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22-10-2014, 11.46.27 | #2 | |
Ospite abituale
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Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Citazione:
La realtà indipendente dal percepito, del quale (unicamente) "esse est percipi" é la cosa in sé o noumeno. Di questa (se é reale, cosa indimostrabile, che credo per fede), l' "esse est non percipi". |
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25-10-2014, 20.03.45 | #3 |
Moderatore
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Volevo aggiungere un commento a questa riflessione che non è facile riportare a un tema unitario. Il centro di essa mi sembra il rapporto tra fenomenico (quindi percepito) e trascendente (oltre il percepito) e che io non vedo come un rapporto contrappositivo e sento bene quell'unità per cui il saggio buddista Mahayana dice che il nirvana è il samsara.
Il trascendente (e di questo ne abbiamo a lungo parlato con Sgiombo) è ciò che è percepito come non percepibile, ma non a mio avviso perché lo si definisce come tale, ma perché si percepisce che le cose percepite implicano proprio in quanto percepibili un non percepito, dunque il mondo fenomenico implica necessariamente il non percepito come suo limite. Abbiamo detto che se esiste una realtà indipendente dal percipiente, esiste per necessità una realtà indipendente dal percepito, Sgiombo l'ha identificata con la cosa in sé, ogni cosa è cosa in sé, dunque è una trascendenza. ma il suo essere in sé implica il suo essere per noi affinché possa essere per sé, ogni trascendente implica il suo fenomenico apparire nel piacere e nel dolore di chi lo percepisce senza pur tuttavia che questo apparire fenomenico possa esaurirsi. Ogni cosa in sé implica la sua fenomenologia, Non è un caso che l'Oriente indichi in una meditazione che è puro accoglimento vigile e passivo del percepibile come la strada per cogliere il trascendente che ci comprende. E' un disinteressato mettersi in ascolto dei fenomeni per far sì che ciò che non appare come fenomeno tuttavia si manifesti nella sua più pura evidenza. |
25-10-2014, 20.55.59 | #4 |
Ospite abituale
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Prima di tutto, un caro saluto a coloro che mi ricordano e coi quali ho avuto stimolanti discussioni.
Mi sembra interessante il discorso di Patrizia Mura. Anche per me sussiste una "ragionevole fiducia" che le cose, gli oggetti, esistano al di fuori dei percepienti (naturalmente il verbo "ex-sistere" non è allo scopo adattissimo, ma serve bene per capire). Su questo ho discusso a lungo con Sgiombo (ciao, come stai?), e ancora, devo dire, continuo a non capire come faccia a parlare di "fede". Mi sembra, a tal proposito, pertinente il riferimento di Patrizia al campo giudiziario, appunto perchè quello dell'"indizio" è proprio l'argomento usato dalla semiotica, e da Peirce in particolare; un argomento che può, perchè no, aiutarci ad "oltrepassare" quelli che giustamente Patrizia definisce "assiomi pietrificati". Oltrepassare come, cioè proseguire come, dopo che innumerevoli indizi ci portano ad avere una ragionevole fiducia circa l'esistenza dell'oggetto indipendentemente dal soggetto che lo percepisce? Ecco, io qui inquadrerei il termine "trascendenza" in un senso meno generico; un senso, direi, kantiano o più ancora heideggeriano. Un soggetto che, dunque, trascende "in direzione" dell'oggetto. Che lo "svela", potremmo dire usando una terminologia non certo moderna. Ma lascio a voi la parola. |
26-10-2014, 02.21.06 | #5 |
Ospite abituale
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Patrizia Mura, in realtà non credo che sia necessario né opportuno postulare l'esistenza della cose non percepite.
