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03-03-2013, 02.14.58 | #54 |
Ospite abituale
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
@ Maral
Naturalmente vi sono profonde differenze fra la "weltanschauung" anglosassone e quella continentale (ove con tale termine si intendano proprio tutte le culture europee non di radice anglosassone, e quindi anche le germaniche o le scandinave). Von Hayek parlava, riferendosi alle culture continentali, di "costruttivismo", cioè della pretesa di fondare un ordine sociale su basi che non tengono conto (o che tengono in scarso conto) degli impulsi individuali. A differenza delle culture anglosassoni, che hanno un concetto del "bene" come di un qualcosa di soggettivo; come di un qualcosa che è "bene-per-me", le culture continentali hanno un concetto del "bene" come di un qualcosa di oggettivo; come di una "realtà perfetta"; come di ciò che è "bene-per-tutti". Questo, io penso, è il punto dirimente; che ha permesso l'affermarsi della visione anglosassone come quella visione che meglio si adatta all'emergere dell'individuo. Un fenomeno, quest'ultimo, che io reputo assolutamente centrale. Quindi io vedo un pò come un aspetto secondario (per quanto importante) le cose legate alla religione. Certamente l'appropriarsi della "grazia divina" è servita alla borghesia; ma è servita, trovo, più come "giustificazione" al proprio imporsi al potere politico che come fattore determinante per l'affermazione di un modello di democrazia sull'altro. In riferimento al rapporto che lega la tecnica e l'individuo, mi piace rifarmi, parafrasandolo, ancora a Max Weber. A mio avviso ad essere apparente è la subordinazione dell'individuo alla tecnica, non il contrario. L'individuo, nel suo emergere prepotente, ha usato la tecnica ma, in seguito, ne è come rimasto imprigionato. La tecnica, esattamente come il denaro ne: "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", è diventata una "gabbia d'acciaio" nella quale non è più immediatamente distinguibile il mezzo dallo scopo. Ma tale indistinzione, io trovo, è solo apparente, perchè lo scopo continua ad essere l'individuo ed il suo "bene" (cioè ciò che è "bene-per-lui"). Ed allora, esattamente come il denaro, che viene accumulato in enormi patrimoni dimenticando la sua funzione di mezzo (il denaro ha "valore" nel momento in cui viene speso), così la tecnica viene amplificandosi e, fagocita quel fine cui invece è indirizzata dalla sua stessa "natura" di strumento. Ma tutto ciò è, appunto, solo apparenza. Perchè così come l'accumulo di denaro in realtà "serve" all'accumulatore; perchè l'accumulo stesso rappresenta ciò che è "bene-per-lui" (la sai la storiella del vecchietto che si è voluto far seppellire con i soldi risparmiati?), allo stesso modo la tecnica "serve" quel "vivere meglio"; quello sciocco "obliare" con i più fantasiosi stratagemmi (il primo dei quali è la fretta in cui la nostra società è perennemente immersa) la realtà ultima del mondo. Una realtà ultima che si chiama sofferenza e morte. E' quella che Heidegger chiama "vita inautentica". Ed essa la tecnica "serve". Insomma, ciò che è "bene-per-me" è immergermi nella tecnica, ed evitare di vivere la vita "autentica", cioè quella consapevole della realtà ultima ed irriducibile della sofferenza e della morte. E' questo pensiero che atterisce l'uomo moderno, che cerca scampo rinchiudendosi nella "gabbia d'acciaio" rappresentata dalla tecnica, che egli ha elevato a "Dio" nel momento stesso della morte del "Dio" della tradizione. un saluto |
03-03-2013, 22.09.13 | #55 |
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
Certo Oxdeadbeef, resta però il fatto che il concetto del bene come patrimonio soggettivo è comunque confinato a quelle aree di cultura di matrice protestante che hanno rigettato quel bene comune, buono per tutti, ma controllato seconda una ben precisa gerarchia. Dio, sommo bene e somma imperscrutabile giustizia, che si rivolge senza intermediari all'individuo è il tratto chiave del protestantesimo da cui discende quella sacralità dell'ego-ismo e dunque del bene per tutti come prodotto algoritmico dei tanti ego-ismi individuali selezionati per merito di realizzazione che ormai domina l'intera cultura occidentale e quindi del pianeta (pur tra contrasti residui più o meno forti).
