarà mai possibile, è tempo perso, c’è una sostanza in più che non scopriremo mai.
L’uomo, come tutti gli esseri viventi, si sintonizza, come giustamente dice lei, sul mondo, come una radio. Ma la radio nasce progettata per potersi sintonizzare, se provassimo a sintonizzare una stufa, sarebbe inutile. La parola mamma da un suono a un significato che già c’era; come c’è in tutti cuccioli. I significati ‘biologici’ già ci sono alla nascita, nell’uomo poi altri verranno col linguaggio e la cultura: significati ‘umani’. La macchina non si riconosce perché non è fatta di materiale biologico; ma è teoricamente possibile che una volta trovata una sostanza simile a quella biologica si possa costruire un computer assai simile all’uomo. Non so se mai si farà, comunque è ‘teoricamente’ possibile immaginarlo. Grazie.
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Vecchio 01-10-2010, 12.21.00   #23
Il_Dubbio
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il caso e le costanti

Citazione:
Originalmente inviato da lucianopec
Una qualità che è apparsa, per me per caso (per lei non so bene)

Il caso...! Lei mi ha formulato la domanda più di una volta ed io l'ho ignorata. Non per cattiveria, ma perché il problema da affrontare è molto complesso e devia in altre direzioni (forse troppo lontane dal tema). Però per correttezza le debbo rispondere.
Innanzitutto è il caso di definire il “caso”. Le possibilità sono almeno due (non so se ne conosce altre):
1)ci riferiamo a delle concatenazione causali non prevedibili. Quindi si definisce casuale quel risultato non prevedibile ma causato.
2)ci riferiamo ad un evento non causato, ovvero ontologicamente casuale.

In riferimento alla coscienza, sono più per la seconda. Ovviamente, quindi, non ritengo la coscienza il risultato di eventi casuali. Semmai, la coscienza per me potrebbe essere un singolo evento strettamente casuale.
Stesso discorso che faremmo per tutte le leggi della fisica o della chimica conosciute. Sono eventi casuali nel senso della 1) o della 2)?
Anche molti fisici innamorati della teoria evoluzionista ora pensano che dopo tutto anche le leggi relativistiche o (io dico anche) della meccanica quantistica siano leggi che provengono dalla 1). In sostanza non c'è nulla di “ontologicamente casuale”.
Sarà così?... non lo so. Se solo supponessimo, però, che una legge fisica si sostiene secondo la 1) potremmo andare a ritroso all'infinito con le concatenazioni causali, senza mai poter trovare una causa prima. Al big-bang sarebbe preceduto un istante temporale che ha causato tutto il resto. A quell'istante temporale bisogna aggiungere ancora un istante precedente e così via.
Sostanzialmente, ammesso di non supporre multi universi e di grande complessità che soggiacciono nell'infinito, oggi si sostiene che in questo universo esistono delle leggi immutabili nel tempo (le costanti della natura) nate in un dato momento, mentre, prima di questo momento, non c'era nulla (molto complessa la questione... ). Io ho già detto la mia a riguardo in questo forum (la mia opinione chiaramente lascia il tempo che trova): se prima non c'era nulla (cioè non c'era nulla che causasse l'universo), oggi non avremmo potuto sostenere che dal nulla (ovvero secondo l'ontologia casuale - 2)) potesse nascere qualcosa; se siamo venuti a conoscenza di quelle leggi, che permetterebbero la nascita dal nulla dell'universo, evidentemente esistevano le leggi e queste sono la causa dell'universo. In questo consiste la “conoscenza” autoreferenziale. Non posso affermare infatti di avere coscienza di una conoscenza che non c'è. Quindi è impossibile sostenere che l'universo non è causato. Infatti è causato da una mia conoscenza delle leggi che permettono un universo non-causato. Se quelle leggi, che sono rappresentate dalla mia conoscenza delle leggi stesse, non esistessero, io non potrei conoscere la causa di un universo senza causa.. La causa dell'universo è quindi dipendente dall'esistenza di quelle leggi di cui io posso avere coscienza.
So che si tratta di un giro di parole e forse un discorso filosofico che lei non gradisce (ma le dovevo questa spiegazione). Cerco di semplificarlo: cos'è una legge fisica o un principio fisico? Solitamente lo si accosta ad un ente matematico o una equazione ecc. Ma in che senso gli enti matematici esistono? Non è vero che tali enti somigliano alle nostre idee slegate dalla materia (Platone)? La materia che noi vediamo non è vero che dipende dagli enti matematici e non il contrario? Quindi le idee sembrano essere più importanti, come sono più importanti gli enti matematici (Odifreddi la penserebbe così, anzi sostituisce la matematica a dio). Oggi potremmo dire di essere coscienti solo in quanto siamo a conoscenza di quegli enti matematici che hanno permesso la nascita dal nulla della materia (ammesso che le nostre intuizioni matematiche siano giuste).
Perciò la coscienza è qualcosa di fondamentale come l'ente matematico che permette tutto ciò che vediamo. Per fondamentale voglio dire, in questo contesto, che non è causato. La sua esistenza semmai è ontologicamente casuale cioè non dipende da altro come gli enti matematici platonici.
Pensi come sarebbe il mondo, viceversa, se le leggi della natura non fossero “costanti”. Cosa succederebbe se una mela, a “caso”, si fermasse a metà strada e non cadesse, oppure se a caso deviasse in una direzione “casuale”. Non solo sarebbe un mondo impossibile, ma anche impossibile da conoscere.
Quindi il mondo non può essere un mondo “casuale”. Se questo mondo esistesse per davvero, non sarebbe possibile conoscerlo. La conoscenza infatti implica causalità. L'unica causa che mi viene in mente, pensando ad un'idea matematica, che giustifichi l'esistenza dell'idea matematica stessa (cioè quella legge che non permette al mondo di essere casuale) è la sua autoreferenza, ovvero conoscenza di se stessa, cioè la coscienza. Ed è per questo, forse soltanto filosoficamente, ritengo la coscienza fondamentale in quanto permette al mondo di essere conosciuto e quindi di esistere.

