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02-10-2005, 22.43.46 | #22 | |
Ospite abituale
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Re: Re: Sciocchezze
Citazione:
Non per difendere Weyl sempre dopo avergli assestato una legnata, ma onestamente, pur essendo ineccepibile la contraddizione che noti, lui scrive: Abolirli fu semplicemente antistorico, poichè le risorse di cura disponibili in quegli anni non permettevano assolutamente di affrontare la malattia mentale sul cosiddetto TERRITORIO. Cioè Weyl nota, non del tutto erroneamente, che le risorse disponibili sul territorio non c'erano ( o erano insufficienti) ed io scrivevo che completarle è una nostra battaglia: ma da qui a chiamare famigerata una legge che ha abolito degli autentici lazzaretti ce ne corre ... |
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02-10-2005, 22.59.48 | #23 | |
può anche essere...
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Re: Re: Re: Sciocchezze
Citazione:
Certamente antistorico, totalmente d'accordo, non antiumano. Volevo distinguere un lato di principio, e uno pratico. Il secondo è criticabilissimo. Ma non concede di criticare come di riflesso il primo. E coglievo quest'ambiguità nel post di Weyl. Allora ho detto: possiamo anche dire che i manicomi erano luoghi di cura, come dici tu, ma le cure non esistevano. Comunque, nemmeno adesso esistono. Ma almeno è diventato più difficile camuffare da assistenza la violenza, mentre prima, al chiuso, chi vedeva? Chi poteva mai venire a sapere? E anche fosse, l'affidabilità del resoconto di un pazzo? E questo, ovviamente, sia che fosse un "vero" pazzo o meno. Ora la considerazione in cui è tenuto il folle è un pò migliorata, non del tutto, ma c'è più considerazione per la sua riconosciuta umanità. Ultima modifica di r.rubin : 02-10-2005 alle ore 23.00.57. |
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03-10-2005, 02.34.19 | #24 | |
Ospite abituale
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Re: Sciocchezze
Citazione:
sinceramente non capisco cosa ti abbia spinto a leggerle tutte |
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03-10-2005, 14.08.58 | #25 | |
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Re: Re: Non si chieda al macellaio
Citazione:
Carmine Munizza è noto a tutti come il "Giuliano Ferrara" della psichiatria, tante sono le casacche che ha già cambiato nel corso degli ultimi vent'anni... Ma tant'è, le carriere in italia si costruiscono così. Leggi piuttosto, se lo credi, il punto di vista di Giovanni Jervis, psichiatra di orientamento ideologico certamente affine al tuo, ma, da buon protestante, uomo integerrimo e assolutamente coerente. Certo, la coerenza e l'onestà intellettuale si pagano: in questo paese i ghibellini sono merce rara, a destra come a sinistra, e in genere assenti ai vertici istituzionali ed amministrativi. Nello scenario internazionale le esperienze italiane sono, semplicemente, neglette. L'ultimo lavoro serio, una review, concernente lo stato della psichiatria italiana, risale al 1985 e venne pubblicato sul prestigioso British Journal of Psychiatry: una sostanziale stroncatura che metteva in guardia gli psichiatri anglosassoni dalle conseguenze nefaste di una legge demagogica e inattuabile. Nessuno discute dei principii ispiratori di quella riforma: quando si dice che l'intento è quello di rivendicare il ruolo centrale del malato, farne il centro di un modello assistenziale terapeutico nuovo, ma chi può essere contrario a ciò? Il punto non è questo: ogni legge che disponga interventi in un'ottica sanitaria presenterà queste e consimili massime. Il punto è, come sempre: "come"? Cioè: con quali mezzi? Entro che tempi? Con chi? Questo la legge 180 intendeva implicitamente conseguibile con la mera attuazione di alcuni fondamenti ideologici, e questa è la ragione del suo disastroso fallimento. Non si può ritenere che l'emancipazione del malato dalla terapia e da un certo modello di cura sia in sè e per sè "terapeutica": in quanto fondamento di tale visione è l'idea, del tutto dogmatica ed aprioristica, che la sofferenza psichica sia l'espressione di una condizione di sofferenza sociale, che vada assimilata alla devianza ed alla marginalità. I guai più grandi di questa legge, come ripeto, si traducono in un ritardo ed in