Ospite abituale
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Il conformismo
A nessuno è data la possibilità di scegliersi dove come e quando nascere e vivere…
Ciascuno è figlio del “suo” tempo e quindi in qualche misura omologato.
Tuttavia la nostra epoca, almeno limitatamente alla parte di mondo cosiddetto evoluto, sembra chiedere l’omologazione a tutti gli uomini come condizione essenziale per la loro esistenza.
Un’omologazione come “principio” e non come dato di fatto…
Le ragioni vanno ricercate principalmente nelle strutture organizzative delle attività produttive (beni e servizi) nelle condizioni di lavoro, soprattutto quelle imposte dal mondo della tecnica e dell’economia globale: lavorare significa collaborare all’interno di un apparato dove le azioni di ciascuno sono previste, descritte e prescritte dall’organigramma per il “buon funzionamento” dell’apparato.
Inciso: secondo alcuni sociologi le aziende sono manifestamente e sostanzialmente strutture organizzative assimilabili alle forme di governo dittatoriale.
1. La coscienza omologata.
Un’azione è omologata se e quando è conforme a una norma. In tal caso si può più correttamente definire: “conformazione”.
Sono conformazioni quasi tutte le azioni che si compiono all’interno di un apparato. Lì infatti il fare da sé cessa, perché comincia ciò che si deve fare in perfetto accordo con le altre componenti dell’apparato.
Gli scopi di un apparato, vista anche la sua sofisticazione tecnica, non rientrano nelle competenze dei suoi singoli individui.
Ciò comporta che la coscienza del singolo si riduce alla “coscienziosità” nell’esecuzione del suo lavoro.
Questa “riduzione” è l’atto di nascita della “coscienza conformista”. Viene richiesta infatti solo una buona qualità di “collaborazione”, indipendentemente dagli scopi che si prefigge l’apparato.
2. Il “sano” realismo.
Sempre più spesso, fin da piccoli, viene inculcato il principio che il successo si raggiunge più facilmente adattandosi alle esigenze degli altri (rinuncia alla realizzazione di sé stessi).
Dai gruppi di bambini, ai compagni di classe, ai gruppi di lavoro, a proprie spese si impara che ciò che più paga è l’uniformità più rigorosa: la capacità di adattarsi all’organizzazione è la condizione essenziale per avere una certa influenza su di essa e il successo.
Ad eventuali obiezioni c’è sempre chi ci ricorda che conformarsi è solo indice di “sano realismo”.
Anche se in noi ciò spesso insinua il sospetto che non si tratti di una rappresentazione fedele al “reale”, bensì di una rappresentazione surreale, tendente a imporre l’accettazione dell’esistente: senza cura della sua qualità morale!
3. L’incoscienza della coscienza omologata.
Affinché l’adattamento non venga avvertito come una coercizione è necessario che il contesto in cui viviamo (quello dell’economia globale e della tecnica) non venga avvertito come uno dei possibili “modi” ( o mondi) ma come UNICO, al di fuori del quale non si danno (hanno) migliori possibilità di esistenza.
Nel “mondo” della produzione e del consumo (se, e finché, riesce a costituirsi come insieme coeso, senza interruzioni e lacune e, soprattutto, senza alternative) gli obblighi imposti e le ubbidienze richieste non sono avvertiti come tali, bensì come condizioni “naturali” di esistenza.
Ma un “modo” che riesce a farsi passare come “UNICO MONDO” ha raggiunto livelli di perfezione di omologazione tra gli individui tali che i regimi assoluti e dittatoriali che lo hanno preceduto neppure lontanamente avrebbero sospettato che fossero realizzabili.
4. Il conformismo come condizione esistenziale.
Sembra quindi che non ci rendiamo conto di quante catene ci abbiano resi “dipendenti” in quest’era della tecnica e della globalizzazione.
Mentre Marx poteva dire che la maggioranza dell’umanità non aveva nulla da perdere, salvo le sue catene, oggi senza quelle catene una parte di quell’umanità non avrebbe di che sopravvivere.
Per questa ragione, quando parte di quelle catene si spezzano (Scioperi, interruzioni di energia, ritardi di altri rifornimenti e servizi) viene invocata da parte di tutti la “saldatura” immediata.
Ciò è indice di dipendenza e di alto tasso di collaborazione, omologazione e conformismo,
affinché “questo Mondo” sia il più possibile garantito, sicuro, senza interruzioni o rischi di cedimenti, pur lasciando al suo interno la possibilità di continuare a ripetere il vocabolario dell’individuo.
5. I mezzi di comunicazione come strumenti di omologazione.
La società conformista, nonostante l’enorme quantità di voci diffuse dai media al suo interno, o forse proprio per questo, parla nel suo insieme solo con sé stessa.
Non c’è più al suo interno una diversità di esperienze nel mondo (come un tempo) per cui sempre più identico è il mondo e il “modo” (le parole, le “frasi”, le convenzioni, i temi etc) a tutti fornito dai media per descriverlo.
Il risultato è un una comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce per ascoltare le stesse cose che potrebbe dire e, viceversa, chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque.
Quasi paradossalmente si può sostenere che la diffusione esponenziale dei mezzi di comunicazione messi a disposizione dalla tecnica tenda ad abolire la necessità di comunicazione, poiché è inesistente la differenza specifica tra le esperienze, differenza che è alla base di ogni bisogno comunicativo.
Le mille voci che riempiono tali mezzi, col loro rincorrersi, annullano le differenze iniziali, perfezionando la omologazione, rendendo superfluo se non impossibile, parlare in prima persona.
Quei “mezzi” allora cessano di essere tali e finiscono per “comporre” essi stessi “quel mondo”, fuori dal quale è impossibile avere altra esperienza diversa.
In un tale contesto parlare non significa più comunicare, ma eliminare quelle differenze residue, in modo che l’anima di ciascuno, che già coesisteva al mondo di tutti, diventi co – estensiva e , al limite, sovrapponibile a quella di chiunque.
6. Cognitivismo e comportamentismo: psicologie del conformismo.
Coerentemente a tutto ciò, in questa nostra epoca, sono diventate egemoni quelle psicologie dell’adattamento che tendono alla congruenza con l’apparato: il declino della psicoanalisi come indagine sul profondo, e il successo del cognitivismo e del comportamentismo.
Il primo per “aggiustare le proprie idee, ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del “mondo”; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee, che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto originale della propria identità.
Si crea così quella situazione paradossale in cui l’ “autenticità”, l’“essere sé stessi”, il “conoscersi”, che l’oracolo di Delfi indicava come la via della salute della mente, diventa nelle società conformiste e omologate, qualcosa di patologico.
Patologico viene considerato: l’essere centrati su sé stessi (self-centred) la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation) il complesso di inferiorità (inferiority complex).
Quest’ultima teoria lascia intendere che è inferiore chi non riesce ad adattarsi, quindi essere sé stessi, non rinunciando alla propria specificità, è una patologia.
Le teorie del conformismo e comportamentismo assumono come ideale di salute l’essere conformi, che, invece, dal punto di vista esistenziale è il tratto tipico della malattia.
Dall’altro canto i singoli interiorizzano i modelli indicati da tali teorie, respingendo qualsiasi processo individuativo che risulti non funzionale alla società omologata, poiché in essa la specificità e la peculiarità individuali, oltre a non essere remunerative, destano persino qualche sospetto.
(estratto NdS)
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