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Esperienze di vita

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La meditazione come via immanente alla conoscenza di sé

di Andrea Bertuccioli

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Meditare significa letteralmente andare al centro (al nucleo essenziale) di sé stessi, del proprio Sé profondo, e mettersi in connessione con esso, stabilire un contatto diretto con ciò che vi è di più significativo, con l’assolutamente significativo e l’incondizionatamente  presente e reale, dove il significato e la realtà sono di tipo esistenziale – esperienziale,  al di là di ogni teoria, di ogni mistica, filosofia, insomma di ogni struttura di pensiero codificata.
Questo può avvenire in vari modi e attraverso varie tecniche, ma il fine ultimo resta sempre lo stesso: arrestare, bloccare per qualche attimo, minuto, decina di minuti o ora il dialogo interiore, quel flusso ininterrotto di pensieri e sentimenti che costituisce una sorta di rumore di sottofondo, di costante brusio della nostra mente e che la rende così spesso deconcentrata, depotenziata, stanca, priva o carente di energia e vitalità. (creatività)
Pensate solo che contributo potrebbero fornire dare al cambiamento della società e all’evoluzione dell’umanità milioni di menti concentrate, attente, vigili, operanti ad un livello di consapevolezza superiore.
Meditare in senso proprio, ossia neutro e aggiungerei laico, come atto immanente, ossia non religioso, mistico, trascendente, significa sviluppare uno sguardo intenso e chiaro verso la propria interiorità più profonda, verso la propria essenza più intima, uno sguardo che con il perfezionarsi della abilità e della capacità meditative, si fa sempre più limpido, lucido e penetrante, fino a diventare col tempo e la pratica una percezione definita del proprio sé, che può essere sempre più affinata e perfezionata.
Questo lavoro su di sé, che solo una mentalità completamente materialistica può considerare qualcosa di inutile e superfluo, permette di ottenere o ripristinare quell’equilibrio e quell’armonia della psiche che costituiscono il presupposto indispensabile per muovere ulteriori passi sulla via della ricerca di sé e della conoscenza di se stessi.
Una descrizione mirabile, allo stesso tempo semplice e profonda della percezione della realtà che si raggiunge nello stato meditativo la si trova nel celebre racconto di H. Hesse, Siddharta:

 

“(…) Siddharta ascoltava. Era tutt'orecchi, interamente immerso in ascolto, totalmente vuoto, totalmente disposto ad assorbire; sentiva che ora aveva appreso tutta l'arte dell'ascoltare. Spesso aveva già ascoltato tutto ciò, queste mille voci nel fiume; ma ora tutto ciò aveva un suono nuovo. Ecco che più non riusciva a distinguere le molte voci, le allegre da quelle in pianto, le infantili da quelle virili, tutte si mescolavano insieme, lamenti di desiderio e riso del saggio, grida di collera e gemiti di morenti, tutto era una cosa sola, tutto era mescolato e intrecciato, in mille modi contesto. E tutto insieme, tutte le voci, tutte le mete, tutti i desideri, tutti i dolori, tutta la gioia, tutto il bene e il male, tutto insieme era il mondo. Tutto insieme era il fiume del divenire, era la musica della vita.

 