un isolamento culturale della psichiatria italiana dal consesso scientifico internazionale, dalla ricerca vera e dalla cultura contemporanea. Per carità, non è che il resto della medicina e della scienza italiana stia molto meglio: ma, almeno, abbiamo tanti giovani ricercatori che partono e vanno a fare qualche esperienza seria in USA e nel nordeuropa, o in Giappone, e ci tengono in contatto col mondo. In psichiatria, escluso il caso di Pisa, tali contatti sono eccezionali e, perlopiù, vanificati dall'insussistenza di un substrato culturale moderrno nel nostro paese. Ci vorranno cinquant'anni per rimediare. E, ne sono certo, la riforma e la modernità si costituiranno spontaneamente al di fuori delle strutture pubbliche, ormai irrimediabilmente compromesse. |
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03-10-2005, 15.22.46 | #26 | |
Ospite abituale
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Re: Re: Re: Non si chieda al macellaio
Citazione:
Jervis, nell'intervista rilasciata a Repubblica nel 1991, intravede giustamente gran parte degli errori duvuti a schemi ideologici rigidi dell'anti-psichiatria di quel periodo: ma l'aver smantellato quei lager chiamato manicomi (dove si poteva finire per un semplide esaurimento nervoso!) è stato un merito eccezionale della legge 180 ispirata da Basaglia e della sensibilita' nuova verso i malati che essa promosse in tutti noi - all'epoca si sarebbe detto tra le masse!). La legge si può migliorare attuandola del tutto, Weyl, non cancellare: la situazione attuale dei MALATI in Italia è MIGLIORE. I manicomi d'altronde non sono stati smantellati da un giorno all'altro, tanto che per i casi piu' gravi è sempre rimasto per anni un presidio presso la struttura del manicomio stesso (ma i malati meno gravi non erano piu' promiscuamente tenuti insieme a quelli piu' gravi, come succedeva prima!) Ho letto le critiche agli eccessi dell'antipsichiatria (vedi: da: http://www.priory.com/ital/180/gjervis.htm) ed in parte li condivido ma anche quegli eccessi li vedo come reazione a quelli barbari del manicomio d'allora. Se l'allontanamento di Jervis è dovuto agli estremismi di quei tempi son d'accordo con lui, ma buttare il bambino con l'acqua sporca non è giusto. bibliografia minima: Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, 2a ed., Feltrinelli, Milano 1975; Franco Basaglia (a cura di), L'istituzione negata, 7a ed., Einaudi, Torino 1974. per una disamina storica vedi anche: http://www.alleanzacattolica.org/idi...sichiatria.htm "La follia - afferma lo stesso Jervis - è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni delle regole del vivere sociale". La diagnosi psichiatrica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed etichetterebbe le persone non corrispondenti a un determinato modello sociale secondo i passaggi: deviante, non normale, anormale, malato. Alla psichiatria spetterebbe quindi una funzione organica al "sistema": farsi carico dei devianti, provvedere al loro ricupero, al loro reinserimento sociale e, nel caso non fosse possibile, garantire la loro esclusione per mezzo dell'istituzionalizzazione. Questi concetti vengono spesso integrati in una concezione marxista, per cui la malattia psichica è conflitto psichico, ripercussione di contraddizioni e di tensioni sociali. Come secondo Karl Marx (1818-1883) la storia è storia della lotta di classe, così, per una psichiatria di orientamento marxista, la storia del malato è una storia di oppressione. Quindi, secondo lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), "l'unica possibilità che ci resti è di conservare il legame del malato con la sua storia - che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze - mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza". ... non penso, Weyl, che TUTTA la devianza sia un problema di repressione (esistono anche cause biologiche), ma nella storia dell'istituzione manicomiale, in gran parte lo fu. |
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04-10-2005, 00.01.27 | #27 |
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Malattia mentale e devianza
Rimarco il fatto che diverso è sostenere che la follia, malattia di mente, si rappresenta in un "giudizio" di devianza: altro è assimilare il fenomeno della follia, o malattia di mente, ad una devianza sociale.