Qualcuno potrebbe chiedermi perchè notiamo la coscienza rivelarsi soltanto negli uomini e non nelle pietre. La risposta potrebbe essere simile a quella che darebbe un fisico se gli si chiedesse perché il mio orologio, ancorato sulla Terra, non funziona diversamente dal suo, ugualmente ancorato sulla Terra, ed invece i nostri orologi si sfasano con quelli di viaggiatori nello spazio. Sulla Terra la relatività non funziona? La risposta è: per accorgerci delle differenze abbiamo bisogno che siano anche evidenti. Non è detto però che qualcosa di non evidente scompare. Quindi la coscienza potrebbe essere qualcosa di fondamentale, non causato e non estremamente evidente.

E' probabile che sia ancora difficile intuire a cosa voglio riferirmi con il termine “fondamentale”
Quindi proverò a formulare una teoria sulla coscienza in modo da dover cercare qualcosa di fondamentale. Non sarà una vera teoria... sarà quasi tutto finto, quasi tutto inventato. Lo scopo è solo quello di intuire a cosa mi riferisco con il termine “fondamentale”:

Mi sembra che le sia piaciuta la mia analogia con l'immagine radiofonica. Girare una manopola per cercare una stazione radio udibile è qualcosa che è capitato a tutti... Non so bene, non essendo un radiotecnico, come funziona per davvero una radio.
Quindi ho preso a “caso” un'informazione da internet: -la dimensione delle antenne è inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda su cui devono trasmettere. Per trasmettere su frequenze molto basse, come 7 o 14 MHz le antenne devono avere necessariamente una grande dimensione. Questo è il motivo per cui le antenne dei radioamatori che trasmettono su quelle frequenze (ma anche più in basso, a 3,5 e 1,8 MHz) sono così appariscenti.-

