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Riferimento: “Sindrome di Stoccolma”.
Citazione:
Originalmente inviato da leibnicht
La sindrome di Stoccolma non ha nulla a che fare con l'amore: essa è invece un equivalente inconscio del suo opposto apparente, che è l'odio.
In termini freudiani essa potrebbe essere liquiditata come "formazione reattiva", ossia realizzazione di un sentimento (o meglio, un moto dell'animo) di colore contrario a quello autenticamente provato, allo scopo di progettare nella Realtà fattiva (drammaticamente limitata) ciò che effettivamente si prova.
Situazioni di questo genere, in forma molto più sfumata, appartengono al quotidiano di tutti noi.
Così, per esempio, la persona troppo gentile che ci imbarazza addirittura, rivela con l'eccesso della sua gentilezza l'aggressività che inconsapevolmente prova. O il familiare che ci voleva dissuadere da una decisione, rivela, eccedendo nel preoccuparsi per la nostra salute, l'inconscio desiderio che i suoi tristi fantasmi si realizzino.
Chi è vittima di condizioni estreme dell'esistenza, come ad esempio il sequestro di persona, oppure lo stalking esasperato, può sviluppare una sindrome di Stoccolma.
L'odio (che è il sentimento autentico) sorge naturalmente nei confronti della persona che limita drasticamente la libertà e che ci espropria della possibilità di progettare una vita confacente alle naturali inclinazioni e desideri di un futuro libero.
Ma se il malcapitato vittima della situazione si trova in una condizione di impotenza assoluta, dal momento che il sequestratore, o lo stalker, posseggono il potere delle armi o quello giuridico contro di lui, può realizzarsi una efferesi affettiva: una trasformazione, inautentica, del proprio sentimento in uno equivalente, per intensità, ma compatibile con l'orizzonte esistenziale ristretto nel quale la vittima si trova a dover vivere.
In una lettera ad Hitler del 1935, ad esempio, un ferramenta ebreo gli dichiarava la sua più intima e assoluta ammirazione, la sua lealtà più devota ed incondizionata, sebbene dovesse lamentare che "dalla Sua ascesa al potere gli affari andavano molto male e non si trovava nessuno al paese che gli commissionasse incarichi".
A tale condizione potrebbe somigliare, ad esempio, la condizione di un uomo vittima dello stalking di una donna in un paese moralmente degenerato dell'occidente attuale. Oppure quello di un bambino, vittima di abusi sessuali da parte del sacerdote di una comunità cattolica nordamericana, dove interessi economici e religiosi compongono business talvolta difficili da districare. O quello di un prigioniero incarcerato che non viene mai ascoltato dal giudice che lo ha imprigionato e che non gli permette contatti con l'esterno.
Una cosa va sottolineata: l'"efferesi affettiva", ossia la trasformazione di un sentimento nel suo opposto, riguarda solo persone caratterizzate da una difficoltà di lettura delle proprie effettive emozioni, o perché molto giovani o perché disturbate, o perché sopraffatte da condizioni di stress fuori dell'ordinario.
In condizioni di benessere e di maturità psichiche la sindrome di Stoccolma ha scarse probabilità di realizzarsi.
Inoltre l'"efferesi" non implica mai il realizzarsi di sentimenti autenticamente opposti a quelli reali, bensì ad equivalenti contrari.
Così, ad esempio, l'odio può mutarsi in amore, ma mai nell'indifferenza (che è la sua vera antitesi); l'ansia in ebbrezza, ma mai in serenità.
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Non entrerò nei dettagli, l'esperienza riguardo l'odio è stata per me illuminante, non ho mai rinnegato questo sentimento, perché appena quella parte della mente condizionata mi diceva di fare resistenza, stavo male, tra dubbi, sensi di colpa e quant'altro.. ho voluto entrare dentro questo odio e guardarlo direttamente in faccia, affrontare i demoni interiori, è stato un lungo processo, erano subentrati nel frattempo altri disturbi, come la paura di uscire, le mie lunghe passeggiate con il mio cane, si erano limitate attorno all'isolato. Non facevo niente, non chiedevo aiuto, non riuscivo a parlare, sentivo solo odio, ho ucciso tante volte col pensiero e mi recava un gran sollievo pensarlo, era diventata una sorta di rifugio, questo pensiero di vendetta o di giustizia, ma dalla quale non ho mai creduto, apparentemente ero sempre uguale per gli altri, non mostravo nessun cenno di sofferenza, solo chi mi conosce molto bene, aveva notato che stavo sempre per conto mio e qualche cenno di nervosismo, giustificato con svariate scuse, avevo il sorriso fuori e l'inferno dentro, l'odio si alternava alla rabbia, a volte si mescolavano, non capivo cos'era più forte o se erano diventati un'unica cosa, sola con me stessa ho passato momenti tremendi, tremendi..l'unica volta che mi sono lasciata andare ad un pianto che non era per niente liberatorio, è stato dalla mia ginecologa. Poi con il tempo questo odio a momenti si trasformava in dispiacere, non capivo se per me o per lui o addirittura per entrambi, andò così avanti questa alternanza, i primi tempi analizzavo, scandagliavo tutti i momenti vissuti, poi ho capito che non mi portava a niente, e non risolvevo niente, così sono rimasta io e il mio odio, cominciai allora a trasformarlo in carburante, spremendolo fino in fondo nel senso che lo sentivo e lo lasciavo stare lì, senza far più nulla, questo carburante ha permesso di scoprire tante cose su me stessa e su tante altre in generale, così piano, piano cominciò a sfumare, ogni tanto comparivano delle ricadute, e lasciavo stare anche quelle, andava bene così, consapevole che mi avrebbero portato altre risposte, senza cercare. arrivai ad un punto dove sentivo che in fondo all'odio mi veniva da ridere, in un primo momento mi sentivo stupita di questo, poi compresi che questo ridere era l'odio che mi stava lasciando, ovvero non mi stava lasciando, ma si era trasformato nella più assoluta e totale indifferenza. Oggi, sono ritornata a fare lunghe passeggiate
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