Credo che la differenza ti sia evidente, oizirbaf, dal momento che il paralogismo che conseguirebbe a tale mancata distinzione non sarebbe diverso da quelli che risultano dall'appicazione pedissequa di un sillogismo della secona figura: tutte le anatra hanno due zampe, ma tutti gli uomini hanno due zampe, dunque tutti gli uomini sono anatre. Se in questa stanza conto tre persone, non significa che ciascuna di queste persone sia un numero. Il giudizio di Jervis mi trova d'accordo, come moltissime delle sue posizioni. Jervis è uno dei pochi psichiatri italiani il cui respiro culturale e intellettuale, la cui coerenza e intelligenza facciano onore a questo paese. |
04-10-2005, 15.53.03 | #28 | |
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Re: Malattia mentale e devianza
Citazione:
D'accordo circa il giudizio su Jervis, Weyl e con qualche riserva (nata dal dubbio:vedi mio post scriptum) sul resto, dato che non bisogna neppure ideologizzare, cioe' pietrificare, quanto OGGI la scienza sa sulla psicosi. Naturalmente per "follia", intendi i "comportamenti psicotici", cioe' i disturbi mentali più gravi, quindi "solo a una PARTE della patologia mentale o delle problematiche di sofferenza mentale (G. Jervis)". Interessante per tutti questo colloquio di Giovanni Jervis, docente di "Psicologia dinamica" all'Università di Roma, con i suoi studenti: STUDENTE: Quanto incide la predisposizione genetica nella follia? JERVIS: Intanto direi che parlare di follia al singolare forse è un po' improprio. Bisognerebbe parlare di "disturbi psichici", che sono molto diversi gli uni dagli altri - non sono tutti uguali- e anche a volte di "disturbi psichici gravi" o "psicosi, quelli che noi chiamiamo "follia". Bisogna tenere conto di un fatto, che, nella maggior parte dei casi e nella maggior parte dei disturbi, non c'è una causa unica, c'è un insieme di cause per cui a un certo punto, per sfortuna si può dire, ma molto spesso anche per caso, una persona si trova a vedere sommarsi delle predisposizioni genetiche, degli eventi di vita, delle difficoltà a fare fronte a nuove situazioni, come per esempio a situazioni di maggiore autonomia, quando uno cresce, oppure situazioni come la vecchiaia. Ecco in questa situazione, in questi casi avviene uno scompenso. Questo scompenso è ciò che noi chiamiamo "disturbo psichico". Fra le cause di questi "disturbi psichici" le cause genetiche hanno una certa importanza. Oggi si ritiene che abbiano più importanza di quanto non si pensasse venti o trent'anni fa. STUDENTESSA: Il concetto di normalità può dipendere dalla cultura e dalla società in cui vive l'individuo? JERVIS: Dipende molto dalla cultura e dalla società in cui vive l'individuo. Però ci sono anche degli aspetti universali, nel senso che, per esempio, certe patologie fisiche o psichiche, quando sono molto nette vengono considerate qualcosa di anormale in qualsiasi società. In parte si tratta di una questione di informazioni. Pensate per esempio alle eclissi solari, un fenomeno naturale. Le eclissi solari sono un fenomeno eccezionale, ma che noi consideriamo normale, noi nella nostra società, perché le possiamo prevedere e sappiamo esattamente di cosa si tratta. In una società pre letterata l'eclissi solare è considerata un fenomeno anormale, cioè un qualche cosa, che non soltanto è eccezionale, ma è anche inquietante, ci pone degli interrogativi. Potrebbe essere un segnale di morte. Allora questo attribuire un significato di anormalità all'eclissi solare è legato al fatto che non si sa cos'è l'eclissi. Se si cos'è non è più anormale. Questo vale per molti altri fenomeni. Il giudizio di anormalità, dato che si tratta sostanzialmente di un giudizio, non di una caratteristica intrinseca è in larga misura legato alla nostra difficoltà a capire e a accettare qualcosa che ci appare non soltanto eccezionale, ma