Forse non significherà nulla, ma potremmo dire che ogni volta che parliamo di mente non facciamo che parlare di correnti elettriche, di onde elettromagnetiche, di frequenze e forse anche di “antenne” (in senso lato). Ammettiamo che l'antenna sia la complessità neuronale e la giusta frequenza elettromagnetica, la stazione radio.
Quindi provo a formulare una possibile congettura: la coscienza viene trovata quando si raggiunge il giusto rapporto tra la frequenza delle onde elettromagnetiche e la complessità neuronale. Infatti per ricevere quei segnali di frequenza c'è bisogno di un'antenna adeguata (in questo caso una maggiore complessità, come ci vuole una più grande antenna per ricevere segnali su frequenze piu basse).
Ricordo che le Onde Alfa (onde fisiche) hanno una frequenza che varia da 8 a 14 Hz e ad esse sono associate stati di coscienza vigile.
Chiaramente ci sono altre onde con maggiore o minore frequenza che corrispondono a diversi stati di coscienza..
Ripeto, questa è soltanto una congettura (niente di scientifico) giusto per trovare a formulare una possibile alternativa teorica che non spiega la causa della coscienza, ma, come per le leggi fisiche più note, stabilisce dei “rapporti”. Cioè la coscienza non sarebbe la complessità neuronale e nemmeno l'onda elettromagnetica, ma il rapporto tra le due grandezze. Non è nemmeno preciso dire (secondo la mia congettura) che la coscienza dipenderebbe da quelle grandezze, forse è più giusto dire che il cervello umano agisce come una radio e solo se il cervello è ben in sintonia è cosciente. Cioè la coscienza sarebbe (sempre secondo questa congettura inventata per darle il senso di cosa può significare “fondamentale”) il rapporto fra grandezze. Essa è adimensionale ed è una costante. E' come se l'universo fosse musica, essa dipende da onde fisiche e dalla struttura complessa delle onde. La coscienza invece sarebbe il rapporto tra le onde e le complessità delle strutture; la coscienza sarebbe identificabile infine con le note su un pentagramma perché da essa dipenderebbe la musica.
Come i rapporti fra grandezze siano più importanti delle grandezze stesse è una questione fisico-filosofica. Sono queste le veri costanti. Come la costante di struttura fine che è una quantità adimensionale che non dipende dal sistema di unità usato che è pari (non vorrei sbagliare) all'inverso di 137. Vi sono altre costanti come per esempio il famoso pi-greco (3,14), che sarebbe il rapporto tra una circonferenza e il suo diametro. Contante è il numero aureo (1,681); ma ce ne sono altre come la costante "h tagliato" (costante di Planck), la velocità della luce ecc., e forse (aggiungerei io) anche la costante di coscienza inventata da me .
Non sappiamo perchè queste costanti sono proprio quelle, certamente è possibile concepire mondi e universi differenti con costanti diverse. E analogamente, se la costante-coscienza fosse diversa da quella percepita, probabilmente anche le pietre dimostrerebbero di essere coscienti al nostro pari.
Forse queste costanti non saranno costanti, variano nel tempo, nel tempo astronomico... ma questo riguarderà un altro discorso.
Il_Dubbio is offline  
Vecchio 06-02-2011, 19.26.07   #24
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Io sono un informatico, laureato di recente, e per la mia tesi di laurea ho progettato un sistema di interazione uomo-macchina. Mi scuso se riapro una discussione "vecchiotta", ma avendo studiato in profondità certe dinamiche, vorrei dare il mio contributo.

