Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Dandy, flâneur ed esteta
Conversazione con Paolo D'Angelo
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- maggio 2005
Molti anni fa, vidi un eccellente giovane Lavia in un Nipote di Rameau, sulfureo, incontenibile. Peccato che l’eccesso patetico in seguito lo abbia sviato. E poi naturalmente Eduardo, va sans dire. Mi rendo conto che non sto citando nessuna attrice. Mi meraviglio, ma è così, ed è colpa mia.
Si è considerato dunque anche estimatore di Carmelo Bene? E ha seguito sempre con interesse il suo percorso artistico, fino alla fine?
Sono troppo giovane per aver conosciuto il Bene non diciamo degli inizi (il Caligola) ma anche degli anni Sessanta, i suoi primi, leggendari spettacoli, il primo Pinocchio, la Salomé. Quando ho cominciato a frequentare il teatro, quel che restava della scena off di Roma – il Beat 72 esisteva ancora, ma per poco – Carmelo Bene era già un mito consacrato, era già il ‘divino’. Era circondato da un alone di leggenda maudite (le minzioni sul pubblico, la sigaretta accesa con le centomila per mostrare il disprezzo del danaro, il whisky a fiumi) ma al tempo stesso si muoveva ormai nel circuito dei grandi teatri, era già perfettamente accettato, anche dal pubblico più bolso (dialettica inevitabile dell’avanguardia: quando io l’ho conosciuta era già istituzione, in tutti i settori, forse per questo ho mai potuto prenderla sul serio fino in fondo). Ricordo che gli essai di Roma proiettavano ciclicamente la Nostra Signora dei Turchi e la versione cinematografica della Salomé. Impossibile non andarle a vedere. Ma, tornando al teatro, l’unico Bene che posso dire di aver conosciuto per esperienza diretta è stato proprio quello degli ultimi anni, quello della “macchina attoriale”, delle ricerche sulla foné, dell’uso esasperato dell’amplificazione e del play-back. Ricordo in particolare una serata all’Argentina, Carmelo immobile al centro della scena, nerovestito e incerottato more solito, affidare a un impianto ultratecnologico di macchinari di amplificazione l’infinita gamma dei suoi toni, le sue acrobazie vocali, i suoi sbalzi di volume e di umore. Bisbigli e grida, la famosa voce-orchestra. Ma non era il Manfred: non posso dire di essere rimasto conquistato da questa riduzione del teatro alla dimensione uditiva, e da questa abdicazione di tutti i mezzi naturali di comunicazione vocale. L’impressione fu quella di un immenso artificio, di un virtuosismo fine a se stesso, di un estremo ed estenuato bisogno di épater un pubblico che per altro beveva tutto religiosamente. C’è poi il lato teorico di tutto questo, il Bene infranciosato, tra Lacan e Klossowski e Deleuze, ma qui l’oscurità programmatica non aiuta a dissipare il mistero.
De mundo pessimo, s’intitola l’ultimo libro del filosofo Manlio Sgalambro e in uno dei brevi trattati, “Della filosofia geniale”, partendo da Schopenhauer “si pone il problema se la filosofia non debba essere sottratta all’università e restituita al ‘genio’”. Lei cosa ne pensa?
Le confesso di non avere molta simpatia per Sgalambro, un autore che ho sempre trovato profondamente irritante. Non solo perché non amo, in generale, i negatori del mondo e i pessimisti radicali che sono tuttavia così ben accomodati nel loro pessimismo da scriverci sopra decine di libri, come Cioran o, appunto, Sgalambro. Ma anche perché tutti i discorsi di Sgalambro dimostrano una supponenza e un’arroganza inaccettabili. Come si fa a scrivere che il problema della filosofia è che la filosofia non è più in mano al genio? Il buon gusto vieterebbe di scriverlo anche se a parlare fosse un genio, e le assicuro che non è il caso di Sgalambro. Il problema della ‘filosofia dell’’università’ va allora ricondotto ai suoi termini storici. Da quando si è formato il moderno sistema di istruzione universitaria, quasi tutti i filosofi sono stati professori di filosofia. Alcuni filosofi, anche grandissimi, hanno fatto eccezione: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Croce, Sartre. Ma alcuni filosofi ‘universitari’ sono stati altrettanto grandi, o, come Sgalambro amerebbe dire, ‘geniali’: pensi a Bergson, a Heidegger, a Gentile, a Husserl, a Derrida. Schopenhauer fu il primo parlare di ‘filosofia dell’università’ in senso spregiativo: ma aveva tentato di insegnare, contendendo gli allievi a Hegel, e non aveva avuto successo. Anche Croce, che non insegnò mai, polemizzò spesso contro i ‘professori di filosofia’, ma non in nome del ‘genio’ (che anzi, come diceva, è un ‘mito psicologico’). A stretto rigore, quello sollevato da Sgalambro è un problema sociologico: alcuni filosofi, pochissimi, hanno potuto vivere dei propri mezzi, altri – la stragrande maggioranza, no. Ed è quindi ovvio che in questa schiacciante maggioranza i modesti, ma non inutili, studiosi siano la regola, e i ‘geni’ l’eccezione. Che dunque Sgalambro si permetta di dare dell’ “imbecille” a Gadamer perché questi non è un ‘genio’ come quelli che ho citato sopra (e questo è vero) ma solo un onesto studioso, non è espressione di una polemica culturale ma soltanto, mi pare, di maleducazione.
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