Questo brano ci mostra con esemplare chiarezza come nello stato meditativo profondo si pervenga ad una identificazione e ad una fusione armoniosa tra la percezione interiore e quella del mondo circostante, uno stato di attenzione elevato al massimo grado che riconduce la molteplicità dei fenomeni e degli esseri ad unità suprema.
Ogni cosa è colta nel suo essere se stessa, nella sua assoluta presenza, nel suo perenne fluire, senza giudizi e pregiudizi, percepita cioè non nella modalità del dovrebbe essere, sarebbe bene che fosse o del potrebbe essere, ma dell’è così.
Quella che si esperisce nello stato meditativo profondo non è una conoscenza di tipo discorsivo, ma di tipo realizzativo-intuitivo, cioè una percezione immediata della realtà e dell’essenza di qualcosa, in primo luogo di sé stessi, in virtù dell’attenzione protratta su di sé o su un qualunque altro oggetto, interiore o esteriore di meditazione. Pura presenza della consapevolezza in sé e a sé.
Si tratta di un vedere con gli occhi invisibili e immateriali  della consapevolezza,  ma altrettanto reali di quelli materiali, nel senso espresso dal termine inglese “insight” o del tedesco Einsicht, vedere dentro, all’interno.
Uno  degli effetti che la pratica meditativa esercita sulle persone, come vedremo meglio in seguito a proposito di recenti studi scientifici, è quello di renderle più ricettive, percettive, sensibili, attente, ma anche capaci di intrattenere rapporti interpersonali  e di svolgere attività materiali e mentali con una intensità, una energia, una concentrazione, una qualità dell’esperienza, ben superiori a quelle ordinarie, riscontrabili presso i non meditanti.
Di solito infatti la consapevolezza ordinaria che caratterizza la maggior parte delle persone che non praticano la meditazione, è quasi sempre deviata, distorta, alterata distratta da pensieri estranei e ricorrenti, da flussi di immagini, ricordi, da desideri, aspettative, brame, manie più o meno esplicite, protesa sempre verso un altrove rispetto al momento presente, nell’atto e nel tentativo di anticipare e immaginare scenari futuri o di rimpiangere o rimuovere il passato.
Anche la capacità di ascolto e di osservazione trae enormi benefici dalla pratica meditativa, così come la chiarezza dei processi mentali, dato che meditare significa praticare una sorta di igiene psichica o per dirla con Gregory  Bateson di ecologia della mente, ossia ripulirla  da tutte le sovrastrutture, le impressioni superficiali, le pulsioni, i pensieri inutili e superflui, talvolta ossessivi e parassitari, che offuscano progressivamente lo sguardo su di sé, sul sé profondo, la cui natura e origine è di tipo cosmico – spirituale, fino a (ostacolarne) impedirne totalmente la vista.
Tutte le sapienze più antiche d’oriente e d’occidente, le scuole iniziatiche e le vie sapienziali erano e sono consapevoli di questa realtà, perciò nel caso di Bateson si può parlare di una riscoperta di antiche conoscenze sepolte sotto la polvere e l’oblio dei millenni.
Meditare serve inoltre a conferire stabilità, solidità e continuità ai nostri processi interiori, che nello stato di consapevolezza ordinario, non-meditativo sono soggetti ad enormi oscillazioni, talvolta di carattere schizofrenico, come se gli stati interiori (d’animo) fossero canne continuamente piegate qua e la dai venti e delle tempeste emotive, ossia dalla furia incontrollata dei pensieri e dei sentimenti, sotto forma di rabbia, odio, frustrazione, amarezza, delusione, tristezza, abbattimento, gelosia, invidia, rancore, brama di possesso, desiderio (sete) di vendetta, fretta, affanno, (come se si fosse costantemente pungolati a dover essere o fare), sgomento, ansia, angoscia da non senso, pigrizia rinunciataria, mancanza di vitalità, malumore, recriminazione, autocommiserazione, autocolpevolizzazione, avvilimento, scoramento, sconsolatezza, ira per la bruttezza e stoltezza delle cose o delle persone, malinconia, desolazione, disappunto, risentimento, bisogno morboso di riconoscimento, dipendenza nei confronti dei giudizi altrui, attaccamento (a tutti questi stessi) agli stati negativi,  ma anche euforie, passioni, ebbrezze  ed entusiasmi momentanei e transitori.
Si è letteralmente dominati (sopraffatti) da questo stati interiori di squilibrio, essi hanno il totale sopravvento su di noi, divengono parte costitutiva e ineliminabile del nostro essere in virtù di un attaccamento o legame perverso con essi, finendo per divorare ogni energia residua e ogni slancio di tipo evolutivo.
Questi stati negativi, di turbolenza interiore, rendono estremamente difficile entrare in connessione armonica col nostro sé e dimorarvi, e producono una drastica alterazione e diminuzione del flusso di forza vitale che toglie vita, essere  alla mente e alla consapevolezza.  (Si tratta perciò tramite la meditazione di restituire energia vitale, vita esistenza effettiva (non apparente), essere alla mente e alla consapevolezza).
La presa d’atto, l’osservazione neutra dello stato negativo costituisce il primo passo per il suo graduale superamento e dissoluzione. Per farlo però occorre volontà costanza e motivazione al cambiamento del proprio stato interiore.
La mancanza di costanza, la labilità e volubilità sono elementi caratteristici di molti soggetti e individui del nostro tempo.
Se osserviamo la vita di molte persone che ci circondano e che ci capita di incontrare, notiamo che le loro strutture psichiche e caratteriali sono caratterizzate da una evidente mutevolezza e fragilità, nel quadro di una generale precarietà dei legami affettivi, dei rapporti sociali e di lavoro.
I rapporti tra le persone sono sempre più superficiali, banali, effimeri, i vincoli d’amicizia sempre più fluidi e instabili, basati spesso più su interessi e convenienze reciproche o sulla partecipazione a forme di divertimento vuote ed alienanti, nel grande circo della società del tempo libero (quella che Bauman chiama “società liquida”), piuttosto che sulla volontà di conoscenza effettiva della reale natura dell’altro, come fonte di arricchimento interiore e di evoluzione dell’esperienza.
In una conferenza tenuta a Milano sulla fragilità dei rapporti umani il sociologo anglo-polacco Zygmund Bauman ha affermato:

