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16-10-2013, 19.23.34 | #42 | |
Moderatore
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Riferimento: Il principio di identità
Citazione:
Resta però aperta, mi pare, la definizione del sottoinsieme reale che oltre a essere pensato dovrà avere un'altra condizione aggiuntiva ulteriormente limitante che però non potrà essere definita solo pensandola. Cosa impedisce a certe cose pensate di essere reali? Non posso ad esempio dire che l'ippogrifo per quanto pensato non è reale poiché non è utile (la valutazione dell'utile è pur sempre frutto di un giudizio di pensiero e non saprei dire di cosa altro) o perché non è normalmente percepito (la valutazione del normalmente percepito è anch'esso il risultato di un giudizio pensato e non so dire di cosa altro). E' proprio questo cosa altro che mi è difficile da trovare, non so: il puro sentimento? La pura emozione per come si presenta? Il puro fenomeno prima di qualsiasi giudizio? Dire poi che il reale precede e genera il pensato non posso considerarlo soddisfacente, perché anche questo lo sto pensando e non so che altro oltre al pensarlo. |
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16-10-2013, 19.35.56 | #43 |
Ospite abituale
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Riferimento: Il principio di identità
Maral:
Sgiombo, non mi offende certo essere considerato un mistico, non ho mai considerato la parola mistico un insulto, come non lo è razionalista. In realtà ritengo che ci sia anche una strada razionale che conduce verso il misticismo, quando la razionalità vede in se stessa la necessità del suo limite. Certamente il dialogo tra noi è difficile e spesso anche irritante, c'è alla base una grande difficoltà di intendersi, tuttavia proprio per questo, almeno io, lo trovo stimolante. Sgiombo: Era proprio quello che speravo di sentirmi rispondere (l' aspetto irritante della cosa dipende sprattutto dal mio caratteraccio). E sottoscrivo senz’ altro l’ interesse per un confronto di opinioni anche molto distanti. Maral: Per quanto riguarda il cerchio quadrato o altri concetti impossibili, che sono impossibili in quanto ciò che di essi si predica è in contraddizione, sono la dimostrazione di ciò che accade negando il principio di identità (che implica il principio di non contraddizione: se A è A, A non è non A dunque un cerchio non può al contempo essere un quadrato), ossia l'assoluta insignificanza logica che diventa insignificanza totale solo nel caso in cui il principio logico di identità sia assunto come pietra angolare di tutta la realtà. Sgiombo: Sono essi stessi intrinsecamente autocontraddittori. Ma che significa “che diventa insignificanza totale solo nel caso in cui il principio logico di identità sia assunto come pietra angolare di tutta la realtà”? Un principio logico è pertinente unicamente al discorso (circa la realtà) e non alla realtà (casomai lo sarà un principio ontologico). Maral: Il linguaggio mistico che fa perno sul simbolo a mio avviso può portare oltre questa pre - assunzione anche se dal punto di vista logico appare assurdo. Come già ebbi a dire con Aggressor tuttavia, questi enti di cui si predica in modo contraddittorio non equivalgono a una successione casuale di lettere priva di significato di cui nulla si predica. I primi infatti mettono insieme significati contraddittori per produrre un'insignificanza logica, la sequenza casuale invece non mette insieme nessun significato, è insignificante per assenza di significati (a parte il significato di esserci), non per presenza di significati contraddittori. Forse la sequenza casuale è ciò che più si avvicina concettualmente alla pura sensazione. Sgiombo: beh, qui vai sul mistico e non mi è possibile seguirti (per me può esistere ed esiste unicamente un discorso, cioè una successione di simboli sensata, che sia logico e non autocontraddittorio. Maral: Non vedo infine cosa ci sia di inconcepibile nell'affermare che il principio di indeterminazione della MQ non ha validità cognitiva universale. Il principio su cui si fonda la MQ è che l'ente esiste solo quando lo misuro e da qui constata che poiché non posso misurare due proprietà fisiche tra loro ortogonali l'ente non sarà mai completamente definito, sarà quindi una sorta di probabilità ontologica, ma è evidente che può essere solo una probabilità ontologica nell'ambito della pre assunzione arbitrariamente presa che l'ente esiste solo quando lo misuro. Sgiombo: D’ accordo. Infatti personalmente seguo una diversa interpretazione realistica e deterministica (ontologicamente, non ovviamente gnoseologicamente); infati quello cui sommariamente accenni non é la MQ ma l' interpretazione che io definisco "conformistica corrente" dell' indeterminismo quantisitico. Ciao! |
16-10-2013, 21.50.17 | #44 |
Ospite abituale
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Riferimento: Il principio di identità
@ Maral
