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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere. |
05-08-2008, 10.09.49 | #4 |
Ospite abituale
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Credo però che Rorty pensasse alla democrazia per così dire “in grande” cioè non si riferisse a un programma politico ma alla libertà di manifestare idee senza dover sottostare alle idee altrui.
Il principio base del filosofo americano è che la filosofia deve abbandonare la pretesa di essere una scienza, cioè una concezione obiettiva e rigorosa del mondo da cui non si può prescindere e che rappresenta un paradigma per tutta la cultura. “Secondo Rorty lo scetticismo di Wittgenstein nei confronti della nozione di corrispondenza alla realtà, la riduzione operata da Dewey della ricerca scientifica a un’impresa storicamente e socialmente orientata, il rifiuto in Heidegger di identificare la verità dell’essere con la verità della scienza, consigliano di mettere da parte il vocabolario della filosofia scientificamente orientata, in favore di una filosofia storico-letteraria che promuova il dialogo sociale in luogo di un’indagine fisicalista. La filosofia ha ormai rinunciato a porsi il compito della fondazione della legittimità dell’impresa conoscitiva e si accontenta di essere un genere di scrittura con particolare stile espressivo e un determinato pubblico – allo stesso titolo del romanzo o della poesia”. Non siete d’accordo? Bene, ma non si tratta di parole al vento, e si potrebbe andare avanti con le citazioni, anche se ho detto questo, S.B., solo per togliere da Rorty – che resta un filosofo importante del nostro tempo - l’accusa di superficialità che sembri addebitargli. |
07-08-2008, 14.31.12 | #5 |
Ospite abituale
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D'estate tra viaggi, vacanzette e assenza di un portatile ho un calo fisiologico di frequentazione, dovrei riprendermi verso Settembre.
Emmeci, forse sono stato un po' troppo laconico, non volevo certo inchiodare Rorty ad una mia banale osservazione. Il motore immobile che muove il filosofo, in senso lato, é il miraggio di quell''assoluto', qualcosa che c'é, fuori da me stesso, non c'é nemmeno bisogno di definirlo troppo strettamente, basta capirsi. Rinunciare a questo meta utopica, sconosciuta, non é rinunciare all'uomo stesso come fin'ora l'abbiamo conosciuto? |
07-08-2008, 15.43.54 | #6 |
Ospite abituale
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Sì, S.B., anche se le condizioni oggi non sono particolarmente favorevoli per un filosofo che non voglia abbandonare il cosiddetto pensiero forte, cioè la ricerca della verità, e se lo fa appare quasi un sopravvissuto. E non si può negare che qualche ragione abbia chi lo contesta o ironizza sulle sue utopie o le sue illusioni.
Dopo tutto è vero che bisogna risalire un po’ indietro nel tempo per credere che la filosofia sia l’impresa di chi osa cercare la verità, anzi l’assoluta verità; bisogna risalire più indietro del XX secolo, seppure anche in questo secolo sono state elaborate filosofie sistematiche, in mezzo alle ombre di crisi che cominciavano a invadere la cultura e spingeranno a decretare il tramonto di tutti i valori e addirittura la prossima scomparsa della specie uomo….In ogni caso, però, erano idee grandi e certe, mentre perfino lo scetticismo o il nichilismo poteva costituire una risposta motivata e adeguata. La filosofia come ricerca della verità? Forse lo era. Ora è certo più difficile mantenere quell'impegno, quando addirittura si pensa, ed è stato detto, che il bisogno di una verità sia la caratteristica di un’umanità primitiva e che ci sono solo verità temporanee, datate, adatte al momento e pronte a dissolversi …. E siamo ormai al livello del pensiero debole, che è qualcosa di ancora meno forte (o più moderno, a detta dei sostenitori) dell’ermeneutica, dello scetticismo e del nichilismo. E’ vero, anch’io posso avere dei dubbi visto che se penso a una verità assoluta sono costretto a riconoscere che definirla vorrebbe dire renderla relativa e quindi deve essere lasciata alla sua indefinibilità, anche se proprio questo potrebbe continuare ad essere uno stimolo per il pensiero. Sì, è difficile oggi avere certezze. Eppure, pensaci un po’, non significa proprio questo che una verità assoluta esiste? Non sta la prova della verità proprio nel fatto che non la possiamo afferrare? |
07-08-2008, 20.06.37 | #7 | |
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Torno Emmeci (non mi odiare ) , a questo tema della verità assoluta che ti sta a cuore, forse più di ogni altra cosa, non per muoverti la mia "vecchia" obiezione ma per fare un altra considerazione forse più critica della precedente.