anche inquietante. Se lo conosciamo meglio, ne conserviamo il carattere eccezionale, ma questo fenomeno perde il carattere di qualcosa di inquietante, diventa qualcosa che noi capiamo, che interpretiamo. Nella misura in cui lo interpretiamo è meno anormale. STUDENTESSA: Nell'ambito delle malattie psicotiche, abbiamo parlato di "caratteropatia" e quindi dell'educazione dei bambini. Mi potrebbe spiegare quanto può influire l'educazione in un bambino e che risvolti potrebbe avere questo tipo di malattia? JERVIS: "Caratteropatia" significa qualcosa di abbastanza particolare. Parliamo in generale di "disagio psichico", che è un termine che comprende un po' tutto. L'educazione conta molto. Bisogna dire però che quello che conta di più sono certe situazioni di prolungato disagio nell'infanzia. Quando un bambino cresce in un'atmosfera di deprivazioni affettive e di brutalità, questo certamente ha un'influenza molto negativa sulla sua psiche. Contano anche altre cose, come per esempio l'atteggiamento della madre, il fatto che il bambino non deve venire confuso con ordini o richieste contraddittorie. Però bisogna anche dire che i bambini, da questo punto di vista, spesso se la cavano molto bene. Quindi non bisogna neanche esagerare, per quanto riguarda gli errori educativi dei genitori. Bisogna che questi errori siano molto gravi, per creare realmente sempre dei disturbi. Altre volte ci possono essere bambini un po' più fragili degli altri. Ma insomma questo dipende anche da un caso all'altro. STUDENTE: Il film che abbiamo scelto come esempio in merito all'argomento è Rain man, in quanto sembra offrire un ottimo esempio del rapporto che può intercorrere tra un soggetto malato e un altro normale. Un uomo, Tom Cruise, si sveglia al mattino e viene a sapere di avere un fratello, Dustin Hoffman, autistico. Vivono insieme per sei giorni, imparano a capirsi e a rispettarsi. Entrambi maturano e questa esperienza li cambia. Vediamo appunto sparire sotto i nostri occhi questa differenza tra la normalità e follia, che è vanificata appunto dalla voglia e dalla capacità di comprensione e di dialogo. Lei come reputa la nostra scelta? JERVIS: Io credo che certi film, come Rain man, oltre a essere dei bei film, hanno anche una funzione: quella di far capire e far riflettere, non tanto su cos'è la follia o cos'è l'autismo, quanto su cosa succede a noi, quando entriamo in contatto con persone di questo tipo. Ebbene la cosa che giustamente alcuni di questi film dicono è che c'è in qualche modo una scoperta del lato umano e del lato normale anche della persona disturbata. Cioè si stabiliscono delle forme di comprensione e di dialogo, che non soltanto permettono di entrare in contatto con l'altra persona e di aiutarla, ma in qualche modo ci permettono anche di interrogarci noi sulle nostre abitudini e su quello che abbiamo dato spesso, troppo spesso per acquisito: si fa così e basta. Si può fare in tanti modi. Ora naturalmente ci sono alcuni modi che non sono, come dire, del tutto normali, in senso generale, cioè non sono del tutto sani, però sono spesso più sani di quello che sembra all'inizio. La distinzione fra normalità e anormalità, fra normalità e devianza, fra normalità e follia è una distinzione più fluida di quello che noi siamo soliti pensare. Forse, questo, ci riporta poi all'inizio del discorso: ognuno di noi per capire ciò che vuole fare, per capire ciò che deve fare, ciò che per lui è normale ha bisogno di crearsi in qualche modo un feticcio dell'anormalità e della follia, qualcosa di rigido: lì non si va, questo non si fa. E invece questo è più discutibile di quanto non sembri a prima vista e permette di metterci in discussione, cosa che permette, a sua volta, di ritornare a contatto con gli altri che ci sembrano diversi e incomprensibili. E questo è un po', diciamo, l'insegnamento generale che