I ragionamenti sono frutto di calcoli, su questo non c'è alcun dubbio. Il "software" è il programma che elabora le informazioni ottenute dall'esterno e l'"hardware" è l'infrastruttura che ci consente di effettuare operazioni di input/output. Bene: se tutto fosse frutto del calcolo, parlo di situazioni fisiche, i risultati dovrebbero essere identici per tutti. Se fa freddo, fa freddo. Però è vero che per qualcuno può fare più freddo, per altri meno freddo. L'interpretazione è fondamentale, in questo caso. Diciamo che questa è "l'algoritmo" che è scritto in ognuno di noi. Ma... i calcoli forniscono lo stesso risultato per tutti. L'equazione y = a * x^2 disegna una parabola. E questo è sempre vero, è uguale per tutti, così come 2+2 = 4. Quindi le emozioni non sono frutto di calcolo, perché vissute in modo diverso da ciascun individuo. Certo, si potrebbe obiettare che al variare del parametro 'a' cambia anche la convessità. E questo è vero: ma la "formula" è sempre la stessa. Poi ci sono i fatti, che non sono interpretabili, in quanto fenomeni empirici (il fuoco brucia, ed è un dato incontrovertibile). Questo fa traballare l'ipotesi che sostiene che l'uomo agisca "meccanicamente" in risposta a determinati stimoli. Come per il cane di Pavlov, insomma. Il calcolo è una possibilità, uno strumento che utilizziamo per risolvere problemi di qualunque natura. Ma le emozioni non possono essere frutto di calcolo, in quanto non possiamo (non perché non riusciamo, ma perché siamo impossibilitati a farlo) conoscerne la natura (e i loro perché, come agiscono, come e dove si formano, la loro evoluzione -se non vogliamo ridurre anche queste a semplice chimica, cosa che non ha senso a causa della variabilità degli esseri dotati di sistema nervoso complesso-). Di conseguenza, mancano i dati del problema. E se non ci sono i dati, non c'è soluzione, dunque il calcolo è inutile (o meglio, inapplicabile, se non per algoritmi che finiscono in loop, ma questo è impossibile, perché una vita non è sufficiente a risolverlo, dunque umanamente assurdo -si dovrebbe andare per tentativi, ma è tutto inutile-). E il "caso", secondo me, è un solido paravento dietro al quale si nasconde l'incapacità di accettare eventi che sono lontani dai nostri "algoritmi", per restare in tema.
E l'educazione? I processi cognitivi dei bambini? Possono essere questi in grado di valutare tutte le complesse variabili del mondo esterno per elaborarle e fornire un risultato più o meno intellegibile? Direi di si: ma spesso non riusciamo a capirli. Dunque è l'adulto a non comprendere o l'infante a non esprimersi correttamente? Eppure il calcolo non segue una struttura auto-evolutiva. Aggiungo che la maggior parte delle reazioni che abbiamo in risposta a determinati stimoli, sono frutto dell'educazione, quindi variabili.
Secondo me, non è del tutto corretto parlare di calcoli quando ci si riferisce alle emozioni. Il sistema neurovegetativo umano è uguale per tutti. Funziona allo stesso modo per tutti: se questo è vero, perché i risultati del calcolo sarebbero diversi? Perché cambiano le operazioni? Ma la serie di operazioni che compiamo non sono forse calcoli? Quindi cambiano i calcoli? Quindi 4 = 2 + 2 ma anche 1+1+1+1 e per un limite di una successione che tende all'infinito?
Sicuramente. Ma cambiando i calcoli, cambia tutto. Poi ci sono le costanti, che Il_Dubbio ha brillantemente sottolineato nel suo ultimo intervento. Queste aumentano (e di molto) la complessità computazionale. Insomma, le emozioni non sono SEMPRE riducibili ad automatismi.

Temo di aver fatto un po' di "minestrone", ma è difficile approfondire punto per punto una discussione che si è evoluta toccando campi molto vasti.

Tornando alla mia tesi, era un progetto che coinvolgeva intelligenza artificiale e reti neurali. Alla fine, il computer era in grado di elaborare autonomamente delle decisioni da prendere in situazioni critiche, analizzando statisticamente fattori e stimoli esterni al suo "essere" ed era in grado di apprendere volta per volta sempre di più. Diventava un "sistema esperto", tecnicamente si chiama così. La sua conoscenza era limitata soltanto all'infrastruttura in cui era racchiuso. Un software in grado di evolversi autonomamente. Ma sapete in cosa fallisce? E in cosa fallirà sempre? Nella valutazione del rischio. Mi si poneva il classico problema della "priorità del salvataggio". Questo basterebbe a far sbagliare, casualmente (in questo caso non c'è causalità, ma solo frutto di operazioni matematiche su dati di natura indistinta e random), la macchina. Proprio lì dove l'uomo non potrebbe mai sbagliare (in virtù del fatto che non effettuerebbe una valutazione numerica, ma emozionale).

Saluti!
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Vecchio 07-02-2011, 10.16.25   #25
Il_Dubbio
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Originalmente inviato da tobaccoaddicted
Io sono un informatico, laureato di recente, e per la mia tesi di laurea ho progettato un sistema di interazione uomo-macchina. Mi scuso se riapro una discussione "vecchiotta", ma avendo studiato in profondità certe dinamiche, vorrei dare il mio contributo.

Benvenuto

Queste discussioni non sono mai vecchie.
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Originalmente inviato da tobaccoaddicted
I ragionamenti sono frutto di calcoli, su questo non c'è alcun dubbio.

Il discorso quadra, ma non del tutto (a mio avviso).

Per esempio alla domanda che ho fatto in apertura: il concetto (stato mentale) di “punto” di “retta” da quale calcolo computazionale deriva?

Come risponderesti? (se vuoi guardati l'argomento proposto "definizione e concetto primitivo").

La questione (domanda principale) potrebbe essere questa: anche la “comprensione” di punto e di retta è un calcolo?

A me sembra che lo stato "emozionale" potrebbe anche non essere rilevante a questo fine.