Accertata la tua ferma fede nell'esistenza di questa verità mi sembra che tu, in qualche modo, non la vuoi; la rifiuti e storci il naso se qualcuno dice o pretende che possiamo non solo avere certezza di qualcosa ma anche dimostrare come l'esistenza di questo qualcosa sia necessaria e quindi indubitabile. Insomma, rifiuti di mescolarla con il sensibile, con il determinato e la riponi al sicuro nel tuo Iperuranio, al riparo da chi la vuole toccare o semplicemente sbirciare la sua natura. Facendo cosi mi sembra che in qualche modo la stai negando. Come dici tu stesso: Citazione:
Non credi che questa (intrinseca?) indefinibilità sia alla lunga un un limite per noi e per la rilevanza (mancata) della verità stessa? Se ogni volta che cerchiamo di definirla la trasformiamo negativamente e necessariamente in relativa allora dovrebbe venire meno anche lo stimolo per il pensero che tu stessi invochi. Per far sì che tale stimolo esista dovrebbe cessare l'indefinibilità. Chi cerca una cosa sapendo di non poterla trovare? Sokol |
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08-08-2008, 10.24.43 | #8 |
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Ti dirò, koli, che è proprio così come dici, e che questo è il prezzo che dobbiamo pagare per avere quell’unico punto fermo, cioè il raggio di quella certezza che io ho sintetizzato nella proposizione “la verità assoluta c’è” – anche se non so qual è. Tanto per cedere alle lusinghe di una leggenda, è come se, scacciando l’uomo dall’Eden, Dio gli avesse annunciato: avrai da marciare in una valle di lacrime, fino a non vedere più nessuna speranza e salvezza davanti a te, ma una cosa ti concedo di cui potrai fare tesoro per le ore buie della tua esistenza: la certezza che la verità c’è anche se non l’hai saputa vedere e non la vedranno neppure i tuoi figli e i figli dei figli. E’ questa la sola grazia che avrai, e che ti accompagnerà fino alla morte.
Certo, i filosofi difficilmente si potrebbero accontentare di questa promessa….la verità la vogliono, e per essa sono disposti a passare notti insonni e imbrattare d’inchiostro le carte, a costo di attirarsi l’ironia della gente di fede, che potrebbe, come san Tommaso, ironizzare col dirgli che avrebbe potuto risparmiarsi quella fatica accogliendo la verità che la chiesa gli offriva già bell’e pronta, senza il rischio di dover continuamente correggere le sue carte e magari spendere di sua tasca per pubblicarle, incorrendo oltre tutto in quell’accusa di relativismo dal quale i credenti si sono tolti una volta per tutte. (Se non trattassimo problemi così grandi da farci paura potrei dire, con Lessing o altri frivoli libertini, che la caccia val più della preda). |
08-08-2008, 22.04.58 | #9 | |
Ospite abituale
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Citazione:
Non saprei se definirla una prova, mi sembra, più che altro, un qualcosa che va riconosciuto come tale. Le cose stanno in qualche modo, un assoluto c'é, magari non é logicamente discutibile o definibile. Questo riconoscimento, mi sembra, viene prima di qualsiasi domanda o problema, volerlo discutere é come cercare di camminare senza l'attrito. Il problema nasce sempre da qualcosa già dato. |
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10-08-2008, 10.47.32 | #10 |
Ospite abituale
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Non so, S.B., se intendi confermare quello che ho detto, cioè che tutti sappiamo che la verità c’è anche se non la conosciamo e anche se questo attrito – come lo chiami - rimane dentro di noi come una strana esigenza, magari smentita dall’apparenza esteriore delle nostre parole….Eppure tutti i discorsi, anche i più futili, sembrano nascere da questa molla, questa oscura certezza che potremmo star dicendo la verità….se no, perché parleremmo? Ma quello che rovina le cose è proprio la mancanza di ciò che Levinas, che tu citi in exergo, vorrebbe che sempre ci fosse, cioè la coscienza che non siamo soli, che ci sono altri senza i quali noi non saremmo, e proprio per questo i nostri discorsi peccano spesso, forse quasi sempre, di cieco egoismo: mentre è necessaria quella coscienza dell’alterità per avvicinarci al vero cioè per sentire una responsabilità morale. Però però….
Ti confesso che questo concetto dell’etica mi sembra un po’ asfittico e riduttivo, certo più nobile di chi si ferma alla famiglia, al villaggio, alla tribù o alla nazione, ma è tuttavia ancora qualcosa che ci mantiene nelle spire della natura – facendoci per esempio ammirare non solo un branco di animali ben affiatato ma quei popoli di api e formiche capaci di darsi la morte pur di proteggere la società e scacciare gli intrusi…. Quante belle parole sono nella nostra memoria: “Lo studio più adatto all’uomo è quello dell’uomo” (Alexander Pope); “homo sum, nihil humani a me alienum puto” (Terenzio Afro), e la retorica della dignità dell’uomo delibata negli umanesimi e nei rinascimenti, fino alla corte del re di Weimar….Del resto gli studi più elevati sono considerati ancora quelli umanistici. Forse però tutto questo è poco – lo cominciamo a intravedere ora, coi rischi a cui andiamo incontro a livello ambientale, con le crociate a favore della bio-diversità, e se non sappiamo rinunciare a ritenerci ancora un gradino più in alto degli altri esseri della natura, con diritto di disporne per il nostro benessere e il nostro piacere (“è lo stomaco che urla” diceva già Omero), c’è qualcosa nei momenti di grazia, nei momenti in cui, come diceva Dante, l’anima è quasi divina, che potremmo perfino rivoltarci contro le leggi della natura e desiderare che il mondo fosse diverso, quel mondo che – si dice – rappresenta il vanto e la gioia del suo creatore mentre forse… è proprio perché non è un mondo perfetto che non vediamo più il creatore, quasi che, una volta emesso il suo fiat egli abbia avuto sentore di ciò che sarebbe avvenuto e come si sarebbe trasformato in un abominevole mondo. Delirio di chi è celebrato come l’onnipotente? Chi sa, forse per noi poveri nello spirito è più amabile un dio che ha fallito piuttosto che un dio soddisfatto della sua opera. |