Non è in altre parole che gli anglosassoni o gli scandinavi siano per natura genetica più avveduti dei popoli mediterranei in fatto di democrazia, è che la storia ha formato certi substrati culturali in cui le dinamiche religiose e le istituzioni da esse fondate hanno avuto un ruolo fondamentale. Ma, ripeto, anche questa concezione individualistica dell'uomo e del suo bene è per me ormai entrata in crisi con l'avvento della tecnologia che usa l'ego-ismo razionale (il bene meritato dalla funzionalità dell'ego individuale) come mero strumento di seduzione per creare quella gabbia tecnologica che è fine solo ed esclusivamente a se stessa. Noi non dobbiamo lavorare per costruire il nostro individuale bene, ma affinché si realizzi un profitto che trascende completamente la nostra individualità e questo profitto consenta un ulteriore sviluppo tecnologico che interpreteremo come progresso misurabile dal profitto stesso che determinerà. Noi non siamo il fine del modo di pensare tecnologico, anche se è assolutamente necessario crederlo affinché quel modo di pensare sussista, ma siamo noi il mezzo votato al fine tecnologico. Se così non fosse sarebbe arduo spiegare perché, nonostante l'enorme disagio psichico e sociale che il nostro modo di produrre e consumare determina proprio a livello di ego, resti imprescindibile il nostro continuare a produrre e consumare con sempre maggiore alacrità. Perché un servo della gleba tutto sommato aveva molto più tempo a sua disposizione di noi, perché un boscimane può permettersi di dedicare alla caccia e alla raccolta non più di 3 ore al giorno e sentirsi comunque molto più felice e meno psichicamente disturbato non solo di un operaio o di un impiegato, ma pure di un manager occidentale che sempre più spesso non riesce a reggere senza impasticcarsi di psicofarmaci o droghe. Dove sta allora questo vivere meglio promesso dalla nostra tecnica? La risposta per me è che la tecnica (questa tecnologia diventata completamente autoreferenziale) ci promette sempre la nostra individuale felicità, ma ha assoluta necessità che la promessa non sia mai mantenuta, altrimenti il turpe egoista che si vuole sia per natura l'uomo è chiaro che smetterebbe di impegnarsi per la tecnica stessa, quindi per la costruzione continua di gabbie tecnologicamente sempre più avanzate e raffinate in cui credere di poter trovare soddisfazione a ogni suo desiderio, ma che ogni volta trova inesorabilmente vuote. Ciao |
04-03-2013, 22.41.59 | #56 |
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@ Maral
Personalmente, dovessi indicare un fatto storico determinante per il formarsi, nei paesi anglosassoni, di una peculiare forma-mentis distinta da quella europea-continentale, indicherei la mancata influenza che quei paesi subirono del concetto di "impero". La marginalità di quei paesi, la loro stessa lontananza geografica, ha impedito uno sviluppo storico che risentisse del "mito" di Roma; un mito trasferitosi in seguito alla Chiesa, con la sua pretesa di universalità ed assolutezza. Dunque ben prima dei fermenti riformistici (che, fra l'altro, hanno avuto origine in paesi non anglosassoni), nei paesi anglosassoni prende forma l'antica concezione greca del "primus inter pares", cioè di una egemonia politica che non annulla la libertà e l'autonomia. Diciamo che, forse, non è per caso che la democrazia venga ripresa dopo tanti secoli proprio in quei paesi. Per quel che riguarda il rapporto fra la Tecnica e l'individuo, io leggerei la cosa nei termini psicologici (e forse anche letterari). Tu parli di disagio psichico e sociale che il nostro modo di produrre e consumare determina. E dai la colpa di questo disagio alla frenesia della vita moderna. Io invece questo disagio psichico e sociale lo vedo molto meno chiaramente definito, e soprattutto dò la "colpa" ad altri aspetti. Se, infatti, andiamo ad esaminare l'analisi psicologica che viene condotta su soggetti che pensano (loro) che le cause della loro depressione siano la frenesia, i troppi impegni, le difficoltà economiche, vediamo infatti che queste sono solo apparenti, "conscie"; mentre invece i veri motivi, quelli "inconsci", sono principalmente altri. Certo non voglio negare che vi siano difficoltà che sono causate dal tran-tran quotidiano, ma voglio dire che se andiamo ad esaminare quella che è la causa "per eccellenza" che i soggetti depressi indicano (le difficoltà economiche), ne vediamo la sua assoluta inconsistenza proprio prendendo a paragone popoli poveri, ma non depressi, e popoli ricchissimi ed apparentemente felici, come quelli scandinavi (che hanno un numero di suicidi da far paura). Insomma, "sotto sotto" c'è la paura. La paura, come diceva Kierkegaard, della possibilità che si verifichi anche la cosa più atroce, in qualsiasi istante. La paura, in altre parole, dell'essere-gettati-nel-mondo, dell'estrema instabilità della condizione umana. E questa paura è amplificata al massimo dalla "morte di Dio"; ovvero dalla morte di ogni aspettativa metafisica in uno "sguardo" occidentale nel quale ha ormai definitivamente trionfato la scienza, e nel quale la metafisica è ormai ridotta a favoletta per bambini. Ecco, io vedo la frenesia piuttosto come un rimedio; un rimedio contro l'insostenibilità del pensare alla drammaticità della condizione umana (come, in maniera magistrale, ci fa vedere P.Villaggio in "Fantozzi va in pensione"). E allora, sulla base di ciò che ipotizzo, qual'è questo "bene per me"? un saluto |