Secondo me (riproponendo ciò che dicevo all'inizio): non serve ipotizzare che i concetti, tutti, siano dei calcoli dell'hardware cerebrale se poi non esiste alcun calcolo per comprendere “come” questi calcoli vengano compresi e assimilati dalla mente.

In questo forum (che è solo una piccola isola di un mondo fatto di storie) si parla di "perfezione", di Dio ecc. cioè di tanti concetti che se analizzati con la computazione non hanno (o non avrebbero) alcuna possibilità di essere pensati (con un computo) perchè non derivano da altri calcoli.

Noi prima li pensiamo e poi tentiamo di computarli. Cioè io prima penso ad un punto o ad una retta, e poi cerco un modo per garantirgli un'esistenza che invero, senza la coscienza, non sarebbe possibile garantirgli.
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Vecchio 07-02-2011, 17.31.48   #26
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Originalmente inviato da Il_Dubbio
Benvenuto Queste discussioni non sono mai vecchie.

Grazie! Ne approfitterò per "riesumare" qualche post che più mi interessa (anche se in realtà mi interessano tutti )

Citazione:
Originalmente inviato da Il_Dubbio
il concetto (stato mentale) di “punto” di “retta” da quale calcolo computazionale deriva?

Ma io infatti sono d'accordo con quanto sostieni. Io dicevo che non c'è dubbio che i ragionamenti (quindi posteriori al concetto) sono frutto di calcolo. Se volessimo pensare alla "radice" della questione, il calcolo deve pur partire da qualcosa. E per l'assimilazione (e/o la produzione) del concetto iniziale -di qualunque natura-, non ci può essere calcolo, in quanto la sua autogenerazione non avrebbe luogo (almeno secondo quanto sostengo), proprio perché per sua natura dovrebbe partire da qualcosa. E questo qualcosa non può essere un calcolo perché a sua volta... dovrebbe essere generato da qualcosa che non sia un calcolo. Le entità più semplici, chiamiamole radici, non possono essere frutto di un processo "computazionale", insomma. Il loro raffinamento almeno in qualche caso si.
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Vecchio 03-12-2013, 01.57.01   #27
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Citazione:
Originalmente inviato da Il_Dubbio
Da https://www.riflessioni.it/mente/mente-io.htm
di Luciano Peccarisi

Ammettiamo che tutti gli stati mentali siano il risultato di calcoli.
Ci aspetteremmo di aver risolto tutti i nostri problemi.
Anche "ammettendo" che gli stati mentali derivino da calcoli, voglio mostrare come questa ammissione non è sufficiente per risolvere i nostri problemi.


Faccio ricorso a questo argomento aperto da me in area filosofia come base:
https://www.riflessioni.it/forum/filo...primitivo.html

In quel argomento il concetto fondamentale è questo: se gli stati mentali sono dei calcoli, perchè non è possibile definire la comprensione di uno stato mentale con un altro calcolo?

Cerco di dirlo meglio: noi usiamo termini, concetti e quant'altro per calcolare. Tutti questi concetti sono a loro volta ( o per lo meno questa è la tesi proposta da Luciano Paccarisi, se non ho capito male), il risultato di un calcolo. Dovrebbe esserci però una strada per ricavare il risultato del calcolo (lo stato mentale) con un altro calcolo all'inverso.

Ora all'autore, Luciano Peccarisi, rivolgo questa domanda: per esempio il concetto (stato mentale) di “punto” di “retta” da quale calcolo computazionale deriva?

Le definizioni di punto e retta non bastano per “comprendere” di cosa stiamo parlando, abbiamo bisogno di uno stato mentale specifico, che chiamiamo “intuitivo”. Il punto e la retta quindi si baserebbero su un calcolo computazionale situato nell'hardware cerebrale, mentre la sua comprensione in un posto ignoto all'interno dello stato mentale (software).
Ora il domandone finale: anche la “comprensione” di punto e di retta è un calcolo?

