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15-02-2013, 15.31.06 | #47 |
Ospite abituale
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
@ Ulysse
Ma la grandezza della tragedia greca, che poi è la grandezza dell'arte in genere (ecco perchè, dicevo nell'altro post, l'arte vede più lontano di tutti - ma meno nitidamente di tutti), risiede nel lasciare aperto l'interrogativo; nel non dare risposte. E quindi, appunto: chi giudica circa la giustizia della legge della città (e ovviamente chi giudica della giustizia della legge divina)? E perchè mai oggi la cosa sarebbe più complessa? Forse che problemi come ad esempio quello circa la bioetica non ripropongono ancora e sempre lo stesso dilemma? E' forse difficile, per te moderno, dire cosa abbia dovuto fare allora Antigone mentre è facile dire cosa fare adesso? E su quali basi? Forse per il solo fatto che adesso c'è la democrazia? Beh, se è solo per questo la democrazia non c'era al tempo di Antigone ma fu di poco posteriore. Hai presente il dialogo fra Socrate e le Leggi (intendendo quelle democratiche ateniesi)? In esso Socrate afferma di averle preferite, è vero, ma solo in una continua tensione con le leggi della "patrios politeia" spartana, ovvero con le leggi derivate dalla tradizione (e anche le leggi divine sono di natura tradizionale). Io trovo che in queste condizioni di democrazia (condizioni che tu stesso rilevi, e che denotano un tasso di democraticità assai più scarso che nell'Atene di allora), ci sia da chiedersi se Socrate avrebbe continuato a perseguire il medesimo atteggiamento. un saluto |
17-02-2013, 11.45.53 | #48 |
Moderatore
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
Per quanto mi è modestamente consentito, vorrei tentare su questo interessante discorso che affronta la contrapposizione tra democrazia e meritocrazia una lettura di tipo antropologico sociale con riferimento alle linee tracciate da un sociologo come Baumann e antropologi come Sahlins.
L'originaria struttura sociale che l'umanità ha conosciuto nelle prime comunità preistoriche, anche da quello che possiamo verificare nelle culture di etnie ancora sopravvissute di cacciatori raccoglitori (pigmei, boscimani, alcune tribù disperse in Amazzonia e in Indonesia) è che la struttura originaria di comunità che l'uomo ha realizzato fu di tipo estremamente democratico in cui le decisioni erano prese da tutta la comunità all'unanimità o quanto meno dai rappresentanti anziani delle famiglie, in modo assembleare e tutti con pari diritto. A volte esisteva una figura di capo tribù, ma con compiti solamente rappresentativi, mai decisionali. Io stesso alcuni decenni fa ebbi modo di raccogliere una testimonianza in tal senso da un vecchio nativo americano nella riserva in Ontario degli Uroni (gli indiani cattivi alleati con gli Inglesi del film "l'ultimo dei Moicani" per intenderci). In queste comunità il merito (ad esempio nella caccia, nella guerra ecc.) era sì onorato, ma non comportava posizioni di potere "aristocratico". Questo merito consisteva sia nel coraggio dimostrato in imprese belliche di rapina, sia nella capacità di procurare comunque enormi quantità di beni (animali, cibo ecc.), di entità ben superiori ai bisogni della comunità di appartenenza, da donare poi in segno di sfida ad altre comunità o da distruggere in feste collettive, i cosiddetti potlatch, una sorta di esibizione di potenza della comunità che obbligava gli altri a ripeterla per non mostrarsi inferiori in virtù (nel senso vir-ile del termine). Il meritevole era sì dunque una persona abile (nel procacciare queste risorse), ma soprattutto era un grande donatore disinteressato che esaltava il valore della comunità di cui faceva parte. Questo disinteresse nel dono costituì in origine il tratto aristocratico (ben prima che fosse fissato dalle regole di discendenza dinastica) che non entrava in contrasto con la gestione democratica del prendere decisioni per il bene comune, ma garantiva il rispetto all'intera comunità e quella supremazia dovuta al favore che gli dei concedevano all'individuo eccezionale (e quando questo favore veniva dagli dei ritirato, all'individuo