Non c'è dubbio che per Severino la distinzione fra essere predicativo ed essere esistenziale sia, in linea di principio, del tutto superabile (molto acuta questa tua riflessione). Ovviamente, l'insuperabilità di una tale distinzione si ha solo all'interno di una concezione dell'essere come "possibile", ove con tale termine si intenda un essere che "può essere" (un qualcosa di specificato - potrebbe anche non essere). Troverei, a questo punto, interessante andare a vedere la posizione di Aristotele, che condivide con Severino una visione dell'essere come necessario (ciò che è non può non essere). Aristotele, e non a caso (come puoi ben comprendere), distingue l'essere predicato "per accidente" e l'essere predicato "assolutamente". Ovviamente, l'essere predicato per accidente è un essere possibile, non un essere necessario (Aristotele afferma che la proposizione "Omero è poeta" è accidentale - il che vuol dire che Omero potrebbe anche NON essere poeta). Ecco dunque spiegata l'affermazione: "l'essere si dice in molti modi", cui però Aristotele aggiunge: "uno solo però è il suo significato primario e fondamentale" (Severino, con tutta evidenza, parla piuttosto di un solo significato, visto che per lui l'essere si dice in un solo modo). Ma allora la domanda che ponevi è riproposta, perchè l'essere necessario, sia nel modo in cui lo descrive Aristotele (accidenti a parte), sia in quello di Severino, è un essere che abbraccia tutta la realtà. La mia posizione, dicevo, è invece quella di una concezione dell'essere come possibile, quindi di una concezione dell'essere che non abbraccia tutta la realtà. Naturalmente le tue affermazione sul dovere morale così come è concepito da Kant sono assolutamente condivisibili. E d'altronde è noto che Kant operi arbitrariamente un re-inserimento (diciamo così) a-prioristico di un dovere morale assunto originariamente come postulato (essendo, il dovere morale, un giudizio sintetico a-priori esso, secondo Kant, dovrebbe poter essere verificato empiricamente...). Lo stesso Kant, mi sembra, ne è assolutamente consapevole. Diciamo allora che la posizione di Kant...mi piace. Sì, mi piace esteticamente ed esistenzialmente, perchè in essa ritrovo quella "umana debolezza" che non trovo in altre "rigorosissime" visioni, tutte impregnate di una logica che si vorrebbe "ferrea", ma che alla prova dei fatti rivelano falle paurose, e quasi sono "costrette" ad andare a parare in una metafisicità la cui "carica" fa impallidire quella di Kant (ogni riferimento a Severino è fortemente voluto...). Che, d'altronde, non esistano risposte "certe" in materia lo sai (o lo sospetti) da te. Per parte mia posso solo provare a "convincerti" liricamente, o prosaicamente (ma non svaluterei troppo questi aspetti). ciao |
17-10-2013, 12.15.11 | #45 |
Moderatore
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Riferimento: Il principio di identità
Oxdeadbeef, sono fondamentalmente d'accordo con te sul valore dell'apertura kantiana alla diversa possibilità dell'oggetto del dovere (che pure mantiene ferma la necessità ontologica del dovere in sé), tuttavia vorrei sottolineare come anche la necessità logica dell'Essere che abbraccia tutta la realtà può ammettere senza contraddirsi la molteplicità degli enti senza, come fa Aristotele, porre ad arbitrio una distinzione tra essere predicati assoluti o accidentali e questo percorso è proprio Severino a mostrarcelo in diretta polemica con Parmenide. L'Essere uno e immutabile di Parmenide è ben diverso dall'Essere di Severino, perché mentre il primo è un essere estratto dagli essenti (una sorta di purissimo unico distillato) che finisce per negare in nome della sua astrazione gli essenti stessi che ne sono a fondamento e dunque si riduce a niente, quello di Severino è l'essere che è solo in quanto è molteplicità essente, dunque è infinita molteplicità di eterni infiniti per i quali ogni arbitraria differenza tra predicati assoluti e accidentali viene negata in nome dell'assoluto di ogni predicato (non posso separare l'essere acceso di questa cosa che è una lampada accesa dal suo essere lampada accesa, l'essere acceso di questa lampada è assoluto e immodificabile quanto il suo essere lampada), Ed è proprio per questa molteplicità infinita ed eterna, tenuta insieme dai rapporti che gli enti intersecano tra di loro in un intreccio avente per base il principio logico di identità connettiva, che il sopraggiungere e il tramontare degli enti appare. In tal senso l'apparire degli enti come un mutare è necessità del continuo poter apparire di un'infinita eterna concreta molteplicità che coinvolge insieme ogni osservatore e osservato. Il mondo appare quindi diveniente pur non essendolo perché questo è il modo necessario che ha di apparire e appare pertanto soggetto a una legge morale, appare un bene e un male e la possibilità di scegliere tra essi, pur essendo ogni essente in quanto è, al di là del bene e del male e al di là di ogni giudizio tra diverse alternative e, solo in quanto è, è già da sempre e per sempre salvo.
