Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Contro la comunicazione
Conversazione con Mario Perniola
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- ottobre 2005
Ma queste prime determinazioni sollevano già molti interrogativi: il movente del pensiero dell'ultimo Pareyson è poi davvero di natura religiosa, oppure dietro l'aperta e ripetuta dichiarazione di fede si muove un'attenzione, una preoccupazione, una volontà di carattere essenzialmente estetico? La questione del male che s'impone come l'oggetto per eccellenza delle sue meditazioni apre un orizzonte di devozione e di rassegnazione alla volontà di Dio oppure ci introduce in uno stile di esistenza, in una esperienza della vita, in un tipo di condotta, arsi da una ricerca divorante dell'eccesso? e viceversa gli aspetti più propriamente filosofici e speculativi del suo pensiero, così potentemente incardinati al problema dell'opposizione e del conflitto, non sembrano eludere talvolta il confronto con le realtà e con le forze veramente altre rispetto alla soggettività e all'io? l'esperienza infinitamente dolorosa di una realtà che s'impone e ci schiaccia può essere pensata come rapporto con l'istituzione? l'esperienza infinitamente grande della libertà può essere pensata come esercizio della libido?
Forse proprio là dove mi credevo più lontano da lui, come nelle meditazioni sul sentire religioso, ero in realtà più vicino, perché questo sentire manteneva una fondamentale ispirazione estetica; e viceversa, proprio là dove mi credevo più vicino, come nell'oltrepassamento della metafisica, ero in realtà più lontano, perché questa tensione ad andare oltre ogni limite portava verso la trascendenza e verso una visione tragica del mondo e della realtà che sta al polo opposto dello stoicismo. Certo è che il pensiero dell'ultimo Pareyson presenta un carattere essenzialmente enigmatico: egli stesso si è ampiamente soffermato sull'ambiguità della realtà, la quale suscita insieme stupore ed orrore, e sull'ambiguità della libertà, sul suo aspetto nello stesso tempo impenetrabile e plurisignificante. Il fatto di avere ribadito nel modo più energico e solenne l'enigma della filosofia in un'epoca in cui essa scivola verso la banalità e l'autodistruzione, pone Pareyson in una posizione più elevata e più isolata (anche nei confronti della sua scuola) nel quadro della filosofia contemporanea. Da questo punto di vista i tentativi di riportarlo nell'ambito dell'ermeneutica sono riduttivi: il pensiero dell'ultimo Pareyson ha una fecondità speculativa che affonda nell'esperienza della tensione, del conflitto, della duplicità. Le determinazioni opposte della sua meditazione non stanno fisse, ma transitano e si rovesciano le une nelle altre, secondo uno stile di pensiero che nella filosofia italiana ricorda quello di Giordano Bruno. Proprio per la sua impostazione toto coelo differente dalla scolastica, cioè dalla difesa ed illustrazione di una verità prestabilita, il pensiero dell'ultimo Pareyson presenta i caratteri di un'avventura, nella quale tutto può capovolgersi nel suo contrario, in cui l'ambiguità stessa è ambigua perché contiene in se stessa il mimetismo più pedissequo e la separazione più profonda: forse la dinamica del pensiero pareysoniano non porta tanto ad un discorso sull'essere, né ad un discorso sull'esistenza, ma ad un discorso sul doppio, ad un'ontologia del doppio, all'interno della quale la cosa da pensare non è più il rapporto tra originale e copia, ma tra copia e copia, tra una duplicità “buona” che salva, redime, garantisce la continuità, e una duplicità ”cattiva” che annienta, distrugge, dissolve.
Attribuisce molta importanza alla funzione dell’insegnamento?
Ho insegnato in università di nuova istituzione, create in zone culturalmente depresse: a Salerno dal 1970 al 1983 e a Roma "Tor Vergata" dal 1983 a tutt’oggi. Ciò mi ha provocato un senso di frustrazione che le disgraziate recenti vicende non hanno fatto che accrescere. Tuttavia sono convinto che la crisi dell'insegnamento universitario non sia una questione che possa essere avviata a soluzione attraverso una nuova legge o un nuovo metodo di insegnamento o l'esercizio di un controllo sugli allievi. Esso è parte di una crisi più generale che investe il sistema scientifico-professionale su cui si regge l'università moderna (quella creata nei primi decenni dell'Ottocento in Germania, Francia ed Inghilterra). Ciò che caratterizza tale sistema è insieme una socializzazione radicale della scienza per cui questa non è più vista come una investigazione personale e privata dei singoli, ma come un'impresa in cui tutta la società è coinvolta e da cui dipende il suo destino, e una scientificizzazione altrettanto radicale della società, per cui la condizione di ogni azione efficace implica una completa subordinazione ai criteri, alle prospettive e ai procedimenti della conoscenza scientifica. È importante osservare che a partire dall'Ottocento la scienza diventa sociale non perché utile, né perché la maggior parte della società o la parte più influente di essa si rende conto della sua utilità: utile non lo è mai stata, né mai lo è diventata, se si pensa al presupposto che l'ha sempre animata, di essere perseguita per se stessa e non per le conseguenze che comporta; oppure lo è sempre stata, se si pensa alle applicazioni pratiche che da essa sempre sono state tratte. Sociale la scienza è diventata perché si è appropriata completamente della realtà, escludendo da questa tutto ciò che restava irriducibile al suo approccio metodico: la sua socialità non è separabile da una intuizione fondamentale che pensa l'essere dell'ente come oggettività del reale.
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