Quello che chiami "altre cose" potrebbe essere "la stessa cosa" da un punto di vista diverso (il che ti semplificherebbe il problema di dividerti nettamente dal resto delle cose) e ad ogni punto di vista potrebbe corrispondere una certa percezione. Quando Maral dice che qualcosa ci sfugge per me questo non significa che c'è qualcos'altro che non conosco, che c'è qualche ente che non rientra nei miei fenomeni e magari, in generale, nel fenomenico, ma solo che conosco in un certo modo (il mio punto di vista) una certa cosa (anche l'universo volendo). Cioè, modificando leggermente il modo di esprimersi da quello convenzionale sembra plausibile poter affermare: non è che ci sono tanti enti che non vedo, piuttosto ce n'è uno che osservo in un certo modo (infatti, per esempio, non è che prima di sapere cos'è la luce -in quanto fascio di fotoni- non si conosceva la luce, la si vedeva, la si conosceva così, attraverso la vista). Ovviamente anche "il mio punto di vista" non è che un certo modo di conoscere la stessa cosa (magari l'universo) e non di per sé, separatamente, qualcosa (cosa sarebbe la mia opinione senza quella altrui..?). Non dico che l'unica cosa che esiste è la mia percezione perché non c'è un Io separato. Non dico che esiste solo ciò che gli umani (o "le varie forme di vita") percepiscono, perché non troveremo mai la ghiandola pineale o il processo specifico che crea la coscienza dall'inanimato (il divario tra una possibile sostanza cosciente e una incosciente non si può colmare). Non mi serve una realtà oggettiva per spiegare la stabilità del reale: quando non guardo "io" la luna essa è osservata "dagli altri" enti ed esiste nel loro "percepi" (da qual punto di vista e in quel modo, non certo come ciò che vedrei se la osservassi personalmente), con cui devo relazionarmi perché "io" non sono indipendentemente dagli altri, non sono una monade chiusa, un universo a sé. Per questo studiamo "fisicamente" (quando lo studio è concentrato verso sistemi poco complessi; la materia comune) come "psicologicamente" (quando lo studio è concentrato su sistemi molto complessi; la materia cerebrale ad esempio) il punto di vista degli altri; ma questi nomi (fisica, psicologia, ecc.) non sono che definizioni convenzionali, si tratta sempre di comprendere materia più o meno complessa/cosciente (sto avallando una simmetria tra complessità e coscienza). Maral dice che il fenomeno richiama il noumeno, lo richiede; questo solo perché si vuole parlare del "fenomeno", infatti delimitandolo si creerà l'oltre del limite. Ma questa barriera, il fenomeno e il suo limite, non esiste. Non esiste mentale e obbiettivo, fisico e psicologico, coscienza e materia. Come definire la coscienza? Come "sapere" (magari di esistere..)? E il sapere? Queste cose non sono altro dall'accadere, dall'essere stesso, non c'è modo di definirle/descriverle, non stanno al di sopra di qualcosa di più originario di cui potrete parlarmi, magari la materia incosciente (come posso immaginarla? cosa è al di fuori di un insieme di lettere per me? non posso paragonarla neanche al buio di quando dormo, perché esso è ancora qualcosa di percepito). |
26-10-2014, 09.26.25 | #6 | |
Ospite abituale
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Citazione:
Alcune precisazioni circa le nostre reciproche divergenze. Per me (con Brekeley, per i soli percetti materiali, e ancor più con Hume, anche per quelli mentali), ciò che è percepito non può trascendere la percezione, cioè non può essere che percepito. Quindi ciò che trascende la percezione, il trascendente non può essere, non è percepito ma pensato (si percepisce il pensiero del -che ha per oggetto o “contenuto il, allude al, parla del- trascendente e non il trascendente). Non sono d’ accordo che le cose percepite implicano necessariamente proprio in quanto percepibili un non percepito, e che dunque il mondo fenomenico implica necessariamente il non percepito come fatto reale (lo implica necessariamente, ma solo come suo limite concettuale: per poter parlare di, pensare a un mondo fenomenico di percezioni dobbiamo avere anche il concetto opposto di, dobbiamo necessariamente pensare anche a “il non percepito", ma non è necessaria anche l’ esistenza reale di esso) *. E allo stesso modo anche reciprocamente ogni cosa in sé per me non implica affatto necessariamente (se non in senso meramente concettuale, non fattualmente, non realmente) anche la sua fenomenologia. Non è autocontraddittorio pensare che (= é possibilissimo che) la realtà (in toto) non ecceda le percezioni ma nella sua integrità e completezza si limiti ad esse. Non è nemmeno autocontraddittorio il pensare che invece sia reale anche qualcosa che la trascende (cosa in sé o noumeno), e dunque è altrettanto possibile