Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Ancora una professione impossibile
Conversazione con Ottavio Fatica
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- giugno 2005
È a Roma che ho intervistato Ottavio Fatica, uno dei più colti e geniali traduttori italiani. Una vera vocazione, la sua, coltivata con rigore ormai da decenni. Basti ricordare su tutti la mirabile traduzione - che risale al 1975 -, della tesi di laurea di Louis-Ferdinand Céline: Il Dottor Semmelweis. Dopo Compassione di Evelyn Waugh, ha di recente curato, come i due titoli precedenti, per Adelphi: Il ritorno di Puck di Kipling. Un’occasione dunque per incontrarlo.
Fatica, ancora un’opera di Kipling? Cos’è che l’affascina tanto di questo autore? Ed è molto amato in Italia?
È la seconda anta del dittico intitolato a Puck. L’anno scorso abbiamo pubblicato Puck il folletto, adesso è appena uscito, appunto, Il ritorno di Puck. Due raccolte di racconti che attraverso lo sguardo ceruleo di un folletto, un fauno vecchio come il tempo, passano in rassegna episodi grandiosi e infimi, realissimi e inventati, della storia inglese, trascorrendo dal neolitico all’era elisabettiana, fino alla Rivoluzione francese, con un’incursione nelle colonie al di là dell’oceano, in mezzo ai pellerossa, e con un’infinità di personaggi: sciamani e pirati, astrologi e artisti, contrabbandieri e re, e protagonisti del calibro di Francis Drake e Napoleone. Un affresco inquietante dove legge e violenza illegale cospirano per creare quell’incubo abbagliante che chiamiamo Storia. Ad affascinarmi in Kipling è la ricchezza che deborda letteralmente da ogni parte, celata in ogni pagina, per non dire in ogni rigo, di una produzione pur sovrabbondante, con scoperte e sorprese rinnovate a ogni lettura, a ogni traduzione o ritraduzione. In Italia, come nel mondo, Kipling ha avuto immenso successo, fin dall’inizio. È stato subito tradotto, in modo a dir poco osceno, questo è vero, ma qualcosa trapassava la patina della brutta traduzione, la forza mitopoietica superava ogni ostacolo interposto da traduttori improvvisati, un po’ come per le versioni decurtate, tranciate di Omero, Shakespeare o Tolstoj: Mowgli o Kim, come Achille, Falstaff o il principe Andrej, sopravvivono a (quasi) tutto. E il pubblico lo ha sempre amato; i migliori critici e scrittori da Wilson a Jarrell, da Eliot a Auden, da C. S. Lewis a Orwell, da Serra a Cecchi, da Borges a Jünger, a Freud! lo hanno sempre letto con intelligenza. Ed è un classico che nasconde ancora molti tesori.
Poco tempo fa ha anche curato, per Einaudi, il volume “Limericks” di Edward Lear? Chi era innanzittutto costui?
Edward Lear era uno dei tanti eccentrici vittoriani, che formano quasi una categoria a sé nell’ambito dell’eccentricità che da sempre contrassegna la nazione inglese. Un marginale, malato fin da piccolo di tutto – dall’asma all’epilessia – e per tutta la vita, che durerà comunque 76 anni. Grande viaggiatore, soprattutto nel nostro paese, dove aveva casa, a San Remo, e dove morirà nel 1888. Discreto acquerellista, disegnatore (insegnò anche alla regina Vittoria) per la Società Zoologica di Londra, due pappagalli portano il suo nome debitamente latinizzato. Alla letteratura giunge distrattamente, pubblicando sotto pseudonimo una prima serie di limericks, subito di grande successo, che scriveva per i figli del suo datore di lavoro, Lord Derby. Nel fisico era una macchietta: tondo e lustro, spennacchiato, col complesso del naso, fonte d’ispirazione per diverse sue poesie. Io l’ho incrociato una prima volta una decina d’anni fa: invitato a cimentarmi con la traduzione dei suoi limericks, ritenuta impossibile (da Mario Praz fra gli altri), sulle prime ho traccheggiato, ma poi mi sono fatto adescare dalla cadenza ingannevole dei versicoli e, una volta preso il via, non ho più smesso finché non ne ho avuto in mano un bel fastello. Di recente sono tornato sul luogo del diletto per una nuova, anzi interamente rinnovata edizione, presso Einaudi, aggiungendo e sostituendo vari testi e rifacendone di sana pianta parecchi, questo anche per essere più aderente alle immagini, che stavolta accompagnano com’è giusto le brevi liriche, ognuna nata col suo bravo disegnino. La sfida era mantenere lo schema strofico e metrico, le rime nonché l’esile trama narrativa, nella sua illogicità seraficamente consequenziale. Al lettore appurare se l’ho vinta.
Lei ha definito il nonsense dei limericks un “territorio fuorilegge” della letteratura, “una piccola catastrofe del cosiddetto Razionale”.
Può spiegarne il motivo? E quando nasce il limerick?
Il limerick, una forma brevissima – cinque versi, i primi due più lunghi, seguiti da due brevi, e da un ultimo lungo come i primi e che in Lear, e solo in lui, ripete il primo – nasce non si sa bene né quando né dove, anche se batte bandiera irlandese; è poesia giocosa, estemporanea, da botta e risposta, per le rime appunto. Illimitata la produzione in lingua inglese, ricchissima anche soltanto la parte erotica. In Lear di tutto questo non c’è traccia; non c’è una riduzione o una seduzione all’assurdo, come nel caso di tanti altri sottili intellettuali.
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