 

“Siamo consumatori in una  società di consumatori. La società dei consumi è una società di mercato; tutti noi siamo nel e sul mercato, in modo intercambiabile, simultaneamente acquirenti e merci. Non meraviglia perciò che l’uso/consumo delle relazioni si adatti ormai sempre più velocemente al modello dell’uso/consumo delle macchine e delle merci,  ripetendo il ciclo che inizia con l’acquisto e finisce con lo smaltimento dei rifiuti”.

 

In questa condizione di estrema precarietà dei rapporti umani, la stessa amicizia, intesa in senso spirituale come conoscenza empatica e sintonia interiore con l’altro, capace di arricchire la qualità della esperienza e dell’esistenza, sembra destinata a diventare un modello ormai desueto.
Ma esseri umani che non sono più in grado né vogliono conoscere sé stessi, non sono più nemmeno in grado di conoscere gli altri, da cui sempre più cercano di proteggersi e di schermarsi, non solo per la paura (in sé naturale) dell’estraneo, ma anche per il timore che mettendo a nudo parti della propria essenza interiore, possano scoprire il fianco a intrusioni e attacchi, ferite nei confronti della propria personalità. Questo produce, come aveva già notato Lorenz, un generale raffreddamento e una stagnazione della sfera dei sentimenti, un gelo dell’anima che impedisce alla persone di instaurare legami profondi, vitali e intensi con il prossimo.
Capita infatti che non poche persone si rinchiudano, consapevolmente o inconsapevolmente, in una sorta di prigionia interiore, incapsulandosi ermeticamente nel guscio protettivo e impermeabile del proprio ego, da cui  sovente non sono più in grado di uscire.
Ma come insegnava il Buddha questo rinchiudersi nella prigione dell’ego e delle sue pulsioni, ossia nelle strutture del materialismo, dell’egotismo e dell’edonismo, è fonte di sofferenza morale ed esistenziale, la quale è il frutto della disattenzione (a sé, su di sé, verso le proprie vere esigenze) ma anche dell’ignoranza, ossia della non conoscenza della reale fonte della pace, della libertà e dell’armonia interiore, il contatto con la matrice profonda del sé.
Volgendo lo sguardo a occidente, alla filosofia greca, socratica, troviamo lo stesso pressante invito alla conoscenza di sé stessi come costitutiva della definizione e della natura dell’umano.
Perciò una società e una civiltà come quella attuale che ha disimparato e sta sempre più disimparando e disincentivando questa pratica essenziale per la costruzione dell’essere umano, è una società che reca in sé i germi del declino e della degenerazione.
Il fatto è che la conoscenza di sé stessi è diventata qualcosa di trascurabile e insignificante  in una civiltà che da valore soltanto a ciò che quantificabile, che è oggetto di calcolo, misurazione, classificazione e statistica:
A questo proposito il grande scienziato, padre della moderna etologia, Konrad Lorenz ebbe a osservare (Declino dell’uomo):

 

“poiché ogni responsabilità morale dell’uomo discende dalla sua sensibilità a determinati valori, è necessario confutare l’errore endemico che considera dotato di realtà soltanto ciò che è numerabile e misurabile quantificabile. E’ necessario dimostrare in modo convincente che i processi soggettivi della nostra esperienza interiore hanno lo stesso grado di realtà di tutto ciò che può essere espresso con la terminologia delle scienze esatte della natura”.

