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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere. |
06-01-2013, 07.52.25 | #6 |
Ospite abituale
Data registrazione: 08-05-2009
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Riferimento: L'immagine e la verità
@ Paul
"La tragedia diventa allora semplice apparenza di una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene perduto è null'altro che una particolarità unilaterale che non ha il minimo valore." Infatti, l'individuo dei giorni nostri non è così spaventato dalla morte secondo me: non perché proprio non la tema, ma perché in una quotidianità così ripetitiva e priva di pericoli ( quei 30 cm tra un giro in macchina ed un frontale, insomma: l'apparenza inganna ) è un pensiero piuttosto remoto. Vale per la morte qui quel che Beccaria diceva per la pena: due sono gli aspetti più importanti, la sicurezza con la quale essa viene dispensata e la celerità: la prima è garantita, ma la seconda... Beh, si pensi ai fumatori: sanno quanto fa male fumare, ma non è certo una preoccupazione a 20 anni. Nella vita odierna ci sono poche occasioni in cui si è tenuti ad un incontro precoce con la morte ( di solito per via di qualche caro ) ed allora si grida all'ingiustizia del mondo; ma se pure eventi del genere spingono verso una riflessione a tema, una volta accettato il lutto e placato il dolore, anche il pensiero torna ad alleggerirsi: di nuovo la morte mi è estranea, non mi riguarda più. Trovo che solo eventi particolarmente tragici riescano a fissarlo in maniera più o meno duratura, di solito perdite amorose. E' curioso come la morte di migliaia di persone ogni giorno non turbi minimamente la maggior parte di noi, mentre il semplice distacco da una singola ( il famoso sfanculamento! ) riesca a gettarci sul fondo della grecità! del che dice bene Bauman ( http://www.youtube.com/watch?v=DIaT8wwHnz0 qui, se volete, c'è un pezzo che riguarda questo discorso, visto che credo lui lo spieghi un po' meglio di me :P ): "il pensiero unico", il pattern sociale obbligato - per convenienza, che però è quasi legge, che porta alla deresponsabilizzazione individuale, poiché scinde il soggetto dai suoi ruoli: il giornalista, mentre lavora, non è uomo, ma soltanto giornalista, e agisce solo in quanto tale: a modo suo di vedere, non c'è spazio per la scelta morale: c'è una sola reazione possibile, ed è la foto. Il che certo è un discorso vero fino ad un certo punto perché è davvero assurdo pensare che gli uomini si perdano del tutto nel ruolo: Ma gli studi sull'argomento mi pare evidenzino una tendenza forte di questo tipo. Il soggetto è sempre meno uomo e più macchina da carriera... Non che il secolo scorso e quello prima la carriera non fosse importante, certo: ma allora il lavoro non era solo in vista del guadagno, era uno stabilizzatore dell'identità, mentre oggi, succede che diventi un sostituto. l'individuo sparisce dietro le quinte e mette fuori il naso a fine giornata! Se parlavo di amore prima è perché, sempre citando Bauman in un altro suo discorso, in una civiltà dove il pensiero della morte giunge raramente e per poco tempo, o in età avanzata, è l'esperienza che più fa da surrogato. Il mio prof. di sociologia della famiglia, quando ci spiegava l'impatto psicologico delle rotture nelle relazioni da parte di chi le vive ( ho avuto la brutta idea di scegliere sociologia come università! anche se a me piace ), parlava di come quando una relazione andasse bene anche gli avvenimenti gravi come il licenziamento potessero essere accettati con la comprensione dell'altro; ma quando invece il legame si spezzava... beh allora arriva la tristezza profonda, e se la prendi troppo male può finire anche che ti ammazzi. perché ( in caso d'amore ovviamente ) si perde qualcosa d'insostituibile, e ci si rende meglio conto di quel lato tragico, irrazionale e straziante della vita, dell'unicità di ogni individuo e di ciò che con esso si perde per sempre: altro che la morte della nonna o roba del genere ( è un'ironia triste, ma sincera nel più dei casi ) Bauman sempre a proposito diceva che se la morte fisica si allontana sempre di più da noi, quella psicologica, diversamente dai tempi precedenti, in cui la comunità era un aggregato forte e si passava la vita con le stesse persone, ci può fare visita diverse volte nella vita ( questo anche perché le persone, non confrontandosi personalmente con la morte, non vivendola nelle giornate come in passato, sono anche molto più impreparate alla vita e maturano più lentamente ). Il quale è un discorso che ci interessa anche sotto un altro punto di vista, secondo me, ovvero: due morti differenti hanno due pattern diversi: se quella fisica è