Nell'essere di ogni essente dunque non c'è possibilità, esso è e pertanto per necessità ontologica è già libero da ogni male, ma questo non toglie che poiché il suo essere è per la stessa necessità anche apparire e apparire separatamente, appare costantemente la possibilità di una libera scelta tra diversi modi di essere. |
18-10-2013, 08.45.55 | #46 | ||
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Riferimento: Il principio di identità
Citazione:
Non penso che Shakespeare identificasse la filosofia con "ciò che si può pensare". Anche qua, la filosofia è un sottinsieme di ciò che si può pensare. Comunque ammetto che questa citazione è un buon colpo! Citazione:
Giudico una entità "reale" se utile ad organizzare le mie percezioni. Che sia utile o meno "dare esistenza" all'ippogrifo è un mio giudizio. Non è arbitrario; se giudico in modo non ragionevole non riesco ad interagire in modo efficace con la realtà (ovvero in futuro percepirò cose sgradevoli). Ma questa affermazione non ha caratteri metafisici, è un dato sperimentale. |
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19-10-2013, 12.02.55 | #47 | |
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Riferimento: Il principio di identità
Citazione:
Lo schema mi sembra essere questo: Ci sono delle percezioni e tra queste: -la percezione di un soggetto (io) che percepisce e può organizzare coscientemente (a mezzo della sua cosciente volontà pensante) queste percezioni -la percezione di un utilità o non utilità di tale organizzazioni di pensiero, ossia della qualità percepita di tali organizzazioni per il soggetto stesso. Tra le percezioni io comunque ci metterei pure: -la percezione del non percepito e del non pensato in quanto tale (a mio avviso non importa se è metafisico, è comunque una percezione il cui esser detta metafisica non incide sul giudizio di realtà valutabile solo a posteriori in base alla sua utilità per il soggetto). Chiameremo a questo punto realtà solo quelle organizzazioni delle percezioni (dunque del pensato della volontà cosciente pensante chiamata io) che producono la percezione di una qualità positiva (dunque utile) alla percezione del soggetto, tutto il resto è irreale (comunque non in senso assoluto). La prima osservazione che faccio è che comunque tutto il discorso resta retto dal principio di identità solo per il quale quell'utile è utile (ossia è se stesso), dunque il P.I. è sommamente utile e quindi sommamente reale anche in ambito soggettivo pragmatico, altrimenti l'utilità stessa, anche soggettiva, perde di senso. La seconda è che comunque la qualità positiva alla luce della quale il soggetto valuta cosa sia reale è relativa a un io che comunque percepisce altri io diversi da sé, quindi con diversa percezione qualitativa e questo resta certo anche in termini solipsistici (se io, che la penso diversamente da te reputando utile la percezioni del non pensato, comunque appaio nel tuo pensiero comunque ci sono e a nulla ti servirà negarlo, indipendentemente dal fatto che consideri utile o non utile - reale o irreale- il mio esserci). Quindi resta aperta e non risolta la questione dell'utilità intersoggettiva determinata dalla evidente percezione della irriducibile differenza intersoggettiva, comunque tu la giudichi. La terza è che la volontà cosciente pensante è una percezione che ha un ruolo decisivo sul giudizio di ciò che è utile e cosa no, dunque su cosa è reale e cosa no, ma cosa giustifica questa ruolo decisivo se non la volontà stessa indipendentemente da tutto ciò che possa percepire o pensare? L'io acquisisce il suo ruolo di giudice supremo non perché lo sia, ma perché lo vuole e allora nulla temo possa toglierci il dubbio che questa volontà possa non essere utile, quindi possa non essere reale. In tal modo, nel suo ruolo autoreferenzialmente voluto di giudice supremo, l'io entra in contrasto con il principio di identità e voler dimostrare che esso è reale solo in quanto l'io sceglie di volerlo, ma purtroppo in tal modo (ammettendo implicitamente la possibilità di una libera scelta diversa) l'io stesso finisce con l'annientare il suo stesso senso, la sua stessa utile realtà. |
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20-10-2013, 07.59.03 | #48 |
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Riferimento: Il principio di identità
In risposta a maral, riporto il suo scritto inserendo i miei commenti