eccezionale poteva benissimo essere imposto il ruolo di vittima sacrificale al fine di recuperarla). Le cose cambiarono con la scoperta dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame, perché la tecnica in potenzialità garantiva quell'abbondanza che prima era solo merito di un fortuito favore divino e il compito quindi della comunità era garantirsi appunto un'abbondanza costante a salvaguardia di una società sempre più differenziata nel valore, in modo da tenere conto delle specifiche competenze nei processi decisionali. E'qui che la meritocrazia comincia a rivendicare in modo forte la sua preminenza sulla democrazia originaria, è qui che il dono disinteressato (e il sacrificio come distruzione dei beni) comincia a cedere il passo alla ratio costantemente necessaria per mantenere il surplus sulla cui controllata e oculata gestione si basa l'intero equilibrio sociale, è qui che Platone vede come meritevole tra i meritevoli chi sa farsi filosofo, ossia chi sa riconoscere la ratio eterna delle cose transienti, perché questa è la specializzazione che lo rende migliore, dunque privilegiato nell'aspetto politico che regge la polis, la nuova comunità strutturata ove non è più vero che ognuno valga uno. Il filosofo vede le cose come stanno e tiene in mano le redini della polis guidando i destrieri bianchi e neri in modo proficuo. Si dice che Platone abbia costruito l'edificio di tutta la filosofia occidentale e con essa abbia tracciato il senso della stessa politica per come la si è intesa in Occidente, la sua Rebubblica è il modello di riferimento, anche se, con il crollo dell'episteme, non sono più i filosofi a venir pensati come i principali soggetti politici. Il coordinamento sociale ormai è garantito non dalla supervisione dei filosofi, ma dalla stessa ratio desoggettivizzata e definalizzata, prodotto necessario dalla somma delle competenze tra loro staccate che partono dalla pretesa trasfigurazione del puro interesse individuale in legge economica a cui tutto va ridotto, una specie di algoritmo divinizzato che non potrà mancare di funzionare. Il merito allora consisterà solo nel saper fissare e imporre le condizioni per farlo funzionare dimostrando che funziona, o facendo credere che funzioni. Allora la politica e con essa ogni etica diventerà solo mezzo di funzionamento o di intralcio a seconda di come si adegua alla necessità economica che misurando il profitto fissa il significato di progresso e la democrazia sarà solo finzione atta a circuire chi ancora si illude di valere qualcosa per quello che è, la democrazia può a questo punto essere solo un mezzo di illusione per creare consenso a quanto già è tecnicamente deciso senza farlo costare troppo e chi non si adegua a questa finzione è certamente matto. E i meritevoli? I meritevoli saranno solo i bravi funzionari nell'ambito delle loro specialistiche funzioni, ossia di chi funziona nel modo programmato in cui deve funzionare e sa di dover funzionare in virtù delle sue competenze. La nuova classe meritocratica destinata a governare il mondo è inesorabilmente tecnica, mira all'accumulo costante del surplus e per farlo deve considerarlo sempre insufficiente. Nessuna governance tecnica ha mai avuto minimamente a che fare con la democrazia perché i problemi tecnici non si risolvono democraticamente, anzi; semmai con la costruzione di finzioni di democrazia se queste possono tornare tecnicamente, ossia retoricamente utili. Un saluto. |
18-02-2013, 22.54.01 | #49 |
Ospite abituale
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
@ Maral e Paul11