questa esistenza reale del trascendente, il contrario dell' ipotesi precedente. Immotivatamente, per fede credo (personalmente; e di fatto credono tutte le persone ritenute sane di mente) che accada realmente il secondo dei due casi ipotetici (= che sia vera la seconda delle due ipotesi). Personalmente la mia fede è per così dire “corroborata” (non: in alcun modo dimostrata essere vera) dal fatto che così mi spiego la (pre-) supposta (ma pure indimostrabile) intersoggettività delle percezioni materiali-naturali (presupposto necessario, indispensabile, conditio sine qua non della -possibilità della- conoscenza scientifica -vera-), alla quale credo per fede, nonché i rapporti materia/pensiero (in particolare cervello/mente). Secondo queste mie spiegazioni (ipotesi credendo vere le quali integro e mi spiego la realtà fenomenica in cui mi imbatto direttamente, immediatamente; non nego ovviamente che anche altre ne siano possibili) la cosa in sé (trascendente), pur essendo tutt’ altra cosa (errore comunissimo ma enorme -un’ autocontraddizione!- essendo l’ identificarla con esso), non è in assoluto indipendente dal percepito (nel senso delle percezioni fenomenniche), ma diviene contemporaneamente e in modo biunivocamente e corrispondente ad esso (esse), per così dire “parallelamente ad esso (esse) su un altro piano –o in un altro ambito- ontologico separato”. Essa (la cosa in sé trascendente il percepito inteso come "le percezioni") può essere identificata col percipiente (il soggetto delle percezioni) e/o con il percepito (inteso come l’ oggetto delle percezioni) a seconda dei casi (l’ ultima volta ho accennato al modo -al senso- di queste identificazioni nell’ intervento del 9-10-2014, 22.20.48 in risposta a Patrizia Mura nella discussione “Che cosa significano le parole"). Contrariamente al pensiero orientale (secondo quanto qui scrivi) non credo che ciò che non appare come fenomeno tuttavia si manifesti nella sua più pura evidenza, ma solo che lo si possa pensare, ipotizzare, congetturare (e anche affermare, credere che sia reale). Infatti per me “apparire” e “manifestarsi” sono sinonimi e dunque affermare l’ uno e negare l’ altro è autocontraddittorio. *E qui devo ammettere un errore che ho commesso recentemente nell’ altra discussione “I veri problemi sorgono solo quando ci poniamo delle domande?” rispondendo a Laryn circa una citazione bibilica che affermava la originaria creazione divina di un mondo integralmente “bello”, senza nulla di “brutto”: questo non è autocontraddittorio e assurdo, contrariamente a quanto da me affermato, poiché anche in questo caso la necessità dell’ opposto (il “brutto”) è meramente concettuale e non reale di fatto (ritengo errata e falsa questa affermazione biblica, ma non autocontraddittoria, insensata). Ultima modifica di sgiombo : 26-10-2014 alle ore 16.33.38. |
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26-10-2014, 15.48.13 | #7 |
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
La discussione si fa complessa (e sempre più interessante).
Accenno solo ad alcuni punti di dissenso da parte mia verso gli altri interventi (a Maral ho già dedicato un intervento a sé; l' ho appena corretto perché stamane, data la splendida giornata che si annunciava, non vedevo l' ora di farmi il mio giro in bici e nella fretta vi ho messo varie deplorevoli inesattezze) @ Patrizia Mura e Oxdeadbeef Non riesco a concepire un senso diverso da quello “oggettivo” di “(più o meno) frequente relativamente ad alternative in un numero sufficientemente elevato di casi" ai concetti di "(maggiore o minore) probabilità” o “verosimiglianza”. E se non si tratta della frequenza con cui un’ alternativa accade e al rapporto fra essa e quella di altre diverse alternative in un numero sufficientemente elevato di casi, bensì di un “unicum”, dell’ alternativa fra due singole ipotesi reciprocamente escludentisi per così dire "una volta sola" o "una volta per tutte" (come in questo caso -orrendo bisticcio di parole!- dell’ esistenza reale o meno del "trascendente le sensazioni o cosa in sé o noumeno"), credo non si possa sensatamente parlare che dell’ alternativa fra “vero” o “falso”: in casi come questo il senso “soggettivo” in cui vengono spesso usati (anche da voi) tali concetti (maggiore o minore propensione soggettiva a ritenere vera un' ipotesi) mi sembra vago e inadeguato: o qualcosa è certo o è incerto; in questo caso incerto. Alternativa che non v’ è modo di risolvere logicamente né tantomeno osservativamente, e dunque può essere sciolta unicamente in modo arbitrario, immotivato, ingiustificato (= “fideisticamente”); se la si scioglie, perché altrimenti (concordo in questo con Patrizia Mura) si può sempre sospendere il giudizio. Rilevo semplicemente (fatto