Lo schema mi sembra essere questo: Ci sono delle percezioni e tra queste: >>> Come premessa, differenzierei percezioni e pensieri. Nel modello computazionale che ho in mente le percezioni sono degli input, i pensieri sono delle procedure che, tra le altre cose, possono elaborare le percezioni -la percezione di un soggetto (io) che percepisce e può organizzare coscientemente (a mezzo della sua cosciente volontà pensante) queste percezioni >>>Anche se in effetti è plausibile, non chiamerei “percezione” la coscienza di sé. E’ una discontinuità, il pensiero che viene prima di ogni altro -la percezione di un utilità o non utilità di tale organizzazioni di pensiero, ossia della qualità percepita di tali organizzazioni per il soggetto stesso. >>>Anche questa secondo me non è una percezione, ma un pensiero, è più specificatamente un giudizio. Tra le percezioni io comunque ci metterei pure: -la percezione del non percepito e del non pensato in quanto tale (a mio avviso non importa se è metafisico, è comunque una percezione il cui esser detta metafisica non incide sul giudizio di realtà valutabile solo a posteriori in base alla sua utilità per il soggetto). >>> Anche questo lo chiamerei “pensiero”. Come si può percepire il non percepito? Chiameremo a questo punto realtà solo quelle organizzazioni delle percezioni (dunque del pensato della volontà cosciente pensante chiamata io) che producono la percezione di una qualità positiva (dunque utile) alla percezione del soggetto, tutto il resto è irreale (comunque non in senso assoluto). >>> anche qua, invece che di percezione di qualità positiva parlerei di giudizio La prima osservazione che faccio è che comunque tutto il discorso resta retto dal principio di identità solo per il quale quell'utile è utile (ossia è se stesso), dunque il P.I. è sommamente utile e quindi sommamente reale anche in ambito soggettivo pragmatico, altrimenti l'utilità stessa, anche soggettiva, perde di senso. >>> In effetti il principio di identità (che preferisco chiamare principio di coerenza della realtà) è alla base di tutto – direi persino che è talmente ovvio che non è particolarmente utile esplicitarlo La seconda è che comunque la qualità positiva alla luce della quale il soggetto valuta cosa sia reale è relativa a un io che comunque percepisce altri io diversi da sé, quindi con diversa percezione qualitativa e questo resta certo anche in termini solipsistici (se io, che la penso diversamente da te reputando utile la percezioni del non pensato, comunque appaio nel tuo pensiero comunque ci sono e a nulla ti servirà negarlo, indipendentemente dal fatto che consideri utile o non utile - reale o irreale- il mio esserci). Quindi resta aperta e non risolta la questione dell'utilità intersoggettiva determinata dalla evidente percezione della irriducibile differenza intersoggettiva, comunque tu la giudichi. >>>Certo, le percezioni dell’io sono tali che gli fanno “creare” gli altri, che sono sicuramente reali – utili a gestire bene ciò che percepisco –Il fatto che gli altri io possano pensarla diversamente da me non lo vedo problematico La terza è che la volontà cosciente pensante è una percezione che ha un ruolo decisivo sul giudizio di ciò che è utile e cosa no, dunque su cosa è reale e cosa no, ma cosa giustifica questa ruolo decisivo se non la volontà stessa indipendentemente da tutto ciò che possa percepire o pensare? L'io acquisisce il suo ruolo di giudice supremo non perché lo sia, ma perché lo vuole e allora nulla temo possa toglierci il dubbio che questa volontà possa non essere utile, quindi possa non essere reale. In tal modo, nel suo ruolo autoreferenzialmente voluto di giudice supremo, l'io entra in contrasto con il principio di identità e voler dimostrare che esso è reale solo in quanto l'io sceglie di volerlo, ma purtroppo in tal modo (ammettendo implicitamente la possibilità di una libera scelta diversa) l'io stesso finisce con l'annientare il suo stesso senso, la sua stessa utile realtà. >>> Cioè c’è una volontà dell’io indipendentemente dalle percezioni? Sì, concordo, ma anche in questo caso non vedo problemi. Perché questa volontà dovrebbe entrare in conflitto con il principio di identità? E comunque la volontà dell’io viene prima di qualsiasi percezione e di qualsiasi giudizia di utilità – o realtà. |
20-10-2013, 13.32.58 | #49 | ||
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Riferimento: Il principio di identità