05-03-2013, 22.52.49 | #57 | ||
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Non è che do la colpa alla frenesia della vita moderna, ma al substrato di pensiero che rende obbligatoria questa frenesia direzionata al produrre e consumare. E il motivo per cui è obbligatorio produrre e consumare è quello della volontà di potenza della tecnica fine a se stessa per cui l'uomo è lo strumento che deve produrre (dove le macchine non riescono ancora a farlo) desiderare e consumare ciò che si produce per continuare a produrre tutto ciò che la tecnica può senza limiti fare. E' proprio questo poter fare senza limiti il nocciolo della questione che resta nascosto sotto la superficiale frenesia e il motivo profondo del conseguente disagio. L'instabilità della condizione umana, l'angoscia nichilistica che si traduce nelle forme depressive tanto in crescita proprio nei paesi più tecnologicamente avanzati è determinata a mio avviso da questo annullamento a fronte della volontà di potenza tecnica oltre che di ogni dio o ente metafisico o valore etico (a parte il ben funzionare che resta valore tecnicamente fondamentale) sentito come ostacolo e dell'uomo stesso inteso come ente degno di proporsi come fine autonomo. Resta solo la smisurata e sempre illusoria potenza tecnica da cui non ci si può staccare (come Prometeo incatenato alla rupe), del tutto indifferente al mezzo umano per se stesso, buono solo finché si dimostra abbastanza funzionale (quindi meritevole) per lo scopo autoreferenziale di crescita tecnica. Quando non è più funzionale (e quindi non merita più) il mezzo umano (ossia la risorsa umana) è rigettato in discarica, oppure utilizzato come mero corpo oggetto su cui ancora la potenza tecnica può ancora esercitarsi per affinare la sua capacità. Più angosciante di questo! Ciao |
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06-03-2013, 15.14.13 | #58 |
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@ Maral
Certamente al formarsi della peculiare mentalità anglosassone contribuiscono molti eventi storici. E' giusta la tua affermazione su di un riformismo che trova, nel continente, l'opposizione feroce non solo dei "papisti", ma anche di una nobiltà che, essendo perlopiù di origine franca, aveva profondamente assimilato quel concetto di "impero" che ti dicevo (nei suoi tratti fondamentali di universalità ed assolutezza). Un altro evento storico di grande importanza mi sembrerebbe quello legato all'"esodo" dell'ordine dei Francescani; un evento che, sulla base della distinzione fra "ratio" e "fides" che opera la cosiddetta "seconda Scolastica", porrà le basi non solo di un insegnamento "laico", ma anche di una riflessione politica e giuridica che, liberata dalle implicazioni teocratiche, arriverà ad una concezione ante-litteram di quel celebre: "non ho avuto bisogno di ipotizzare il ruolo di Dio", che quello scienziato (di cui non ricordo mai il nome) disse a Napoleone, il quale gli chiedeva conto del ruolo di Dio nella formulazione del suo sistema. Sull'altro argomento, ecco, io credo che ciò che chiami "substrato di pensiero" (che rende obbligatoria questa frenesia direzionata al produrre e al consumare) consista, appunto, nell'angoscia del divenire di cui parla E.Severino a proposito della Tecnica. Come Severino, penso insomma che la Tecnica sia null'altro che un rimedio a questa angoscia; una angoscia non più lenita dal pensiero metafisico, o religioso che dir si voglia. Anche sulla questione dello "scavalcamento del limite" la penso come Severino. In Kant la questione del limite è ancora centrale. Egli contrasta la "ragione infinita" degli Illuministi istituendo il "Tribunale della Ragione", ma per far questo è costretto ad ipotizzare la "cosa in sè"; e, soprattutto, un imperativo categorico che travalica i dettami della Ragion Pura per divenire un qualcosa di pertinenza della Ragion Pratica, ovvero un qualcosa che non può fondarsi su nessuna "razionalità" che non sia quella determinata dalla scelta, necessaria e quindi ineludibile, di un valore etico piuttosto che un altro. La conseguenza di tutto questo è chiara: come il limite viene posto dalla volontà, così la volontà (che in Nietzsche è liberata da ogni vincolo, perchè liberata da ogni "responsabilità") può rimuovere il limite. con simpatia e stima |
07-03-2013, 20.53.27 | #59 | |
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Molto interessante è poi a mio avviso quel superamento nicciano di ogni limite da parte della volontà di potenza che per oltrepassare l'insormontabile barriera di ciò che è definitivamente accaduto ha come unica possibilità la suprema volontaria di adesione all'Eterno Ritorno dell'Identico. Ma questo introduce forse un discorso oltre questo tema Ti saluto ricambiando stima e simpatia. |
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