Quello che voglio dire a signor Luciano Peccarisi (che sarebbe la questione fondamentale che pongo anche a tutti i futuri partecipanti) è che non serve ipotizzare che i concetti, tutti, siano dei calcoli dell'hardware cerebrale se poi non esiste alcun calcolo per comprendere “come” questi calcoli vengano compresi e assimilati dalla mente.

n.b.
Grazie al Signor Luciano Peccarisi per tutti i suoi articoli. Li leggo sempre con piacere anche se non li condivido nei contenuti.



il fatto si nn disporre di una spiegazione non significa che quella spiegazione non eissta. forse deve ancora essere scoperta. qualcuno fara' dei calcoli e avra' una intuizione, un salto in avanti che la mente umana e' in grado di fare. non sappiamo tutto e forse non lo sapremo mai..
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Vecchio 27-03-2014, 21.06.58   #28
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Citazione:
Originalmente inviato da Il_Dubbio
Da https://www.riflessioni.it/mente/mente-io.htm
di Luciano Peccarisi

Ammettiamo che tutti gli stati mentali siano il risultato di calcoli.
Ci aspetteremmo di aver risolto tutti i nostri problemi.
Anche "ammettendo" che gli stati mentali derivino da calcoli, voglio mostrare come questa ammissione non è sufficiente per risolvere i nostri problemi.


Faccio ricorso a questo argomento aperto da me in area filosofia come base:
https://www.riflessioni.it/forum/filo...primitivo.html

In quel argomento il concetto fondamentale è questo: se gli stati mentali sono dei calcoli, perchè non è possibile definire la comprensione di uno stato mentale con un altro calcolo?

Cerco di dirlo meglio: noi usiamo termini, concetti e quant'altro per calcolare. Tutti questi concetti sono a loro volta ( o per lo meno questa è la tesi proposta da Luciano Paccarisi, se non ho capito male), il risultato di un calcolo. Dovrebbe esserci però una strada per ricavare il risultato del calcolo (lo stato mentale) con un altro calcolo all'inverso.

Ora all'autore, Luciano Peccarisi, rivolgo questa domanda: per esempio il concetto (stato mentale) di “punto” di “retta” da quale calcolo computazionale deriva?

Le definizioni di punto e retta non bastano per “comprendere” di cosa stiamo parlando, abbiamo bisogno di uno stato mentale specifico, che chiamiamo “intuitivo”. Il punto e la retta quindi si baserebbero su un calcolo computazionale situato nell'hardware cerebrale, mentre la sua comprensione in un posto ignoto all'interno dello stato mentale (software).
Ora il domandone finale: anche la “comprensione” di punto e di retta è un calcolo?

Quello che voglio dire a signor Luciano Peccarisi (che sarebbe la questione fondamentale che pongo anche a tutti i futuri partecipanti) è che non serve ipotizzare che i concetti, tutti, siano dei calcoli dell'hardware cerebrale se poi non esiste alcun calcolo per comprendere “come” questi calcoli vengano compresi e assimilati dalla mente.

n.b.
Grazie al Signor Luciano Peccarisi per tutti i suoi articoli. Li leggo sempre con piacere anche se non li condivido nei contenuti.

Il calcolare è una delle applicazioni della logica matematica o di quella, che le è analoga, geometrica, ed entrambe queste scienze forniscono simbologia utile a capire che i princìpi del calcolo non sono arbitrari, e hanno il loro aspetto qualitativo appunto nella simbologia. Pur nella relativa perfezione, implicita al calcolare, che obbedisce ai princìpi di queste due scienze, il calcolare non può esaurire tutte le possibilità della realtà relativa, perché la realtà non ha in sé le proprie sufficienti ragioni d'essere, e queste ultime le sono esterne perché nessuna causa, anche all'interno della realtà relativa, partecipa ai suoi effetti né da questi può essere modificata.
Farò un esempio di questa impossibilità propria al calcolare:

La retta è definibile come un insieme indefinito di punti, ed è data dalla distanza infinitesimale compresa tra due punti. Il punto è un'entità priva di forma e non sottomessa all'estensione, dunque il segmento chiamato retta è determinato da ciò che non ha forma. A propria volta quel segmento, trascinato, dà forma al piano che costituirà il solido della realtà che conosciamo, e che deve il suo esserci al mistero di un punto che è informale, come d'altronde lo sono le idee che circolano nella nostra testa, e ci costringono alle ridicolaggini materialiste che, in pratica, sono un'autodenuncia dei nostri limiti, nati da qualcosa che limiti non ha.
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Vecchio 04-04-2014, 22.09.34   #29
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Originalmente inviato da Il_Dubbio
Anche gli insiemi non esistono,ma ha senso parlarne solo quando la nostra attenzione e' concentrata su di essi,nella realta' non esistono insiemi,esiste la nostra capacita' astrattiva e la fantasia che ci permettono di pensarli e di parlarne.
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