che peraltro non dimostra nulla!) che tutte le persone ritenute sane di mente (anche nei casi in cui non credono proprio esplicitamente che, per lo meno) agiscono di fatto come se credessero che la realtà non è limitata al loro solipsistico esperire, come una specie di unico sogno o allucinazione esauriente “il tutto universale”, ma invece esiste realmente anche altro (oggetti; e inoltre se stessi in quanto soggetti di tale loro esperire, reali in sé, anche indipendentemente dall’ esperienza fenomenica stessa). @ Aggressor La luna nell’ ambito della mia esperienza fenomenica cosciente è una certa “cosa”, la luna (o meglio: le lune) nell’ ambito di altre esperienze fenomeniche coscienti sono certe altre “cose” (parimenti fenomeniche); dire che siano uguali o diverse non ha senso per il fatto che ciascuna esperienza fenomenica cosciente è separate da ciascun’ altra: nell’ ambito della mia posso paragonare due oggetti o due caratteristiche di oggetti -per esempio due fiori o i colori di due fiori- e stabilire se sono uguali o meno, ma questo non mi è possibile fra “lo stesso (così impropriamente detto)" fiore nella mia e nella tua eperienza fenomenica cosciente (visto da me e visto da te; come anche "la stessa -così impropriamente detta-" luna); tutto ciò che posso ipotizzare e credere, ma non dimostrare, è che vi sia una corrispondenza biunivoca fra essi. |
28-10-2014, 19.43.20 | #8 |
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@ Sgiombo
Una volta sentii una persona affermare: "il giorno che muoio io finisce il mondo". Beh, potremmo dire che quella persona aveva ragione, non credi? Aveva ragione nel senso che, effettivamente, morto il percepente il percepito cessa di ex-sistere, cioè cessa di essere "stabilmente percepito" come, appunto, qualcosa di "fuori", di "altro" dal percepente. Eppure: possiamo ragionevolmente pensare che avesse ragione? Naturalmente no, visto che morto lui il mondo non finisce di certo. Diciamo allora che il mondo finisce "per lui", ma non finisce "in sé". Ora, dovrebbe quella persona credere che, dopo la sua morte, l'esistenza del mondo sia un mero articolo di fede? Sarebbe, trovo, paradossale equiparare il credere all'esistenza del mondo "in sé" con un articolo di fede che, come insegna Tertulliano, non può che esplicarsi all'insegna dell'"absurdum". Che differenza vi sarebbe fra la "fede", diciamo, fideisticamente intesa e la deduzione razionale? E' chiaro che una deduzione non è una dimostrazione, ci mancherebbe; ma perchè negare come in un "assioma pietrificato" la validità della deduzione? Quante cose saremmo costretti a negarci negando questa "piacevole" facoltà dell'intelletto in favore della sola dimostrazione? Perchè, è chiaro, tutti gli "indizi" ci portano ad inferire che quella persona avesse torto (senza attendere la spiacevole dimostrazione rappresentata dalla sua morte...). |
29-10-2014, 21.24.38 | #9 |
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@ Odeadbeef
Penso che l’ esperienza cosciente di ciascuno di noi sia un mondo o un “ambito della realtà” autosufficiente e separato da quella di ciascun altro (e così pure rispetto alla realtà in sé), anche se in divenire ad esse “correlato”. Dunque alla morte di ciascuno in un certo senso è un ”universo” che cessa di esistere, ed è soggettivamente la totalità della realtà che viene meno per chi ne è “titolare”. Concordo quindi che una volta morta la persona che aveva detto "il giorno che muoio io finisce il mondo" il mondo è finito per lui ma non per altri, né in quanto cosa in sé; ovvero non è finito per altri, né in quanto cosa in sé, ma è finito per lui. A quale aspetto della questione dare più importanza? Quello intersoggettivo (gli altri che sopravvivono), quello oggettivo (la cosa in sé che ci sarà anche dopo l’ inevitabile estinzione dell’ umanità) o quello soggettivo (l’ esperienza cosciente, la vita di ognuno che viene meno alla sua propria morte)? Non trovo una risposta stabile ma oscillo fra le diverse alternative. La concezione che privilegia gli altri che sopravvivono ha trovato nella letteratura italiana un’ espressione poetica da molti criticata (soprattutto da un punto di vista strettamente letterario), a mio parere sottovalutata, comunque attribuita ad un autore per lo più non considerato dei maggiori; opera poetica che invece fin da quando l’ ho incontrata al liceo (in età adolescenziale) mi ha fortemente colpito e affascinato (per me era e resta un capolavoro assoluto della letteratura universale!!!). Alludo ai Sepolcri del Foscolo. Tuttavia anche la vita umana in generale (e le vite particolari dei sopravvissuti a ciascuno di noi) è destinata naturalmente a finire senza lasciare eredi (senza contare che gli assetti sociali vigenti tendono a portarla