esperienza totale, la cui difficoltà viene nell'affrontarne la possibilità o la certezza prima, la seconda ( ho parlato di amore prima, ma anche il lutto di un caro ci avvicina ad essa ) è parziale: a morire è una parte di noi, importante certo, ma pur sempre una parte. Ed è allora che nasce una buona fetta dell'uomo moderno - ed è qui che volevo arrivare, si porti pazienza - in cui la capacità di affrontare la vita non è più legata solamente alla propria forza mentale nei confronti della morte - ma anche nei confronti degli altri: se in fondo l'altro mi vede come mezzo, se io decido di vederlo come fine... beh, capita che ci si fotta da soli. E' il caso secondo me dell'amore ( oggi, riscoperto e legittimato il principio antropico "self-centered" umano ) che ha come oggetto una specie di illlusione creata e condivisa da due persone per un lasso di tempo utile a trarne godimento comune; l'amore "leggero" che dev'essere vissuto in modo altrettanto leggero: e chi su ciò s'illude di qualcosa di più "pesante" rischia, come diceva il mio prof, addirittura le penne se finisce per crederci! ( ...secondo me fa meglio a ripensarci! ) questo per dire che, per usare un esempio "sportivo" se ad esempio nel poker il range di chiamata per essere profittevole deve basarsi su quello assunto di rilancio dell'avversario - nei rapporti interpersonali vige una regola del genere: se so che probabilmente la persona che ho davanti si aspetti da me al massimo un rapporto a breve termine, farò meglio ad assumere lo stesso di quella fino a nuovo ordine: e anche lì sarà meglio che mi scriva allo specchio la parola "anthropos" ( anche se con il principio la parola originale ha ormai poco a che vedere, ma andando per associazioni, è un buon reminder, perché ormai le relazioni sociali non si costruiscono per essere conservate ( che spreco di risorse ) ma soltanto consumate ), per non dimenticarmi del principio che regola il mio mondo: e che dietro le illusioni, gli ordini ed i castelli in aria resta una realtà perfettamente immutata, nella sostanza, da quella greca... anche se la maggior parte della gente si sforza di nasconderla dietro mille sorrisi e altri pensieri più positivi. il che non è che sia sbagliato, ma lo è se prima non si è riflettuto a lungo e bene e compreso il lato negativo e più fondamentale dell'esistenza - quello tragico appunto, che altrimenti, prima o poi, ci coglierà in flagrante. Al che bisogna dare un po' ragione anche al vecchio Arthur... "la vita è dolore" diceva, si e no: Nietzsche ha più ragione ad affermare "piacere E dolore", ma la fetta di verità che rimane alle analisi di Schopenhauer sulla questione è che il dolore, tra le due, è il carattere più fondamentale della vita. Ritornando sulla questione di prima - il modo di affrontare la "sfida psicologica" che la contemporaneità ci offre - o per meglio dire ci impone - ( per la cui comprensione raccomando sempre il video di prima di Bauman ) ci sono a mio parere diversi modi, ma ci sono alcuni standard che tutti questi rispettano: il farsi piccoli, mettere da parte la propria personalità, comportarsi in funzione di ciò che gli altri si aspettano da me in società; non essere "me" ma "uno a caso" che magari pur stando nel suo ruolo riesca a mostrare carattere e forza: questo è il successo sociale oggi. Il che, anche nelle reti informali, è un compito piuttosto gravoso a seconda dei casi. Forse ci voleva più coraggio ad affrontare la morte a Roma: ma di certo per vivere oggi ci vuole molta più pazienza - e, se mi è permesso, capacità di recitazione. Non più l'individuo che è questo e questo, ma quello che appare questo e questo ha successo. La società si è fatta immagine: quel che ci sta dietro non importa più. Ho fatto questo discorso perché secondo me ha un nesso con il tuo, Paul: il fatto è che la moralità non conviene da nessuna parte. La verità sulla verità di cui tu parli, secondo me, è che quell'immagine non ci svela la nostra inumanità, ma tutta la nostra bassa, bassissima, umanità, spirito di conformismo, assenza di criticità sulle nostre stesse azioni: non ci si stupisce, non si riflette, si da per assunto che ciò debba essere così com'è perché così era quando l'abbiamo conosciuto: chissà che i poliziotti, ogni tanto, quando sparano, non sorridano ( non si offendano i poliziotti, che è una metafora per dire altro ). Purtroppo per un mondo del genere però il "guarda e passa" si presenta ai più come l'unica soluzione: peccato che per quanto lo guardiamo, continui a starci davanti agli occhi. Chissà che tutto ciò non porti ad essere l'optimum per vivere la situazione mentale descritta da Camus alla fine del suo Lo straniero che cito per chi non l'avesse letto o non se ne ricordi. Lo straniero, il protagonista, dopo essere stato condannato a morte e lunghi giorni di prigionia, trova finalmente modo di esprimere il pensiero che si porta dentro fin dall'inizio in occasione del suo incontro col prete, arrabiandosi con lui, e dopo che questo se ne va, conclude: "... come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno dellla mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio." lui sì che era un uomo moderno! |