noi possiamo ricavare da questo tema. p.s. ... scusa se inserisco un ricordo personale, affiorato mentre cercavo di risponderti: tanti anni fa portai a casa una psicotica che molti anni addietro aveva lavorato con me, tenendola nella mia famiglia per qualche tempo, dato che dormiva dove capitava. Mia moglie, santa donna, era abituata a questo mio modo di fare (... una volta portai a casa un barbone puzzolente che una volta lavato somigliava a babbo natale! eheheh bel ricordo) e la feci dormire insieme ai miei figli piccoli, dato che allora non avevo altri posti letto. Mi accorsi subito della gravita' della sua malattia quando mi parlò di una "casa senza porte nè finestre dove la portava uno zio cattivo" e disse anche che veniva continuamente seguita. Quando lavorava con mè era molto chiusa e permalosa ma lavorava bene, si era sposata, aveva avuto una figlia: pian piano scivolo' in un tunnel che la porto' al divorzio, al licenziamento e successivamente all'affido della figlia al padre fino al vagabondaggio. Il padre, uomo rigidissimo, non l'aiuto' quando se ne ando' di casa, dicendosi perseguitata dalla matrigna (la psicosi inizio' a manifestarsi con la morte della madre). Si curo' per un po' poi ne persi le tracce. Una volta la intravidi, ma fece finta di non conoscermi: i suoi occhi mostravano tutto il suo dramma. Senz'altro la psicosi era in lei genetica, ma non mi rassegno al pensare che l'infanzia troppo dura che ha avuto, puo' averle fatto varcare quella soglia che, forse, non avrebbe oltrepassato! Non ho risposte, Weyl. Ultima modifica di oizirbaf : 04-10-2005 alle ore 15.54.56. |
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05-10-2005, 02.01.46 | #29 |
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Vorrei, vorrei averne di risposte...!
Caro amico,
hai tutta la mia ammirazione per l'umanità profondissima che accompagna la tua intelligenza, credimi! Davvero vorrei che avessimo delle risposte, delle conoscenze convincenti che non toccassero, senza devastarli, i punti critici intorno ai quali noi imperniamo i valori sostanziali del nostro vivere. Purtroppo le direzioni entro le quali si muovono le neuroscienze, nella loro innocente crudeltà, tendono il senso stesso della Ricerca ai limiti della ragione per cui essa si pone... Mi chiedo spesso cosa muova, che cosa prema sulle corde delle intenzioni dei ricercatori: so bene, per personale esperienza, che non sono affatto interessi immediati. Sembra che ogni piccolo pool, ogni microgruppo, ogni individuo, dentro questo strano mondo, si comporti come fosse un neurone di un immenso cervello: forse la rete, nel suo insieme, compone una specie di straordinaria mente dell'umanità. Eppure questa mente ci sfugge. Cosa desideriamo, infine? E cosa rappresentano queste cellule impazzite che, pure, al di là delle trame sognanti delle loro piccole storie, si inscrivono dentro lo stesso disegno intellettuale? So che la compassione non le aiuta. Esse trascendono, in realtà, il senso vero dell'abnorme: tanta è in realtà l'aspirazione degli psicotici alle consuetudini dell'ordinarietà. Il senso profondo della follia sta dentro un eccesso di consapevolezza. Neuroni supernove che divengono buchi neri nell'autocoscienza della nostra specie. Scusami se sono ricorso a metafore. |
05-10-2005, 13.32.27 | #30 |
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L'esempio più lampante di come la psichiatria sia un falso scientifico è rappresentato proprio dall'omosessualità considerata a lungo una malattia mentale e dichiarata non tale solo nel 1993 dall'OMS.
Sulla base di quali evidenze scientifiche era considerata una patologia? Sulla base di quali esami diagnostici e strumentali? La psichiatria sostiene di curare malattie che in realtà non è in grado di dimostrare. Delle malattie del cervello se ne occupa il neurologo non lo psichiatra. |