@Albert
In merito alla differenza tra pensieri e percezioni la trovo senza dubbio opportuna, pur tuttavia credo sia necessario mostrarne le implicazioni (che invece forse un modello computazionale non cosciente di input e procedure non può mostrare). Questa implicazione reciproca, che forse è la chiave del processo cosciente, è che percepire è anche percepire come dato immediato (nel senso di non elaborato) il proprio pensiero. La coscienza di sé quindi implica una percezione: il dato del pensare se stessi come discontinuità che viene prima di ogni altro e così anche per quanto riguarda il giudizio che è certo pensato ma anche percepito. Certamente si può obiettare che la percezione della procedura non è la procedura (così come si obietta -v. Sgiombo e Russell- che il pensiero del dato non è il dato), ma questo implicherebbe che ogni procedura possa essere originariamente non data, che dunque per quanto ci appaia immediatamente evidente, come il fatto che io esisto, non sia per nulla evidente. In altre parole è l'evidenza dei miei processi di pensiero che me li fa leggere anch'essi come dati percettivi, anche se sono dati percettivi sicuramente diversi rispetto al dato percettivo di una mela o di una banana. Per quanto riguarda il "non percepito" di cui mi chiedi come si fa a percepirlo credo che lo si percepisca come mancanza non specifica . Quando è possibile che la mancanza sia un dato originario del processo di conoscenza? Lo è quando avvertiamo immediatamente (dunque percettivamente) l'insufficienza di una collezione di dati percettivi ad avviare un processo elaborativo di pensiero se non appunto introducendo in esso come dato aggiuntivo questa mancanza indefinita. Citazione:
Citazione:
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21-10-2013, 20.55.41 | #50 |
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Riferimento: Il principio di identità
@ Maral
Per Severino l'essere è molteplicità essente, ma questa molteplicità "è" eternamente. Ed "è" necessariamente. Quindi è chiara la differenza con Parmenide (anche se ci sarebbe da discutere sul "come" la filosofia eleatica e quella di Severino intendono il movimento - o l'immobilità), ma è anche chiara l'analogia con Aristotele, laddove quest'ultimo afferma l'essere come predicato assolutamente (naturalmente Severino non direbbe mai che "Omero è poeta" per accidente, visto che per lui Omero è poeta eternamente e necessariamente, e potrebbe semmai NON essere poeta solo in un diverso apparire dell'eterno - e in tal caso NON sarebbe poeta eternamente e necessariamente). In parole povere: in Severino è escluso l'essere come possibilità, mentre Aristotele lo ammette per poter giustificare il divenire. Però, per ambedue, è comune la visione di un essere (primario per Aristotele, essere e basta per Severino) eterno e necessario. Ora: "esiste", cioè viene alla luce questo essere? In Aristotele viene alla luce come "essenza" (un'essenza che prima la filosofia araba poi quella scolastica muteranno in essenza "primaria" (traducendo assai liberamente Aristotele...). In Severino, a me pare, viene alla luce come "cerchio dell'apparire degli eterni". Per Severino, come del resto per Parmenide, il mondo "appare" diveniente, ma in verità non lo è ("la ragione, non l'occhio, vede il vero", dice Parmenide). Ciò può solo voler dire che l'essere viene alla luce, cioè esiste, non come oggetto di percezione sensibile, ma come oggetto di ragione filosofica. A questo punto, però, ciò che viene alla luce è una differenza, con Kant filosoficamente importantissima. La ragione di Severino è una ragione assoluta; una ragione che, addirittura, marchia come apparenza l'intera conoscenza sensibile. Inutile dire che ben diversa è la posizione di Kant, che della ragione illuministica (quindi una ragione ancora ben lungi dalle assolutezze severiniane...) istituisce il "tribunale", allo scopo di denunciarne la pretesa assolutistica. Per Kant, come ben più modestamente per me, la ragione è una luce debole e fioca, che tuttavia illumina e rende meno cieco il nostro cammino. Severino, francamente, mi pare dica: "sia fatta luce". Ed in questo si paragoni a, diciamo, "qualcun altro" di una certa importanza per la storia dell'umanità... ciao (poi, intendiamoci, potrebbe anche aver ragione lui, ma quel che afferma mi appare come "sovrumano"- o "disumano"...) |