Sono molto interessanti le tue riflessioni "antropologiche" (anche Levi Strauss, nel meraviglioso "Tristi Tropici", parla dell'elezione del capo fra i "Nambikwara" come di un evento più temuto che ambito, visti i gravi oneri, e i pochi onori, che quell'elezione comporta, o comportava). Così come sono assolutamente d'accordo nel rilievo che dai alla cosiddetta "rivoluzione agricola", un evento sempre troppo poco valutato ai fini delle enormi ripercussioni che ha comportato. Tuttavia, io credo, sarebbe riduttivo pensare alla rivoluzione agricola come all'evento "definitivo", oltre il quale cioè le cose non sono state e non avrebbero potuto essere più come prima (tanto per fare un esempio, i terreni comuni delle tribù celtiche e germaniche hanno subito un processo di appropriazione solo in seguito al contatto con Roma). Sarebbe, da un certo punto di vista, interessante analizzare come il confronto fra la componente stanziale e quella nomadica abbia segnato lo svilupparsi delle culture in genere, così come quello fra la componente agricola e quella mercantile abbia, a mio avviso, "segnato" in maniera fondamentale lo svilupparsi della democrazia propriamente detta (quindi parlo di quel sistema politico non immediatamente riconducibile a forme di egualitarismo "tribale", ma riconducibile semmai allo staccarsi dalle forme che il potere politico aveva assunto nella "tribù"). Da questo punto di vista, mi sembra che si possa ipotizzare un certo connubio fra le libertà individuali che la democrazia porta "in sè" e l'arricchimento che il commercio, e in misura trovo ben più rilevante che non l'agricoltura, porta a determinate categorie di "noveaux riches", con la conseguente loro pretesa di "contare" a livello politico. Insomma: sarà un caso che la democrazia si sviluppi nella "mercantile" Atene e, dopo molti secoli, nella mercantile Inghilterra? No, io non credo sia un caso, perchè fra democrazia e liberalismo (quindi anche quello economico) vi vedo un certo rapporto (rapporto che è stato analizzato da J.P.Fitoussi in quella che mi risulta essere una delle rare analisi sul fenomeno). Semmai, ritengo, sarebbe il caso di distinguere fra la democrazia nata dalla rivoluzione francese (la democrazia cosiddetta "giacobina") e la democrazia anglosassone, visto che è quest'ultima ad aver storicamente "vinto". Quei diritti "naturali" di cui parla la democrazia anglosassone: il diritto alla proprietà, alla libertà ed alla sicurezza oggi sono "costituzionalmente fondanti", ovvero non rendono possibile in alcuna maniera il ritorno a forme di proprietà collettiva o a "libertà" che contrastino con quella, primaria e fondamentale, della proprietà (e della sicurezza dei proprietari). In questo, ritengo, consiste la metafisicità del "tecnicismo". La "tecnica" è strumento; strumento finalizzato a realizzare quei fini lì: ce lo siamo dimenticato (o non lo abbiamo mai saputo...). Dato il fine ultimo della proprietà, "merito" è chiamato ciò che contribuisce a rendere razionale, cioè efficace, l'uso di qualsivoglia strumento atto a rafforzare il dogma intangibile della proprietà. Ecco allora che il "conflitto", che è conflitto sui diritti, sui valori ma principalmente sui fini da raggiungere, non può esplicarsi (come infatti non si è mai esplicato nei paesi anglosassoni, anche se andrebbero fatte importanti distinzioni). In definitiva, la vedo dura replicare alla razionalità e all'efficacia se non si rivendicano la stessa razionalità e la stessa efficacia dirette però a scopi diversi da quelli "naturalmente" posti ormai 500 anni orsono. un saluto |
19-02-2013, 16.26.26 | #50 |
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Riferimento: Kratos del demos e kratos del merito
Certamente Oxdeadbeef, la rivoluzione agricola non ha rappresentato l'evento definitivo, c'è stata la rivoluzione industriale tecnologica e l'emergere e poi fluidificarsi di quella classe borghese che ha progettato l' attuale democrazia e meritocrazia sulla base dei suoi valori che ha voluto fondamentali per tutti senza alternativa di sorta. Sono d'accordo, il passaggio dalla società pre agricola a quella agricola non è stato così rapido e improvviso (molto meno rapido che quello dalla società agricola a quella industriale), per secoli hanno convissuto forme di proprietà comune con proprietà private e per gran parte del medioevo la proprietà comune è stata fondamentale nella gestione dell'equilibrio sociale e viene messa in discussione solo quando si impone la cultura mercantile, quando alla condivisione dei beni come colla sociale si sostituisce il loro scambio finalizzato al profitto individuale (e allora le aree di proprietà comune diventano ovviamente un impiccio che arresta il progresso).