07-01-2013, 00.09.03 | #8 |
Ospite abituale
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Riferimento: L'immagine e la verità
@ Soren
Soren, non credi che il tuo discorso possa essere ricondotto a quel che affermavo nel post "l'uomo e la tecnica", ove in risposta a "La Viandante" dicevo che la "tecnica" è essenzialmente un rimedio contro l'angoscia suscitata dal divenire delle cose? Non voglio dire che l'angoscia del divenire (dunque del ritorno inevitabile al "nulla") sia sempre cosciente come stato d'animo che ha, appunto, nel divenire il suo oggetto. L'eccessivo scientismo di cui si imbeve certa psicologia dilettantistica ci ha "ammaestrati" a credere che la depressione sia una malattia, e che perciò si debba andare dal dottore a farsi, prima, fare una diagnosi, e poi prescrivere una cura. Evidentemente così non è, e la depressione (uno stato d'animo sempre più diffuso in occidente, tanto che si è ormai giunti a numeri paurosi per quel che riguarda il consumo di psicofarmaci), o "melanconia", come la chiamavano gli antichi, è causata essenzialmente dal timore che suscita il divenire delle cose (la possibilità reale che tutto possa avvenire, come diceva Kierkegaard, anche la cosa più atroce). Uno dei "furbeschi" mezzi che l'occidentale adopera per far fronte alla depressione è il tuffarsi in un lavoro frenetico (Luciano de Crescenzo diceva che l'uomo è come il motore di una barca: ha sempre bisogno di stare in acqua e trovare una resistenza al girare dell'elica, o altrimenti il numero di giri sale troppo e il motore si brucia). Tanto che, come ben dici, la professione ha sostituito, nell'individuo, l'identità. Hegel chiamava questo "alienazione", cioè alienazione del "sè" che non si vede più come tale, ma come oggetto. L'uomo dunque si aliena, e si aliena perchè se si vedesse come "sè", cioè come identità, sarebbe costretto a fare i conti con quella che è la sua più intima natura, che è quella di essere finito. Egli allora, come meravigliosamente ci descrive Heidegger, comincia a vivere una vita "inautentica": una vita cioè come se il dolore e la morte non esistessero: la vita di un oggetto, non di un soggetto (l'avvocato; l'ingegnere; l'idraulico o l'imbianchino sono figure che non muoiono mai). Naturalmente, mi rendo conto come nel tuo discorso il dolore e la morte non possano che essere trattati come cose "lontane"; certamente più lontane di come non le veda io; ma questo, credimi, è dovuto al fatto che hai solo 23 anni... Divagazioni anagrafiche a parte (sappi però che non è necessario essere troppo "avanzati" con l'età per avere simili e spaventosi pensieri), trovo molto interessante il tuo ragionamento sull'amore. Qui devo dire di non essere per nulla d'accordo con il tuo professore (sì, sociologia è stata davvero una pessima scelta). Noi uomini (sì, perchè le donne hanno un atteggiamento verso l'amore ben più pratico e disincantato) siamo ancora troppo immersi nella dimensione "romantica" dell'amore. Ove con il termine "romantica" mi riferisco precisamente alla dimensione filosofica ottocentesca, nella quale l'amore era visto come l'espressione, il simbolo, dell'infinito; e pur se si rivolgeva a creature finite. Hegel sosteneva che l'amore esprimesse la coscienza dell'unità dell'"io" e dell'"altro". La nozione romantica dell'amore rappresentava il sentimento dell'unità cosmica, e tale sentimento, come tale unità, è inteso come infinito. Da questo punto di vista, è evidente che la rottura del legame amoroso è vista come la rottura di una unità cosmica; quindi come la rottura "impossibile" dell'infinito, con il suo relativo precipitare in un finito che è, in radice, dolore e morte (ecco la tristezza profonda e, in alcuni casi, perfino il suicidio: la rottura del legame amoroso è la rottura dell'identità romantica di finito ed infinito). Tuttavia, è bene essere consapevoli che anche il legame amoroso così, romanticamente, inteso è null'altro che una alienazione. Come il signor "X" si aliena nell'"avvocato" per non essere costretto a fare i conti con la sua natura finita (per non essere costretto a vedersi "in sè" come essere destinato al dolore ed alla morte), così il legame amoroso viene alienato in una illusoria unità cosmica ed infinita, che consente agli "attori" del legame di vivere quel legame "inautenticamente", ovvero come se la finitezza, cioè il dolore e la morte, non esistessero. E dunque, viste le premesse, concludo con la domanda: anche il legame amoroso come tecnica efficace contro l'angoscia suscitata dal divenire delle cose? Il legame amoroso sta forse al giovane come il lavoro frenetico sta al meno giovane? un saluto (e un complimento per essere lettore di Camus) |
