Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Dandy, flâneur ed esteta
Conversazione con Paolo D'Angelo
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- maggio 2005
Protagonisti indiscussi della nostra televisione sono senz’altro, oggi, le veline, i cuochi e i metereologi. Però, tra una coscia nuda e una forchetta, un cannolo e una previsione, c’è anche la possibilità che salti fuori un programma interessante. È così? Lei ne ha individuato qualcuno? Oppure la tv tutta semplicemente la annoia, la subisce con indifferenza, in ogni caso?
Di quale televisione parliamo? Se ci riferiamo a quella che arriva nella maggior parte delle case italiane, ossia i canali della televisione nazionale e quelli Mediaset, allora effettivamente il panorama è piuttosto sconfortante, e le eccezioni sono veramente sporadiche. Ho l’impressione però che la TV satellitare cambi le cose. Con una parabola e un decoder si ricevono oggi centinaia di canali, e qui credo che sarebbe veramente snobistico dire che non si trova nulla che sia degno di essere guardato. C’è del buon cinema, anche senza contare l’offerta di pellicole recenti a pagamento: negli ultimi mesi, per esempio, io che sono uno spettatore che non consulta i programmi e che guardo la televisione quasi solo a tarda sera mi sono imbattuto in una retrospettiva di Cronenberg quasi completa e in diversi film meno noti di Pasolini. C’è della buona ricostruzione storica (questa, molto raramente, si può vedere anche nei canali nazionali), molta divulgazione scientifica, qualche serie di telefilm americani. Sex and the City o Medici in prima linea (ma per questi non serve la parabola, mi pare) sono prodotti di intrattenimento puro, ma non sono banali nelle sceneggiature e nei ritmi come i nostri carabinieri, poliziotti, ereditieri. Si possono vedere programmi in lingua originale, per lo più in inglese, e notiziari. Si può perfino ascoltare buona musica e trovare qualche programma letterario. Certo, rimane il problema di fondo, che è economico e culturale insieme: chi non può o non sa, è condannato a istupidirsi con i reality, le risse in diretta, la pornografia dei sentimenti finti esibiti senza pudore, e tutto quel che sappiamo.
Perché quando si parla di giornalismo, non si può fare a meno d’indicare l’approssimazione con cui esso viene praticato? E anche lei, come Tullio De Mauro, lamenta la scarsa frequenza o addirittura l’assenza delle inchieste giornalisitiche?
Non c’è dubbio che il giornalismo di inchiesta, come lo si faceva negli anni Sessanta o Settanta sia sparito. Giornalisti che hanno fatto grandi inchieste, penso a Bocca o Biagi, ad esempio, oggi, credo per ragioni essenzialmente anagrafiche, non lo fanno più, e, cosa molto più grave, non hanno trovato successori. Ci sono motivazioni non solo politiche, ma anche, come dire, ‘aziendali’ dietro questo fenomeno. Ma il discorso va ampliato. De Mauro è perfettamente nel giusto quando nota che il nostro giornalismo è, nella media, meno accurato e meno orientato al controllo scrupoloso dei fatti di certo giornalismo straniero. È una cosa che si può constatare facilmente leggendo quotidiani come El pais o la FAZ (Frankfurter Allgemeine Zeitung), o anche semplicemente verificando il modo in cui sono date le informazioni circa fatti o problemi che conosciamo bene dall’interno, quando essi sono trattati dai giornali. In particolare, l’informazione su ciò che avviene fuori dal nostro Paese mi sembra spesso carente, forse perché siamo un paese che tradizionalmente ha scarsa proiezione verso l’esterno: basta leggere Le Monde per sentire tutta un’altra musica. Occorre però dire che da noi la stampa quotidiana, rispetto, per esempio, alla Germania, è troppo poco diffusa e che anche i grandi giornali debbono tener conto di un lettore che magari, all’estero, legge la stampa popolare: la FAZ, ad esempio, è certo un giornale serio, ma temo che in Italia risulterebbe troppo serio. Ci sono, comunque vistose eccezioni: Alberto Ronchey, ad esempio, quando scriveva assiduamente, faceva un giornalismo di fatti e di dati, molto concreto. Si poteva dissentire dalle sue opinioni, certamente, ma dai suoi articoli si imparava sempre qualcosa. La ricchezza di documentazione e il controllo dei fatti si incontra tuttavia piuttosto in pubblicisti che non sono in senso stretto giornalisti, mentre domina un modello di un giornalismo ‘di opinione’ che vuole comunicare al lettore delle convinzioni, non metterlo nella condizione di formarsene delle proprie.
Si è sentito molto vicino a un pensatore come Jacques Derrida?
Per formazione culturale avrei dovuto essere molto lontano da Derrida, ma debbo invece dire che l’ho sempre seguito con grandissimo interesse, e non sono mai stato tra coloro che si irritavano per le (presunte) fumisterie o si ritraevano inorriditi dalle arditezze stilistiche. Ho sempre trovato straordinaria la carica autenticamente critica che sta alla base della filosofia di Derrida. La decostruzione per me è essenzialmente questo: un movimento che disloca le certezze, mostra le presupposizioni date per scontate, mette in dubbio quello che appare sicuro.
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