 

Esperienza interiore come fattore di conoscenza altrettanto importante di quella scientifica: pronunciate da un grande scienziato del nostro tempo, queste parole assumono un significato straordinario.
Questa è stata ed è ancora l’epoca delle masse, più che degli individui autonomi ed autoresponsabili, masse amorfe, passive ,influenzate e influenzabili, condizionate, soggiogate e suggestionate nella prima metà del novecento, e ancora oggi in molte parti del mondo, da tribuni senza scrupoli e dai loro perfidi strumenti di propaganda e indottrinamento, da sirene ideologiche e religiose che ne fanno blocchi compatti dediti al culto e alla venerazione del capo, carne da macello per guerre e imprese di conquista sanguinarie, ma anche polli d’allevamento da ingozzare di stupidaggini e spingere al consumo insensato di merci attraverso stimoli sessuali per mezzo della  pubblicità, della televisione e altri strumenti di persuasione più o meno occulti.
La Terra è diventata una nave stipata fino all’inverosimile e guidata da nocchieri irresponsabili, che fomentano invece che arrestare questa corsa folle alla crescita demografica ed economica, allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali residue, questa corsa agli armamenti, alla devastazione dell’ambiente, alla definitiva alterazione del fragile ecosistema che ci ospita.
Viviamo in quello che è diventato, come vide già negli anni 20 lucidamente René Guénon il regno della pura quantità, in cui l’economia non si occupa che del PIL o di indici di crescita dello zero virgola per cento, la scienza tende a ridursi spesso a puro calcolo e quantificazione di eventi ripetibili, la vita diviene riproduzione indiscriminata, eccessiva e innaturale di esseri umani, creando sovrappopolazione, le città enormi conigliere umane afflitte da crimine, traffico e cemento, i malati statistiche e numeri, i cittadini elettori e contribuenti, ossia schede elettorali e codici fiscali.
L’essere umano, il singolo essere umano nella sua irriducibile differenza e meravigliosa unicità diviene un’entità anonima, atomizzata, spettrale, solo in una folla solitaria, alla ricerca frenetica di modi e forme, sempre più forzate ed esasperate  per uscire da sé, per appunto divertirsi (da divertere, deviare…) in quanto teme sempre più la compagnia di sé, il contatto con quella parte allo stesso tempo oscura e luminosa di sé che ha ripudiato e misconosciuto.
L'individuo eterodiretto di oggi secondo l’analisi di Riesmann è guidato in prevalenza, nel suo comportamento, dal desiderio di adeguarsi a ciò che da lui si aspetta il gruppo sociale che egli frequenta abitualmente ed quindi altrettanto poco capace di distanziarsi dai modelli esterni quanto lo era il suo predecessore premoderno ma, invece di orientarsi verso i modelli immutabili del passato, egli orienta la sua bussola interiore verso gli atteggiamenti, le preferenze e i gusti massificati e omologanti  di quei contemporanei che costituiscono figure di spicco all'interno del gruppo di riferimento o con cui entra in contatto in modo fittizio attraverso i mass media ed Internet.
Vuoto interpersonale, assenza di comunicazione profonda, anonimato, depersonalizzazione  dei rapporti umani,  disturbi del comportamento relazionale e sociale, nevrosi, autoreferenzialità, narcisismo ed egotismo sono solo alcuni dei sintomi che presenta questo individuo-massa atomizzato, alienato e solitario tipico delle società di massa della civiltà moderna e postmoderna.
Su un versante (altro) diverso, quello psico – pedagogico sembra fargli eco Bruno Bettelheim (ne “Il cuore vigile”):

 

“Attualmente, il progresso tecnico ha di gran lunga superato il grado di integrazione corrispondente. Questa mancanza di equilibrio propria di molti cittadini del moderno stato di massa porta con sé anche disturbi di natura emotiva che, come molti di noi sanno, sono dovuti a conflitti non risolti. Ma la loro soluzione dipende dal grado di integrazione della personalità”.

 

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