07-01-2013, 09.55.06 | #9 | |
Ospite abituale
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Riferimento: L'immagine e la verità
Citazione:
Inoltre dato che i romani hanno fatto proprie molte usanze greche, non lo so per certo ma credo che abbiano ereditato anche molti loro strumenti di tortura. Ma di certo Roma fece della crudeltà uno strumento politico. I giochi, così li chiamavano, servivano per tener buono il popolo e per rendere popolare chi li finanziava. Credo che gran parte della civiltà consista nel cercare di eliminare progressivamente quel senso di crudeltà insito nell'animo umano. Io credo che quando uno vede qualcuno che sta morendo e la cosa migliore che gli viene in mente di fare è scattare una foto o fare un filmino, questi è complice della morte che sta cogliendo il disgraziato. Non lo uccide forse fisicamente ma, e non so se è peggio, sta tessendo le lodi del macabro spettacolo che la natura gli offre immortalandolo nella galleria della sua demenza. La riflessione forse indebolisce l'attività pratica quantitativamente, ma la migliora qualitativamente |
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09-01-2013, 10.24.54 | #10 |
stella danzante
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Riferimento: L'immagine e la verità
Il tempo che viviamo non corrisponde più al nostro tempo interno, in passato regolato da albe, tramonti, stagioni. Oggi, vivendo nelle città, dove enormi palazzoni ostruiscono la visuale del cielo, non regoliamo più le nostre attività in base alla luce reale, abbiamo la luce anche la notte, di modo che giorno e notte possono anche non essere distinte, le attività economiche che si regolavano al ritmo della luce solare in passato non rispettano più gli antichi schemi. La borsa non chiude mai, quando chiude a New York apre a Tokio; non aspettiamo la stagione giusta per avere i frutti di quella stagione ma ne disponiamo tutto l'anno, e le festività religiose, che un tempo ci aiutavano a scandire il tempo, il ciclo del tempo celebrando l'arrivo dei mesi caldi o la morte di quelli freddi, la resurrezione della natura dopo i mesi invernali e quant'altro, seguono oggi le stesse o altre ritualità, ma prive del loro senso originario. Il mio pensiero è che la prima alienazione dell'uomo dalla sua stessa natura è avvenuta col Cristianesimo, che abbandonando i riti pagani, o sovrascrivendoli coi suoi ne ha affievolito il senso che essi avevano per l'uomo. La conoscenza che ci ha aiutati a migliorare anche la nostra esistenza attraverso la tecnologia, la medicina, ha poi fatto il resto. Possiamo essere contemporaneamente in un posto e parlare con gente dell'altra parte del mondo, acquistare in rete prodotti di altri continenti, sapere in tempo reale quanto succede ovunque nel mondo. Non credo che l'uomo veda nella tecnica un modo per eliminare l'angoscia, ma usa il possesso dei beni materiali a questo scopo. Non si compra compulsivamente per usare i nuovi strumenti tecnologici ma per averli, possederli. Ben sapendo che già nel momento in cui li abbiamo è sul mercato la sua versione nuova e migliore. L'obsolescenza è programmata già dal momento della produzione, ecco perché il possesso di un bene non placa quel bisogno e occorre acquistare nuovamente, costantemente. Ovviamente il bisogno che dà origine a tutto questo è totalmente estraneo a noi, e a mio parere va ricercato proprio in quei riti ancestrali che abbiamo perso con il progresso e l'evoluzione culturale, I riti sacrificali, che un tempo ci aiutavano ad addossare ogni colpa ad animali, uomini che venivano uccisi, e così si placavano le ire divine, oggi forse sopravvivono proprio in questi spettacoli dell'orrore che guardiamo in tv, dobbiamo vedere nello zio di Avetrana quel mostro colpevole di ogni colpa umana? così da poterci sentire sollevati dalle nostre eventuali ripetendo sul solco di quelli antichi nuovi sacrifici umani senza saperli più riconoscere come tali? Viviamo in una dimensione adimensionale, senza tempo e spazio e abbiamo perso il contatto col nostro corpo e la sua interdipendenza con ambiente e corso del tempo. Forse anche la morte perde di senso e significato mancando i termini entro cui darle esistenza?
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