Mi premeva tuttavia sottolineare che in origine il significato di merito (di che merito parliamo quando parliamo di merito?) era profondamente connesso con la capacità di donare, ove il dono è una sorta di sfida per chi lo riceve, un "vediamo se sei capace di fare altrettanto , sfida che travalica ogni rapporto equo e razionale e per questo così disinteressata da parte del donatore. Poi, questo stesso grande donatore è sempre più diventato un accumulatore di un'abbondanza tecnologicamente garantita, ossia un collettore di risorse raccolte da tutti in modo organizzato e ridistribuite solo nell'ambito della propria cerchia esclusiva in nome della propria privata potenza. Il nobile è così diventato aristocratico, proprietario terriero e gestore (sia pure ancora molto meno del borghese) del lavoro dei propri servi e delle proprie riserve, ma sempre in grazia del favore divino prestabilito e sicuro. Da donatore effettivo si è fatto così donatore in potenza e accumulatore di fatto, ma sempre con la disponibilità alla disinteressata sfida in cui consiste l'essenza del merito aristocraticamente inteso. Il borghese che invece a un certo punto della storia dell'Occidente (e solo dell'Occidente) ne prende poi il posto, è l'abitante del borgo, colui che con le risorse date dalla terra ha solo un rapporto indiretto e, sia che faccia il mercante, l'artigiano, o eserciti un'arte mestiere, ha un assoluto bisogno di conferma di ruolo. Si trova infatti nella società agricola nella posizione più precaria possibile e per tale motivo si affida alla ratio, al calcolo del giusto rapporto, al controllo rigoroso, matematico, maniacale e alla costruzione del profitto e della proprietà come riparo e salvaguardia per la propria posizione che non ha altra giustificazione se non quella del suo darsi da fare in modo efficace. E' chiaro che il discorso sul merito con l'entrare sulla scena della storia della classe borghese cambia radicalmente: il merito non è più quello del potenziale donatore disinteressato che gode della grazia divina per diritto di sangue, ma quello dell'oculato amministratore dei propri beni che calcola sempre e analizza i pro e i contro secondo ratio per trarre profitto e, traendo profitto, dimostra a se stesso di godere di quella grazia divina da cui può sempre precipitare improvvisamnete nell'abisso, non essendone mai garantito e per questo esige che tale grazia in linea di principio non sia mai garantita a nessuno in modo che tutti vengano costantemente chiamati a dimostrare, proprio come lui, quanto sono capaci di funzionare. Certo, la razionalità prende il sopravvento proprio come regola del rapporto tra le cose, ed è proprio la razionalità platonica, quella del mito della biga come metafora dell'anima, che si afferma (ecco perché la borghesia prende il potere solo in Occidente, la filosofia greca le fa da presupposto), ma nel suo aspetto sempre calcolante e controllante, in modo rigorosamente oggettivo e scientifico, affinché il dubbio (sempre presente) possa quanto meno temporaneamente essere escluso. Ecco che allora l'egoismo diventa suprema necessità (l'homo homini lupus di Hobbes che inventa il mito uno stato di natura infernale altrettanto mitologico di quello paradisiaco di Rousseau, in cui ogni individuo è contro l'altro), causa prima di ogni evoluzione persino in senso biologico, ecco che la scarsità è da ritenersi stato costante, affinché la sovrabbondanza sia costantemente insufficiente e l'avidità emerga come merito necessario. Il diritto alla sicurezza e alla proprietà privata diventano presto sinonimi, quanto alla libertà diventa sempre più la libertà da ogni limite alla capacità di ciò che si può tecnicamente realizzare, (libertà di un doveroso desiderio individuale senza limiti) e in tal senso non è certo più la tecnica a essere finalizzata a questi diritti, ma questi diritti a essere finalizzati alla tecnica che ha per fine solo il continuo infinito accrescimento della propria funzionalità di cui tutto si fa mezzo, ogni diritto (e qui quel pensiero greco che stava alle fondamenta è completamente oltrepassato e le fondamenta sono sprofondate). Quanto alla moderna democrazia, nata per garantire quella razionale convivenza che nel mito dell'uomo lupo è considerata naturalmente impossibile al punto di trovare ovvio che 7-8 miliardi di teste non possano per natura fare altro che pensare come massacrarsi l'un l'altro per il loro personale interesse, va bene finché funziona per l'economia, ossia per i bilanci a partita doppia, non più per altro. Gli individui è meglio che continuino a pensare di essere uno contro l'altro affinché i più furbi dettino loro le regole che ai più furbi insieme associati convengono. |