a rapida morte non naturale ma decisamente “prematura” e per lo meno “colposa”; o forse, se non proprio “premeditata”, per lo meno “preterintenzionale" o addirittura “volontaria”). Alla tua domanda: “Ora, dovrebbe quella persona credere che, dopo la sua morte, l'esistenza del mondo sia un mero articolo di fede?” rispondo: da parte sua il credere che dopo la sua morte il mondo continua (continuerà) ad esistere è secondo me indubbiamente un atto di fede. Infatti non può con tutta evidenza verificarlo empiricamente! Ma nemmeno da vivo poteva in alcun modo dimostrarlo. Non conosco Tertulliano e gli altri padri della Chiesa, ma credo che il suo “credo quia absurdum” si riferisse al cristianesimo e in particolare ai “misteri della fede” (vere e proprie, patenti autocontraddizioni, dunque assurdità). Se nei “misteri della fede” non si può non credere “quia absurda” (se vi si crede), tuttavia non qualsiasi credenza fideistica è necessariamente tale. Non trovo infatti per niente assurdo (e tuttavia assolutamente “fideisico”) credere che esistano anche altre esperienze fenomeniche coscienti oltre a “questa mia” direttamente esperita, nonché una realtà in sé (cosa ben diversa che pretendere che 1=3!), essendo sicuro che il solipsismo non sia superabile se non arbitrariamente, senza che il suo superamento sia in alcun modo dimostrabile né mostrabile. Non posso non comportarmi in un modo che implica necessariamente il crederlo (per lo meno implicitamente): se sospendessi il giudizio per essere coerente non dovrei più interessarmi di nulla, reagire in alcun modo a ciò che mi accade, dovrei lasciarmi morire di inedia nell’ inattività più totale ed assoluta (non attivamente uccidermi); ma così -di fatto: non posso che constatarlo-non è: ho interessi, speranze e desideri (e anche timori). Mi sfugge la differenza che tu poni fra “dimostrazione” e “deduzione”: per dimostrazione o inferenza ho sempre inteso deduzioni e/o induzioni. Ritengo del tutto valide le deduzioni correttamente inferite, condotte ”a rigor di logica”; però credo non sia dimostrabile né deduttivamente né induttivamente (né tantomeno mostrabile) che la realtà ecceda l’ esperienza fenomenica cosciente immediatamente esperita. Gli indizi possono (entro certi limiti e a certe condizioni) bastare in pratica, per esempio in un processo penale; “a rigor di logica no”. E credo che da filosofi (sul piano della teoria pura) dobbiamo considerare anche le ipotesi più inverosimili e “strane”, che praticamente sono irrilevanti, per quanti indizi le contraddicano. @ tutti Colgo l’ occasione per fare spudoratamente un po’ di autopromozione: nelle “lettere-on-line” di questo sito “Riflessioni” compare un mio scritto (un po’ lunghetto, non posso negarlo) intitolato “il paradosso delle moderne neuroscienze” -è la lettera n° 175- in cui espongo le mie convinzioni sulla filosofia della mente. Mi farebbe ovviamente piacere se qualcuno del forum lo leggesse e magari aprisse un argomento di discussione nel forum stesso criticandolo. |
30-10-2014, 13.00.04 | #10 |
Ospite abituale
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Riferimento: Fra fenomenico e trascendente, attraverso le possibili visioni ragioni modi e utilità
Io vorrei sottolineare un punto che mi è caro..
Molti di voi parlano di questa realtà oggettiva come di qualcosa che, seppur non dimostrabile, spiegherebbe bene l'intersoggettività. Perché se uno muore il mondo non scompare, allora ci deve essere una realtà al di fuori del pensiero.. E se invece, semplicemente, quando la realtà non si manifesta più a qualcuno continuasse a manifestarsi a qualcun'altro? Questa ipotesi non renderebbe la questione altrettanto plausibile pur senza gettarsi nei problemi di cose quali realtà trascendenti? Non sarebbe riuscire ad affermare che la realtà esiste solo come rappresentazione senza aver paura che l'universo scompaia quando qualcuno smette di guardarlo? E non si avrebbe anche una ontologia con meno tipi di entità (di cui tra l'altro è assai difficile parlare sensatamente)? Non capisco dove sarebbe la convenienza di postulare la cosa in sé, cioè la capisco solo se dovessi anche postulare (del tutto irragionevolmente mi pare, cioè senza alcun tipo di dimostrazione né fondamento logico) che solo alcuni enti (magari gli uomini e qualche animale, poi ognuno ci ficca le cose che gli pare in questa categoria, del tutto arbitrariamente) percepiscono la realtà. Allora così, certo, se questi enti speciali dovessero scomparire per gli altri sfortunati sarebbe la fine, senza contare che non si saprebbe da dove abbiano tratto la loro esistenza (quegli esseri fortunati), dato che la scienza mostra abbastanza chiaramente come gli uomini, per esempio, derivino da altre entità "non coscienti". |